FIORETTI: PERCHE’ IL CONTRATTO UNICO DI ICHINO NON CONVINCE

DIALOGO A DISTANZA CON MICROMEGA SUL PROGETTO FLEXSECURITY: LE CRITICHE E LE MIE REPLICHE 

Articolo di Renato Fioretti, pubblicato su Micromega il 19 ottobre 2010 – Inframmezzate al testo compaiono alcune mie repliche, evidenziate con paragrafi rientrati, carattere corsivo e colore azzurro – A queste mie repliche R.F. ha controreplicato a sua volta punto per punto: v. quest’ultimo documento, con le mie altrettanto puntuali risposte

   La straordinaria facilità di accesso alle più svariate fonti d’informazione ci consente di seguire “in tempo reale” tutto ciò che accade all’altro capo del mondo, ma, contemporaneamente, l’enorme quantità di notizie disponibili, rende sempre più arduo selezionarne la qualità. In questo quadro, è molto alto il rischio che (anche) fatti e notizie, di grande rilevanza politica e sociale, risultino (sostanzialmente) “oscurati” o, solo marginalmente, rilevati. Questo è quanto, a mio parere, è accaduto rispetto ai contenuti del dibattito sul lavoro, sviluppatosi all’Assemblea nazionale del Pd, del 21 e 22 maggio scorso.
   Recuperando, quindi, l’interessante confronto, coglierò l’occasione per esprimere alcune considerazioni sul Ddl 1481, presentato al Senato da Pietro Ichino. Nei due giorni di discussioni, partendo da un denominatore comune – l’esigenza di ridurre lo squilibrio, in termini di diritti e tutele, prodottosi tra lavoratori “insider” e “outsider” – si fronteggiavano, in sostanza, due posizioni.
   In estrema sintesi, è possibile rilevare che la prima – a sostegno del documento presentato da Stefano Fassina, responsabile nazionale dell’economia – unitamente ad una serie di misure tese a condizionare il ricorso al lavoro a progetto e a tempo determinato, sosteneva la necessità di rendere più onerose le forme di lavoro “atipico”. Per disincentivarne l’uso e, contemporaneamente, promuovere il rapporto di lavoro “standard” (a tempo pieno e indeterminato).
   La proposta alternativa, sostenuta da Ichino, Nerozzi e numerosi altri esponenti, sosteneva, piuttosto, l’esigenza di una revisione dell’art. 2094 del c.c. Nel senso di pervenire alla definizione di “lavoratore economicamente dipendente”, nella quale comprendere anche alcune tipologie contrattuali “atipiche” in regime di “mono – committenza”. Alla nuova formula, ai fini di una sostanziale “unificazione” dei rapporti di lavoro, si accompagnava l’idea di graduare nel tempo le tutele oggi riconosciute a coloro che Ichino definisce “garantiti”.
   Alla conclusione dei lavori, il documento finale di Fassina ”Sviluppo, lavoro, welfare: il decalogo del Pd per il diritto unico del lavoro”, fu approvato con una cinquantina di voti favorevoli e ben quarantadue astensioni.
Immagino che il sostanziale “pareggio” rappresentò una sorpresa solo per coloro i quali, evidentemente, ignoravano che, appena pochi mesi prima, molti tra i presenti avevano sottoscritto due disegni di legge – d’iniziativa dei senatori Ichino e Nerozzi – tesi a trasformare in norme di legge le proposte successivamente avanzate in sede di Assemblea nazionale.
   Rinviando l’esame della proposta Nerozzi a un successivo (eventuale) appuntamento, è utile riproporre all’attenzione del lettore il Ddl 1481, comunicato alla Presidenza del Senato il 25 marzo 2009. Esso presenta numerosi e interessanti elementi di riflessione e, nel rispetto della sintesi, proverò a illustrarne i contenuti ed evidenziarne i motivi di dissenso.
   Innanzi tutto, è opportuno rilevare che l’ipotesi Ichino di: “Uno standard minimo universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito, a stabilità crescente”, può essere considerata una sorta di evoluzione darwiniana del c.d. “Contratto unico” di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, il cui progetto prevedeva – e tutte le occasioni sono buone per ribadirlo e riproporlo – ”Un sentiero a tappe verso la stabilità”.

Se mi è consentita una precisazione su questo punto, osservo che il mio “progetto flexsecurity” era già compiutamente delineato nel libro Il lavoro e il mercato, pubblicato nel 1996. Esso si tradusse in un primo tempo, nel 1997, in un disegno di legge presentato al Senato da Franco Debenedetti, poi, nel 2009, con alcuni rilevanti aggiornamenti e perfezionamenti, nel d.d.l. n.1481 (progetto di sperimentazione) e nel d.d.l. n. 1873 (flexsecurity nel quadro del nuovo Codice del lavoro). (p.i.)

   Rispetto alla proposta Boeri, che già fu oggetto di uno schietto e approfondito dibattito con Massimo Roccella, attraverso le pagine della versione cartacea di Micromega, quella di Ichino presenta, come già anticipato, alcuni elementi di novità. In primis, al fine di offrire tutte le informazioni possibili rispetto ai motivi del mio dissenso, è utile riportare l’incipit della relazione di accompagnamento al Ddl 1481.
   La stessa rileva la situazione “di vero e proprio apartheid che divide i 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e dipendenti stabili da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dagli altri 9 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno”. E ancora: “Un Paese moderno, attento alle comparazioni con le esperienze dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera, infatti, da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico – produttive”.
   Nel merito della proposta, è opportuno evidenziare che la stessa, al pari del contratto unico, prevede la stipula di un contratto a tempo indeterminato, una durata della prova non superiore a sei mesi (tre mesi, nella versione Boeri), un periodo d’inserimento nel corso del quale – in deroga all’art. 18 dello Statuto – sarebbe possibile il licenziamento per motivi economici o organizzativi, un risarcimento economico all’atto del recesso, un contratto di “ricollocazione al lavoro” e una diversa modalità di gestione del preavviso.
   Rispetto al tipo di contratto, vale, per Ichino, quanto autorevolmente contestato da Roccella a Boeri. In effetti, piuttosto che di un contratto a tempo indeterminato “classico”, si tratterebbe di una sorta di contratto a termine “a scadenza variabile” nell’arco della sua vigenza. In sostanza, una nuova tipologia contrattuale da aggiungere alle tante già esistenti.

Sul piano tecnico-giuridico, questa critica di Massimo Roccella mi sembra davvero sbagliata. Sostenere che dovunque non si applichi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il rapporto di lavoro debba qualificarsi come contratto a termine equivale a sostenere che in tutto il resto di Europa (dove il licenziamento è disciplinato in modo diverso dal nostro articolo 18) esistano soltanto rapporti di lavoro a termine; ovviamente non è così: altrimenti tutti i Paesi dell’Unione europea sarebbero fuori-legge rispetto al diritto comunitario, che vieta di consentire il contratto a termine come forma normale di rapporto di lavoro. Lo stesso identico discorso potrebbe farsi, poi, in riferimento alle imprese italiane con meno di 16 dipendenti: non può certo sostenersi che tutti i loro dipendenti siano assunti a termine. (p.i.)

   In più, per tutta la sua durata, resterebbe sospesa la possibilità di ricorrere contro un licenziamento senza “giusta causa”. Tra l’altro – e si tratta di un particolare di non trascurabile importanza – mentre Boeri prevede un c.d. “periodo d’inserimento” della durata massima di tre anni, la proposta di Ichino si candida a battere qualsiasi record. Infatti, la flessibilizzazione prevista dal Ddl 1481 si estende ai primi venti anni del rapporto; con pari durata della deroga all’art. 18!

Il mio progetto, sia nella versione sperimentale (d.d.l. n. 1481), sia nella versione organica (d.d.l. n. 1873), non prevede una “deroga” temporanea all’articolo 18, come fa il progetto Boeri-Garibaldi, bensì un regime generale radicalmente alternativo all’articolo 18: un regime generale ispirato al modello scandinavo, quindi radicalmente alternativo rispetto al regime oggi vigente in Italia, ispirato al c.d. modello mediterraneo. (p.i.) 

La tutela “reale”, prevista dalla vigente legislazione, sarebbe limitata al licenziamento disciplinare e a quello dettato da motivi discriminatori. Su questo punto, oltre ad evidenziare che, per un lavoratore, dimostrare di essere vittima di un licenziamento dettato da un motivo discriminatorio o “di mero capriccio” è quasi impossibile – stante l’onere “della prova” a suo carico -, […]

Ma perché mai in Italia dovrebbe essere impraticabile una efficace protezione anti-discriminatoria, come accade in tutti i Paesi più civili? E non è forse una efficace protezione anti-discriminatoria quella prevista dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori contro i comportamenti antisindacali, applicata nell’ultimo quarantennio in modo molto incisivo dai giudici del lavoro italiani? (p.i.)

[…] è opportuno rilevare che il Ddl 1481prevede (anche) la possibilità che il giudice, in entrambi i casi – tenuto conto delle circostanze (?) – disponga la sola reintegrazione con azzeramento o riduzione del risarcimento del danno, oppure il solo risarcimento!

Non è vero: questa disposizione – che riprende testualmente un disegno di legge a prima firma di Tiziano Treu del 2000 – non è dettata in riferimento al licenziamento discriminatorio, ma soltanto in riferimento al licenziamento disciplinare. Chiunque abbia esperienza della materia sa quanto sia frequente che il giudice si trovi di fronte a un licenziamento motivato con una mancanza grave o gravissima effettivamente dimostrata, ma viziato da difetti soltanto formali, oppure soltanto da difetto di immediatezza della contestazione disciplinare; oppure che il giudice si trovi di fronte a una situazione in cui non si è raggiunta in giudizio la certezza della responsabilità del lavoratore, che risulta tuttavia altamente probabile, con conseguente grave inopportunità della reintegrazione nel posto di lavoro (si pensi al caso – accaduto di recente – di un insegnante di cui non sia certo, ma soltanto molto probabile che abbia molestato sessualmente una propria allieva). In questi casi, consentire al giudice di disporre soltanto il risarcimento del danno può corrispondere a esigenze di evidente ragionevolezzza. (p.i.)

   Un altro punto, che ricalca quanto previsto dal contratto unico, è la previsione di un indennizzo a favore del lavoratore licenziato per motivi economici/organizzativi. Lo stesso è pari a tanti dodicesimi della retribuzione lorda quanti sono gli anni compiuti di anzianità di servizio. A solo titolo di curiosità, vale la pena rilevare che la versione Boeri prevede un ammontare del risarcimento pari al doppio di quanto indicato nel Ddl in esame.

Ma nel mio progetto all’indennità di licenziamento si aggiunge il trattamento complementare di disoccupazione, della durata di tre anni a regime (quattro nella versione sperimentale) interamente a carico dell’impresa che licenzia: trattamento che è invece del tutto assente nel progetto Boeri-Garibaldi. (p.i.)

   Un altro elemento di novità è rappresentato dal c.d. “Contratto di ricollocazione al lavoro”. Esso prevede che al lavoratore licenziato per motivi economici o non reintegrato, sia offerto, da parte di un’Agenzia all’uopo costituita (ennesimo Ente bilaterale “di scopo”): a) un trattamento economico complementare, a scalare nel tempo, per il periodo di disoccupazione; b) assistenza nella ricerca di una nuova occupazione; c) iniziative di formazione professionale.

Il mio progetto non vincola le imprese ad avvalersi di un’agenzia in forma di ente bilaterale: la scelta della struttura cui affidare l’assistenza dovuta al lavoratore è del tutto libera. L’idea è che, gravando sull’impresa il trattamento complementare di disoccupazione, questa avrà un fortissimo incentivo a far sì che il lavoratore sia ricollocato al più presto, quindi a scegliere i servizi di outplacement e di riqualificazione professionale migliori. (p.i.)

   A ben vedere, però, la novità non è poi tale. A parte la previsione di un nuovo “ammortizzatore sociale” (finanziato dalle aziende), resterebbero funzioni di “politiche attive del lavoro” già ampiamente previste (e in gran parte disattese) dalla famigerata “riforma del collocamento”!
   Rappresenta, al contrario, un’ipotesi assolutamente inedita la possibilità che, all’atto della comunicazione del preavviso di licenziamento – pari a tanti mesi quanti sono gli anni di anzianità in azienda, con un massimo di dodici – il lavoratore abbia la facoltà di scegliere tra la cessazione immediata del rapporto (con conseguente godimento della prevista indennità economica) e la prosecuzione della prestazione lavorativa fino alla scadenza dello stesso.
   Anche qui, contrariamente a quanto si possa presupporre, ritengo si tratti di un’opzione solo apparentemente favorevole. Personalmente, nel considerare un più o meno lungo periodo di “preavviso lavorato”, in alternativa all’immediato recesso, la scelta prevedibilmente operata dalla stragrande maggioranza dei lavoratori, immagino il conseguente “stato di soggezione” cui sarebbe costretto il “licenziando” nei confronti di un datore di lavoro che – se disponibile, e a certe condizioni – potrebbe, in un arco di tempo lungo fino a dodici mesi, anche revocare il provvedimento.

Qui davvero non capisco la critica. Perché mai dovrebbe costituire un danno per il lavoratore la libertà di scelta tra godere del preavviso lungo o andarsene sbattendo la porta e incassando in una volta sola tutta la relativa retribuzione? Questa possibilità è invece molto vantaggiosa per la persona interessata, perché: a) se essa ha già (o riesce a trovare nel giro di un tempo breve) un’occupazione alternativa, può andarsene quando vuole, anche subito, prendendo l’indennità sostitutiva del preavviso; b) in caso contrario, ha un tempo congruo per cercarsi un’altra occupazione dalla posizione di persona occupata e non disoccupata: chiunque abbia qualche esperienza in questo campo sa bene quanto questo possa costituire un vantaggio per chi cerca lavoro. A queste considerazioni ne aggiungo un’ultima: in molti casi, il danno peggiore derivante dal licenziamento è quello che il lavoratore subisce in termini di mortificazione per l’improvvisa recisione dei rapporti professionali e di amicizia con i colleghi di lavoro, ma anche di mortificazione di fronte ai propri amici e parenti, per il fatto di trovarsi sia pur solo temporaneamente privato del lavoro e  disoccupato. La disponibilità di qualche settimana o mese per trovare la nuova occupazione senza periodi di interruzione può valere più di un grosso indennizzo. Per altro verso, se l’impresa revocasse il licenziamento nel corso del preavviso lungo, sarebbe ancora una volta il lavoratore a poter decidere se accettare la revoca oppure no. (p.i.)

   Potenzialmente, in aggiunta al licenziamento per giustificati motivi oggettivi e a quello per esigenze economico-produttive, si tratterebbe di una vera e propria “spada di Damocle” strategicamente sospesa sul capo di tutti i lavoratori. Uno straordinario (e ulteriore) deterrente a disposizione dei datori di lavoro poco affidabili.

Vale a questo proposito quanto ho appena scritto poco sopra. (p.i.)

   Relativamente ai lavoratori “atipici”, Ichino prevede di comprendere tra i lavoratori dipendenti “I prestatori d’opera personale a carattere continuativo che traggano più di due terzi del proprio reddito complessivo dal rapporto con l’azienda medesima”. Salvo il caso in cui “La prestazione lavorativa sia svolta in condizione di autonomia e ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: a) retribuzione annua lorda superiore a 40 mila euro; b) iscrizione del lavoratore all’ordine degli avvocati o altro ordine o albo professionale incompatibile con la posizione di lavoratore dipendente”.
   A questo punto, è d’obbligo il riferimento alla relazione di accompagnamento al Ddl 1481.
Concordando con l’autore, circa il fatto che l’iniquità dei trattamenti rappresenta il motivo determinante della precarietà di lunga durata – per ragioni, per altro, che hanno poco a che vedere con le esigenze tecnico-produttive delle aziende – perché mai la condizione di apartheid andrebbe abbattuta solo ed esclusivamente a beneficio di poche centinaia di migliaia di lavoratori (prestatori d’opera a carattere continuativo, in regime di sostanziale mono – committenza)? E i restanti nove milioni di lavoratori, che lo stesso definisce sostanzialmente dipendenti?

La nuova disciplina prevista nei d.d.l. n. 1481 e 1873 è destinata ad applicarsi soltanto a chi verrà assunto dalla sua entrata in vigore in avanti, accorpando in un’unico nuovo sistema di protezione unitario tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza economica (quindi anche quasi tutti quelli che oggi sono qualificati come “parasubordinati” e molti di quelli che oggi lavorano “con partita Iva”, pur traendo di fatto un modesto stipendio da un unico committente). I nove milioni di lavoratori cui oggi si applica l’articolo 18 restano con questa vecchia disciplina. La questione che deve correttamente porsi è dunque questa: per chi cerca lavoro è migliore la situazione che gli/le si offre oggi nel mercato del lavoro italiano, a legislazione invariata, o è migliore la situazione che gli si offrirebbe con il regime di flexsecurity delineato nel progetto? Il 95 per cento dei giovani cui ho posto questa domanda, nei due anni scorsi, sceglie il nuovo regime senza alcuna esitazione. La riforma che propongo, dunque, non cambia per nulla la posizione di chi ha già un lavoro stabile e migliora le prospettive di chi oggi un lavoro stabile non ce l’ha; sul punto che anche le imprese ci guadagnerebbero, rinvio alle molte cose scritte in argomento nei mesi scorsi (ma di questo Fioretti sembra non dubitare); gli unici danneggiati, dunque, sarabbero gli avvocati, che perderebbero gran parte del contenzioso in materia di licenziamento; se ne faranno una ragione. (p.i.)

   Si deve ritenere che coloro i quali offrono la loro prestazione attraverso (finte) associazioni in partecipazione (di solo lavoro), rapporti a termine (senza alcuna causale oggettiva e reiterati per anni), agenzie di somministrazione e ogni altra “diavoleria”, consentita da quel grande “supermarket delle tipologie contrattuali” rappresentato dal decreto legislativo 276/03, siano da considerare – per dirla alla Ichino – lavoratori “garantiti”?

I rapporti di lavoro in partecipazione sono esplicitamente ricompresi – secondo il mio progetto – nel nuovo regime. Il contratto a termine è consentito soltanto nei casi specificamente elencati (che sono poi in sostanza quelli previsti dalla legge n. 230/1962, prima della riforma  del 2001), con un onere per l’impresa di corrispondere al termine una indennità pari a quella di licenziamento, nel caso di mancata conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il lavoro temporaneo tramite agenzia è consentito soltanto nei casi in cui sarebbe consentito il contratto a termine e con identico trattamento. Quanto al preteso “supermarket delle tipologie contrattuali” che sarebbe stato istituito dal d.lgs. n. 276/2003 (legge Biagi) se Fioretti riesce a indicarmi un solo rapporto di lavoro precario disciplinato da questa legge che non esistesse già prima, sia pure con altro nome, e che prima non fosse regolato in misura meno restrittiva, gli pago una cena. Finché a sinistra non smetteremo di dire sciocchezze sul contenuto di questa legge, continueremo a mancare clamorosamente il bersaglio nella nostra “lotta al precariato”. Sveglia, compagni!  (p.i.)  

   Infine, per concludere, è possibile condividere il principio secondo il quale ridurre le tutele – in termini di deroga ventennale all’art. 18 e sua profonda “manomissione” – a coloro che ne beneficiano, per ridurre il gap tra “garantiti” e “paria”, rappresenti un’opera di equità sociale?

Ripeto quanto ho scritto sopra: questo progetto non riduce le tutele proprio a nessuno. La nuova disciplina è destinata ad applicarsi soltanto a chi verrà assunto da qui in avanti, abolendo drasticamente, nell’area della sostanziale “dipendenza economica”, l’apartheid tra protetti e non protetti o poco protetti. E si osservi, in proposito, come il criterio adottato per definire il lavoratore “economicamente dipendente” (monocommittenza e limite di 40.000 euro di reddito annuo) sia tale da consentire l’accertamento del requisito in modo automatico, senza bisogno di ispettori o di avvocati e giudici: esso può essere rilevato direttamente e immediatamente dai tabulati dell’Inps o dell’Amministrazione fiscale. La questione è dunque soltanto questa: per un giovane che non sa quale sarà il suo futuro nel mercato del lavoro è migliore la prospettiva che gli si offre oggi (due terzi di probabilità di restare per anni con una sequenza di rapporti di lavoro a termine, o “a progetto”, o “con partita Iva”), o quella che gli si offrirebbe secondo il progetto flexsecurity?    (p.i.)

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