UNIVERSITA’: I TAGLI CHE FAREBBERO MENO MALE (ANZI, FAREBBERO BENE)

TUTTI I PAESI MAGGIORI SONO COSTRETTI A OPERARE TAGLI NELLA SPESA PUBBLICA, ANCHE IN QUELLA PER L’ISTRUZIONE; MA I PAESI PIU’ AVANZATI SONO CAPACI DI RECUPERARE RISORSE IN MODO SELETTIVO, COSI’ RIDUCENDO I CONTRACCOLPI NEGATIVI E, ANZI FACENDO DELLA RIDUZIONE DELLA SPESA UN MOMENTO DI RECUPERO DI EFFICIENZA

Editoriale di Andrea Ichino pubblicato su il Sole 24 Ore del 12 dicembre 2010

         Anche Paesi più solidi del nostro, come il Regno Unito, sono costretti a tagliare pesantemente la spesa pubblica e in particolare i fondi per l’istruzione e la ricerca. Ma all’estero, gli atenei hanno margini di flessibilità più ampi dei nostri per fronteggiare con traumi minori la riduzione dei finanziamenti. In primo luogo, la possibilità di diminuire la spesa complessiva per i dipendenti ossia il “monte salari”, che è dato dal prodotto di ciascun livello retributivo per il numero di lavoratori che lo percepiscono. In secondo luogo, e ancor più importante, la possibilità di modificare liberamente, ma in direzioni opposte per il monte salari dato, i livelli retributivi e il numero di lavoratori corrispondenti. Purtroppo, né la riforma Gelmini né le proposte dell’opposizione affrontano questo problema centrale per il sistema universitario italiano. Senza una sua soluzione, anche i piccoli passi avanti introdotti dalla riforma non potranno generare effetti davvero positivi.
         Immaginiamo un ateneo che spenda 70 per le retribuzioni dei dipendenti e 30 per tutte le altre funzioni. A causa della crisi, i suoi fondi sono tagliati del 25% e supponiamo che nulla si possa fare per evitarlo o che si preferisca riformare il sistema prima di rifinanziarlo. Alla gravità del taglio si aggiunge, però, il fatto che esso deve interamente concentrarsi sul 30 costituito dalle “altre spese”, perché le retribuzioni dei dipendenti e il loro numero sono intoccabili. Così l’ateneo si ritrova a spendere solo 5 per tutto quel che deve fare, oltre ai 70 dell’invariato monte salari. In particolare non può, come sembrerebbe logico, distribuire i tagli nel modo più efficiente tra le varie voci di spesa, inclusa quella per i dipendenti.
         Che senso ha strangolare l’attività dell’ateneo limitando la sua flessibilità nella gestione dei tagli, mentre ci sarebbero dipendenti che costano molto e producono poco (un caso purtroppo assai frequente nell’accademia italiana), e quindi sui quali scaricare i tagli avrebbe effetti molto meno deleteri?
         L’intoccabilità del monte salari congiunta alla flessibilità obbligata delle altre voci di bilancio, è il motivo per cui oggi gran parte degli atenei italiani si ritrovano con oltre il 90% del loro budget bloccato da spese per i dipendenti e sono per questo incapaci di svolgere le loro funzioni. Questo accade anche per gli atenei fino a qualche anno fa ritenuti virtuosi, perché pure per questi, a furia di tagliare solo le altre voci, la spesa per dipendenti è l’unica rimasta.
         Ciò di cui gli atenei avrebbero bisogno invece, soprattutto in un momento di contrazione del finanziamento complessivo, sarebbe di poter ridurre anche il monte salari licenziando i cattedratici improduttivi e usando le imponenti risorse che così si libererebbero per assumere e promuovere i migliori (ma solo i migliori) giovani ricercatori. Lo scambio tra minore quantità e maggiore qualità, anche se meglio retribuita, potrebbe consentire di contrarre il monte salari con danni meno pesanti per il buon funzionamento degli atenei.
         “Ma gli studenti sono tanti”, dirà qualcuno. Chi ha detto, però, che dobbiamo ammetterli tutti? Nella maggior parte degli altri Paesi l’accesso all’università è riservato solo agli studenti che se lo meritano, con aiuti finanzi per i meno abbienti, ai quali serve un’università selettiva e di qualità, non un inutile pezzo di carta dato a tutti. Anche nel caso degli studenti, quindi, basterebbe scambiare quantità per qualità, generalizzando il numero chiuso e abolendo la demagogica liberalizzazione delle ammissioni.
         Tutto questo sarebbe possibile impostando la riforma del sistema universitario (ma anche di quello scolastico) in modo radicalmente diverso da quello che tutti i progetti in discussione, incluso quello Gelmini, propongono. Ossia una riforma basata sul binomio “autonomia-valutazione”, che lasci liberi gli atenei di organizzarsi liberamente come meglio preferiscono soprattutto nella gestione delle risorse umane e dell’offerta formativa, salvo erogare loro i fondi solo sulla base del raggiungimento di risultati soddisfacenti nella ricerca e nella didattica. Una riforma che lasci libero l’ateneo A di spendere tutto il suo monte salari per pochi ottimi ricercatori che insegnino a pochi ottimi studenti, e all’ateneo B invece di assumere molti docenti meno interessati alla ricerca di frontiera e pronti ad accettare carichi didattici maggiori per studenti che non siano interessati ad avere e a dare il massimo. Stesso budget, magari, ma scelte diverse tutte potenzialmente desiderabili purché diano, ciascuna nel proprio campo, buoni risultati.
         Senza questi margini di flessibilità, gli atenei diventeranno dei falansteri pieni di insegnanti dequalificati e sottopagati e di studenti in parcheggio privi della speranza di trovare lavoro. E tutti, insegnanti e studenti, si guarderanno negli occhi non disponendo nemmeno dei banchi, dei gessi e delle lavagne per fare lezione.  

 

 

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