PARLAMENTARE E AVVOCATO: SÌ O NO?

AL LETTORE CHE CHIEDE IL MIO PARERE SULL’OPPORTUNITÀ DI VIETARE L’ATTIVITÀ FORENSE A DEPUTATI E SENATORI, PER EVITARE I POSSIBILI CONFLITTI TRA GLI INTERESSI DELLA COLLETTIVITÀ E QUELLI DEI LORO CLIENTI, SPIEGO PERCHÉ ALCUNE LIMITAZIONI MI SEMBRANO OPPORTUNE, MA UN DIVIETO DRASTICO NO

Messaggio pervenuto l’11 giugno 2011 – Segue la mia risposta

Caro Ichino,
seguo da tre anni il suo lavoro parlamentare di settimana in settimana attraverso la sua Newsletter, essendo, credo, uno degli iscritti con maggiore anzianità, e non per caso: condivido praticamente tutte le sue opinioni. Ogni lunedì ho la soddisfazione di pensare “ho contribuito a eleggerlo e ora ho una voce in Parlamento che dice proprio quello che vorrei dire io, meglio di come lo direi io”. Ora le scrivo per questo: domani voterò per l’abrogazione di quel che resta della legge sul legittimo impedimento, scritta dagli avvocati-parlamentari di Silvio Berlusconi al solo fine di sottrarlo ai processi in cui è imputato. E mi chiedo: non sarebbe stato meglio che quegli avvocati avessero continuato a svolgere il loro patrocinio ben retribuito nei loro studi, invece di utilizzare il seggio parlamentare come succursale degli studi stessi? E a lei, che è parlamentare, professore e avvocato, chiedo: non sarebbe meglio stabilire una incompatibilità tra attività parlamentare e avvocato, allo stesso modo in cui si è stabilita l’incompatibilità tra quella di parlamentare e quella di professore?
La ringrazio dell’attenzione e della risposta che vorrà darmi
Enrico Bruni

Da quando ho messo piede in Senato, nell’aprile 2008, non ho più accettato nuovi incarichi giudiziali. Ma se una legge mi avesse vietato di continuare a svolgere attività di difesa in giudizio, questo mi avrebbe messo, almeno per un primo periodo, in grave imbarazzo, costringendomi a lasciare a mezzo alcuni procedimenti giudiziali, con danno ingiusto per alcuni miei clienti. Tutto sommato, mi è parso opportuno che mi fosse consentito portare a termine quegli incarichi, come ho fatto. D’altra parte, in qualche caso l’attività del parlamentare può essere anche resa più efficace e incisiva per il fatto di combinarsi con la sua competenza e abilitazione forense. Per esempio, in questo momento sto lavorando per una serie di iniziative, in parte di natura giudiziale, per denunciare anche davanti alla Corte di Giustizia di Lussemburgo l’incompatibilità con il diritto comunitario dell’apartheidtra protetti e non protetti nel nostro mercato del lavoro. Qui, mi sembra, la mia veste di avvocato si combina assai opportunamente con quella di parlamentare, consentendomi di condurre la stessa battaglia in due sedi diverse, tra loro complementari. Certo, anche a me non piace vedere gli avvocati del premier impegnati in Parlamento per difenderlo con leggi fatte su misura per lui dai processi nei quali egli è imputato. E ricordo in proposito come in Gran Bretagna viga una norma deontologica che vieta all’avvocato parlamentare di accettare un mandato professionale quando il pubblico “possa ragionevolmente pensare che l’avvocato possa fa uso del suo stato o incarico per avvantaggiare il proprio cliente”. Detto questo, però, mi chiedo: non è forse un problema analogo quello che si pone, in qualche misura, anche per un sindacalista, o per il dirigente di una associazione imprenditoriale, che si trovi a sedere in Parlamento? Dove passa la linea di confine tra patrocinio di interessi particolari che non può essere esercitato dal parlamentare e patrocinio di interessi di natura diversa?  Per altro verso, mi sembra che possa e debba essere la democrazia stessa a curare le degenerazioni del meccanismo della rappresentanza democratica: proprio le vicende politiche di questi giorni mostrano come e quanto salatamente Silvio Berlusconi stia pagando, in termini di perdita di consensi, le leggi ad personam confezionate negli ultimi tre anni dai suoi avvocati-parlamentari. Resta da dire che se si esclude la Spagna (dove però la commissione parlamentare competente rilascia autorizzazioni in deroga con grande larghezza), in nessun altro grande Paese democratico, che io sappia, è stata istituita una drastica incompatibilità tra la carica parlamentare e l’attività forense: in alcuni ordinamenti sono previste delle limitazioni, ma mai un divieto secco (rinvio in proposito a Quando gli avvocati fanno i parlamentari, di Franzo Grande Stevens su la Stampa del 13 maggio scorso). E, come i miei lettori sanno, io considero la comparazione internazionale come una bussola preziosissima, soprattutto per un Paese per molti aspetti arretrato, qual è il nostro. Credo, per concludere, che possa essere opportuno porre dei limiti al cumulo delle due attività, ma non vietare in modo drastico l’attività forense all’avvocato che sia stato eletto in Parlamento.   (p.i.)

 

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