NELLA LOTTA ALL’APARTHEID CONTRO I GIOVANI QUALCOSA FINALMENTE SI MUOVE

DOPO IL VOTO DEL SENATO DEL 10 NOVEMBRE, CHE A LARGA MAGGIORANZA IMPEGNA IL GOVERNO A VARARE UN CODICE DEL LAVORO SEMPLIFICATO, ISPIRATO AL PROGETTO FLEXSECURITY, LA RIFORMA DEL DIRITTO DEL LAVORO APPARE MATURA NON PIU’ SOLTANTO SUL PIANO TECNICO, MA ANCHE SU QUELLO POLITICO

“Lettera sul lavoro” pubblicata sul Corriere della Sera il 19 dicembre 2010

Caro Direttore, sul Corriere di ieri la madre di una giovane lavoratrice “di serie B” pone al Governo e al Parlamento una domanda precisa: che cosa intendete fare per restituire alla generazione dei nostri figli una prospettiva decente nel mercato del lavoro? Quella lettera esige, a buon diritto, risposte puntuali sia sulla diagnosi del male, sia sul che fare per curarlo.
     Sulla diagnosi, raccomanderei a madre e figlia di non accontentarsi della risposta tradizionalmente cara ai sindacalisti vecchia maniera: quella secondo cui è solo un problema di economia fiacca e stagnante e di carenza di domanda di lavoro (per lo più, secondo quell’impostazione, per difetto di interventi pubblici). No, è anche un problema di difetto delle regole che disciplinano il mercato del lavoro. Il rapporto di lavoro di serie A, quello caratterizzato da un forte tasso di stabilità, è stato disegnato mezzo secolo fa, quando era normale che un giovane entrasse in un’azienda a diciott’anni con una mansione e con la prospettiva di conservare per trenta o quarant’anni quella stessa qualifica in quella stessa azienda. Allora nei luoghi di lavoro non c’erano i pc e internet; ma non c’erano neppure le fotocopiatrici e i telefax. Da allora è cambiato tutto; ed è diventato enormemente più rapido il ritmo di evoluzione delle tecniche produttive e degli stessi prodotti, quindi anche il ritmo di avvicendamento delle imprese nel tessuto produttivo. Di conseguenza è aumentata anche l’incertezza cui qualsiasi imprenditore deve far fronte circa il futuro della propria azienda, non soltanto a lungo termine, ma anche nell’orizzonte dei due o tre anni. Donde il suo tendenziale rifiuto, nelle nuove assunzioni, verso un tipo di rapporto di lavoro troppo rigidamente stabile.
     Ha ragione l’autrice della lettera al Corriere: se le cose stanno così, lasciamo pure quel tipo di rapporto di lavoro agli ormai pochi (meno di metà del totale dei lavoratori dipendenti italiani) che oggi ne godono; ma ridisegniamo il diritto applicabile a tutte le nuove assunzioni in modo da renderlo più adatto al nuovo contesto, e al tempo stesso più universale. In modo, cioè, da garantire il superamento graduale dell’attuale apartheid fra protetti e non protetti: d’ora in poi, tutti a tempo indeterminato, anche se nessuno inamovibile; a tutti, invece, nel caso di perdita del posto di lavoro, una garanzia di sostegno del reddito crescente con l’anzianità di servizio, di continuità della contribuzione previdenziale e di assistenza efficace nel mercato, secondo il modello della flexsecurity nordeuropea.
     Poi, certo, c’è anche il problema della stagnazione economica del nostro Paese e del conseguente difetto di domanda di lavoro. Ma anche questo è in parte riconducibile a un difetto delle regole che disciplinano il lavoro e le relazioni industriali. Esclusa la svalutazione e gli aiuti di Stato alle imprese, la leva più efficace di cui oggi disporremmo – se sapessimo azionarla – per accelerare la crescita della nostra economia è costituita dall’apertura del nostro Paese agli investimenti stranieri: se fossimo capaci di allinearci per questo aspetto anche soltanto alla media europea, questo ci frutterebbe un flusso dall’estero di molte decine di miliardi di investimenti ogni anno. Tra le cause della nostra chiusura attuale ci sono, certo, i difetti delle nostre amministrazioni pubbliche e delle nostre infrastrutture, che non si possono risolvere in quattro e quattr’otto; ma c’è anche una nostra legislazione del lavoro lontana dagli standard internazionali, astrusa, non traducibile in inglese; e abbiamo un sistema di relazioni industriali inconcludente, oltre che tendenzialmente chiuso ai piani industriali innovativi. Correggere questi ultimi difetti è tecnicamente possibile in tempi brevi e a costo zero.
     La notizia che forse può dare qualche speranza in più all’autrice della lettera e alla sua figlia in attesa di un lavoro decente è che la soluzione rapida di questa parte del problema non è matura soltanto sul piano tecnico, ma anche sul piano politico. Il 10 novembre scorso il Senato ha approvato quasi all’unanimità – 255 voti favorevoli, solo 26 tra contrari e astenuti – la mozione di Francesco Rutelli che impegna il Governo a varare un Codice del lavoro unificato e semplificato, ispirato al modello della flexsecurity nordeuropea, secondo il progetto delineato nel disegno di legge n. 1873, presentato nel novembre 2009 da 55 senatori: tutta la legislazione nazionale sul rapporto di lavoro in 70 articoli.
     Il progetto, ovviamente, è perfettibile in ogni sua parte. Altrettanto ovviamente, esso non è l’unico proponibile; ma, dopo quel voto del Senato, chi intende proporre una soluzione diversa ha l’onere di presentarne il progetto in Parlamento subito, nero su bianco. Altrimenti, a questo punto, il continuare a non far nulla contro l’apartheid denunciato nella lettera al Corriere di quella madre in ansia significa una sola cosa: che, tutto sommato, questo regime lo consideriamo accettabile.

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