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MIRAFIORI: IL PASSO AVANTI NECESSARIO

L’APERTURA DEL PAESE AGLI INVESTIMENTI STRANIERI E AI PIANI INDUSTRIALI INNOVATIVI RICHIEDE NUOVE REGOLE CAPACI DI CONCILIARE L’EFFETTIVITA’ ED EFFICACIA DEI CONTRATTI SUI PIANI INDUSTRIALI INNOVATIVI CON IL PLURALISMO SINDACALE

“Lettera sul lavoro” pubblicata sul Corriere della Sera il 30 dicembre 2010

            Caro Direttore, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri [1] sollecita una risposta chiara da parte del Partito Democratico a questa domanda: sul terreno delle riforme di cui il Paese ha urgente bisogno, da che parte sta la vostra opposizione all’azione del governo, in avanti o all’indietro? Panebianco indica diverse materie sulle quali la risposta deve essere puntuale, netta e concreta; una di queste è la materia del lavoro e delle relazioni industriali, nella quale la vicenda Fiat sta portando a una svolta epocale.

            Nello stesso giorno, su Repubblica due editoriali – quello di Stefano Rodotà e quello di Tito Boeri [2] – sembrano dare, proprio in riferimento alla vicenda Fiat, due risposte di segno opposto: Rodotà denuncia l’accordo di Mirafiori come un “ritorno al Medioevo” delle relazioni industriali, Boeri denuncia l’inerzia del governo e del legislatore nel porre le regole necessarie perché non solo l’accordo di Mirafiori, ma cento altri analoghi possano consentire l’afflusso di quegli investimenti e di quei piani industriali innovativi ai quali il nostro Paese è oggi drammaticamente chiuso. Su questa materia, la domanda di Panebianco può tradursi così: il Pd sta con Rodotà o con Boeri?

            Non ho titolo per rispondere a nome dell’intero Pd (al cui segretario, comunque, tutti abbiamo titolo per chiedere una risposta molto più chiara di quella data finora su questo punto). Posso farlo, però, almeno a nome di quella larga parte dello stesso partito che si riconosce nel progetto di riforma del diritto sindacale contenuto nel disegno di legge n. 1872 [3], presentato l’anno scorso da 55 senatori democratici. Quel progetto – che i lettori del Corriere ben conoscono – muove dalle stesse considerazioni proposte ieri da Tito Boeri. Tra le cause principali della chiusura del nostro Paese agli investimenti delle multinazionali sta anche, insieme ad altre cause strutturali e a una legislazione sul rapporto di lavoro complicatissima e intraducibile in inglese, l’inconcludenza del nostro sistema di relazioni industriali: un sistema nel quale non è chiaro chi abbia il potere di contrattare un piano industriale innovativo con effetti vincolanti per tutti i lavoratori interessati; e le minoranze sindacali hanno di fatto un potere di veto sulle scelte compiute dalle coalizioni maggioritarie. Occorre dunque dotare il Paese di regole semplici capaci di rispondere positivamente alle questioni poste dalla “sfida” di Marchionne, conciliando l’effettività del contratto con il pluralismo sindacale.

Il progetto delinea un assetto nel quale il contratto collettivo nazionale continua ad applicarsi a tutte le aziende del settore, ma soltanto se non vi sia un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale che abbia la maggioranza dei consensi nell’impresa interessata. Contiene poi una definizione precisa dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati; sancisce il potere della coalizione sindacale maggioritaria di negoziare il piano industriale a 360 gradi, compresa la clausola di tregua che impegna a non scioperare contro il contratto stesso, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti dell’azienda. Alla minoranza sindacale, a cui in questo modo viene tolto il potere di veto, viene però garantito il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando non abbia firmato il contratto: ciò che la legge oggi vigente non garantisce.

Certo, sarebbe molto meglio se queste regole potessero essere fatte oggetto di un accordo interconfederale firmato da tutte le confederazioni maggiori. Ma questa prospettiva è purtroppo assai lontana: c’è pieno consenso, infatti, tra Cgil Cisl e Uil sui criteri per la misurazione della rappresentatività nei luoghi di lavoro, ma – come rileva il segretario della Uil Angeletti sulla Stampa di ieri – il consenso non c’è sul collegamento necessario tra rappresentatività e potere di contrattare in azienda, anche in deroga al contratto nazionale. Inoltre la Cisl teme che una riforma legislativa di questo genere irrigidisca, invece che fluidificare, il nostro sistema delle relazioni industriali, impedendo la contrattazione a chi si trova a essere minoranza (ma la nuova norma non impedirebbe a nessuno la stipulazione, a qualsiasi livello, di contratti che aumentino gli standard di trattamento; si limiterebbe a consentire, regolandolo, ciò che oggi in Italia non può fare nessuno in condizioni di sufficiente certezza del diritto: cioè stipulare contratti che deroghino al contratto nazionale).

Il peggio che possiamo fare è stare fermi: il difetto delle regole necessarie rischia non soltanto di essere pericoloso per il principio del pluralismo sindacale, ma anche di essere paralizzante per progetti ambiziosi – e preziosi per il Paese – come quello della “Fabbrica Italia” di Marchionne.