IL PUNTO SULLA RIFORMA DEI SERVIZI NEL MERCATO DEL LAVORO

PER QUEL CHE RIGUARDA IL COLLOCAMENTO, QUELLA DELLE LEGGI TREU E BIAGI ERA LA STRADA GIUSTA – MA SUL TERRENO DELL’ORIENTAMENTO PROFESSIONALE SIAMO ANCORA ALL’ANNO ZERO
Intervista a cura di Giuseppe Sabella, pubblicata su www.tempi.it – il 4 novembre 2010

Parla il professor Pietro Ichino, senatore del Pd e docente di Diritto del lavoro: «La strada imboccata con la legge Treu prima e con la legge Biagi dopo, è quella giusta. Devono però crescere i servizi di mediazione e l’orientamento professionale». Pietro Ichino è stato protagonista del caso Job Centre del 1997, quando la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha stabilito che il monopolio del collocamento pubblico non solo era in contrasto con i principi comunitari a protezione della libera concorrenza, ma non era nemmeno in grado di soddisfare la domanda esistente sul mercato del lavoro.

Professor Ichino, nella riforma del mercato del lavoro è stata fondamentale la sua attività forense. Ritiene che le prospettive nate allora abbiano oggi un quadro normativo adeguato?
C’è ancora, per un verso, qualche vincolo di troppo: chiunque dovrebbe poter svolgere attività volte a favorire l’incontro fra domanda e offerta nel mercato del lavoro, purché si faccia conoscere e svolga l’attività alla luce del sole. Per altro verso, c’è ancora qualche difetto di trasparenza e correttezza sostanziale da parte di qualche operatore formalmente regolare, che non è stato adeguatamente risolto.

Crede che, al di là di possibili divergenze, la strada imboccata dalla riforma in atto del mercato del lavoro, sia quella giusta o debba essere rivista?
Se si riferisce alla strada imboccata con la legge “Treu” del 1997 e poi con la legge “Biagi” del 2003, la mia opinione è che la strada imboccata sia quella giusta. Ma c’è ancora qualche passo in più da fare, sul terreno dei servizi di mediazione, per attrezzare meglio il mercato, per rendere i servizi più capillari ed efficienti. E c’è ancora moltissimo da fare sul terreno dell’orientamento professionale, che in Italia è carentissimo.

Perché tentare di modernizzare il lavoro in Italia provoca forti tensioni?
Perché per troppo tempo la vecchia sinistra politica e sindacale ha praticato la tecnica del tabù, per bloccare sul nascere il dibattito su questi temi. E, da parte della vecchia destra, troppo sovente si è pensato bene di speculare sulle sclerosi culturali della sinistra.

Nella riforma delle relazioni industriali, anche da lei auspicata, come si collocano i casi “Pomigliano” e “Melfi” di quest’anno?
Si collocano come una tappa importante: hanno segnato la fine del dogma dell’inderogabilità del contratto collettivo nazionale e hanno imposto in agenda la questione dei criteri di rappresentatività sindacale nei luoghi di lavoro.

Cosa non condivide del Collegato Lavoro e cosa cambierebbe?
Non ne condivido la disorganicità, l’eterogeneità delle materie, l’illeggibilità. In particolare, i quaranta commi e sottocommi in materia di arbitrato avrebbero potuto essere sostituiti da tre righe, che dicessero soltanto questo: “Su tutte le materie che sono oggetto di disciplina del contratto collettivo e non sono oggetto di disciplina inderogabile di legge, il contratto stesso può disporre e regolare la soluzione arbitrale delle controversie, con effetto vincolante per tutti i datori e prestatori cui il contratto si applica”. Questa riforma in tre righe sarebbe stata molto più efficace, per decongestionare i tribunali del lavoro, della disciplina della materia che è stata dettata, complicatissima, che per questo avrà applicazione limitatissima.

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