OCCORRE UN NUOVO SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI PER TORNARE A CRESCERE

IL SINDACATO COME INTELLIGENZA COLLETTIVA DEI LAVORATORI, INDISPENSABILE PER INGAGGIARE IL MIGLIOR IMPRENDITORE DISPONIBILE, DA QUALSIASI PARTE DEL MONDO VENGA

Articolo pubblicato sulla rivista Costo Zero, organo della Confindustria di Napoli, ottobre 2011 – In argomento v. anche la mia relazione del 2007, Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore e, su questo sito, la mia presentazione Hire your best employer

 

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        Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo meno capace di attirare investimenti stranieri. Secondo il Comitato Investitori Esteri di Confindustria, se il nostro Paese riuscisse ad allinearsi per questo aspetto con la media europea, ne risulterebbe un flusso di investimenti in entrata pari a circa 30-35 miliardi l’anno.
        Ma ho calcolato che se negli ultimi cinque anni precedenti alla grande crisi noi avessimo avuto la stessa capacità di attrazione dell’Olanda, che occupa una posizione mediana in questa classifica europea, avremmo registrato un maggior flusso annuo di investimenti in entrata pari al 3,6 per cento del nostro prodotto interno lordo. Questo vorrebbe dire circa 57 miliardi in più investiti ogni anno in Italia. Cioè 29 volte l’investimento che Marchionne ci ha proposto nel 2010, con il piano “Fabbrica Italia”, che prevedeva due miliardi l’anno per dieci anni. Fossero anche soltanto la metà, i maggiori miliardi di investimenti in entrata, come sostiene il C.I.E., essi porterebbero con sé dai 200.000 ai 300.000 nuovi posti di lavoro ogni anno; e un aumento della produttività del lavoro e della retribuzione rispetto alla media italiana, perché è dimostrato che nelle imprese a capitale e management straniero il lavoro è più produttivo e meglio retribuito rispetto alla media.
        Le cause della cattiva performance del nostro Paese nel mercato globale dei capitali sono diverse; ma tra queste c’è anche il nostro sistema delle relazioni industriali. Certo, hanno una grande responsabilità nel determinare la nostra incapacità di attirare investimenti stranieri i difetti delle nostre infrastrutture e delle nostre amministrazioni pubbliche, con le relative conseguenze in termini di burocrazia, il costo dell’energia superiore del 30 per cento rispetto ai nostri maggiori partner europei, il basso livello delle nostre civic attitudes e nel Mezzogiorno la criminalità organizzata. Ha però un peso molto rilevante anche la nostra legislazione del lavoro caotica, ipertrofica e intraducibile in inglese, incapace di rispondere ad alcuni interrogativi fondamentali per qualsiasi operatore straniero che debba scegliere dove dislocare un proprio investimento, a cominciare dal severance cost. E ha un peso almeno altrettanto rilevante il nostro sistema delle relazioni sindacali, che gli operatori stranieri considerano vischioso e inconcludente.   Questi ultimi due difetti sono stati per mezzo secolo perfettamente funzionali a un accordo protezionistico tacito, volto proprio a tener fuori dal nostro Paese le grandi imprese straniere concorrenti delle nostre: un accordo tacito che ha visto in molte occasioni la vecchia sinistra politica fare sponda alla vecchia destra; e la maggioranza del nostro movimento sindacale fare sponda alla parte più conservatrice dell’imprenditoria nostrana, maggioritaria anch’essa. Basti pensare, per esempio, a quello che è accaduto ultimamente quando Air-France-KLM si è proposta di investire sulla nostra compagnia aerea di bandiera in stato fallimentare, oppure quando la francese Lactalis si è proposta di acquistare Parmalat. Ma di casi di questo genere se ne potrebbero elencare decine, nell’ultimo quarto di secolo, incominciando dalla vendita dell’Alfa Romeo da parte dell’Iri, nel 1986, alla Fiat invece che alla Ford, la quale offriva di più; scelta ripetuta con la mancata candidatura dello stabilimento di Arese della stessa Alfa Romeo nel 2000 alla gara indetta dalla Nissan per l’insediamento di un suo nuovo stabilimento nell’area dell’euro.
       Comportandoci in questo modo mostriamo di non aver capito un aspetto fondamentale dell’economia globalizzata. La globalizzazione indebolisce i lavoratori italiani, in modo particolare quelli delle fasce professionali più basse, mettendo i lavoratori di tutto il mondo in diretta concorrenza con loro sul versante dell’offerta di manodopera. Vediamo questo indebolimento come effetto della delocalizzazione di manifatture dall’Italia verso Paesi emergenti, ma anche come effetto dell’afflusso nel nostro territorio di manodopera proveniente da quei Paesi. Questo indebolimento potrebbe però essere ampiamente compensato da un altro effetto della globalizzazione: la possibilità di mettere in concorrenza, in casa nostra, sul versante della domanda di manodopera, gli imprenditori di tutto il mondo; e soprattutto i migliori tra di essi. È il discorso che fece Tony Blair alle Trade Unions verso la metà degli anni ’90, all’incirca in questi termini: “noi siamo l’uno per cento della popolazione del pianeta; se scegliamo di tener fuori dal nostro territorio gli imprenditori stranieri, il risultato, in tutti i settori in cui non sono i nostri imprenditori a eccellere, sarà quello di privarci degli imprenditori migliori. Sarebbe un errore gravissimo. Al contrario, se sapremo attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale, questo si tradurrà non soltanto nell’afflusso di capitali che porteranno domanda aggiuntiva di lavoro, ma anche in aumento della produttività del lavoro, quindi dei margini di miglioramento dei terms and conditions del lavoro nel Regno Unito”. Lo stesso identico discorso vale, ovviamente, anche per noi. Chiuderci agli investimenti stranieri significa tenerci le conseguenze negative della globalizzazione, senza approfittare delle assai più rilevanti opportunità positive che essa ci offrirebbe: non soltanto in termini di maggior domanda di lavoro, ma anche in termini di miglioramento del contributo imprenditoriale alla valorizzazione del nostro lavoro.
       Tutti ricordiamo le polemiche che divamparono nel 1993 contro la cessione del controllo della Nuovo Pignone da parte di Eni alla multinazionale statunitense General Electric, decisa dal Governo Ciampi nel quadro delle misure per la riduzione del debito pubblico. Allora si parlò di rinuncia a una struttura di importanza strategica per l’economia nazionale, di regalo agli americani che l’avrebbero spolpata e smantellata. A diciotto anni di distanza leggiamo su Wikipedia:

Contrariamente alle preoccupazioni della dirigenza in carica nel 1993, oggi (2010) il Nuovo Pignone è la capofila della divisione Oil & Gas della General Electric Energy (caso unico per General Electric di capofila non basata in USA); ha moltiplicato per un fattore di circa 8 il fatturato e detiene una quota rilevante del mercato mondiale delle turbine a gas e a vapore, compressori centrifughi e alternativi, oltre ad altri apparati relativi allo spostamento e impiego di petrolio e gas, operando con successo sia nella progettazione e costruzione dei macchinari che nella manutenzione di impianti. Svolge anche importanti attività di ricerca e formazione.

        E paga retribuzioni del 50 per cento superiori, a parità di livello professionale delle mansioni, rispetto al settore metalmeccanico italiano: vai a chiedere ai suoi dipendenti attuali se stavano meglio prima, o se stanno meglio ora.
        D’altra parte, il problema cruciale del nostro Paese, oggi, è tornare a crescere. Per tornare a crescere occorrono nuovi investimenti, oltre che buoni piani industriali. Non abbiamo altro modo di reperire le risorse necessarie per questi investimenti, che quello di cercare con urgenza di spalancare le porte a quei 29 Marchionne di cui parlavamo prima, che potrebbero entrare ogni anno se l’Italia funzionasse come funziona mediamente un Paese europeo, e invece se ne restano fuori. Se vogliamo entrare anche noi nel giro di questi investimenti, dobbiamo stare al gioco fino in fondo, accettando il rischio che un insediamento produttivo si apra oggi e venga chiuso domani. Ma, soprattutto, dobbiamo cambiare il paradigma con cui guardiamo al mercato del lavoro.
        Lo slogan hire your best employer rovescia il concetto e l’immagine che abbiamo tradizionalmente del mercato del lavoro: quella di un luogo dove è solo l’imprenditore a selezionare, scegliere e ingaggiare i propri dipendenti. Nell’era della globalizzazione i lavoratori devono imparare a guardare al mercato del lavoro planetario come a un luogo in cui sono anche loro a selezionare, scegliere e ingaggiare i propri imprenditori. A ben vedere, che cos’era il tavolo del negoziato tra i nostri sindacati e l’amministratore delegato di Air France per il futuro di Alitalia, nel marzo-aprile 2008, se non una sorta di colloquio pre-assunzione, nel quale i lavoratori valutavano se ingaggiare o no la compagnia franco-olandese come loro nuovo imprenditore? Lì i lavoratori hanno applicato il criterio di selezione sbagliato, quello dell’italianità, col risultato che hanno rifiutato il primo vettore aereo mondiale, per poi ingaggiare una italianissima “cordata” di imprenditori dei quali neppure uno aveva mai fatto volare un aereo e che aveva bisogno per vivere di essere esentata dalle norme antitrust sulle rotte interne e protetta anche in altri modi negli aeroporti italiani dalla concorrenza internazionale.
        Questo della selezione e ingaggio di buoni imprenditori stranieri deve diventare un nostro impegno ordinario, a tutto campo. Stiamo tardando troppo ad acquisire questa idea elementarissima: che al di fuori dei settori in cui siamo noi ad avere le imprese eccellenti, gli imprenditori più capaci di valorizzare il nostro lavoro sono stranieri. Noi siamo tra i migliori soltanto nei settori dell’automazione meccanica e delle macchine utensili, del materiale ferroviario e di controllo del traffico su rotaia, dell’agroalimentare, della moda, abbigliamento e calzature, dell’arredo-casa, dei rubinetti e valvole, della gioielleria, delle ceramiche, del cuoio e pelle, delle macchine per imballaggio. Negli altri campi abbiamo tutto l’interesse ad attirare in casa nostra, “ingaggiare” nel senso più appropriato del termine, il meglio dell’imprenditoria mondiale, che è costituito per lo più da grandi multinazionali.
       Molte grandi imprese occidentali hanno sicuramente delle responsabilità gravi, in alcuni casi anche gravissime, nei confronti dei Paesi del terzo mondo dove hanno sfruttato la gente approfittando dell’assenza di concorrenza sul lato della domanda di manodopera, rapinato materie prime e devastato l’ambiente. Ma non possiamo ridurre il nostro discorso sulle multinazionali alla condanna per quelle responsabilità: dobbiamo imparare a “ingaggiarle” perché portino in casa nostra i loro capitali e il loro know-how, stabilendo con loro un rapporto maturo, da pari a pari.
       A questo serve un sindacato che sappia fare il suo mestiere, oggi. Coadiuvato, ovviamente, dal ministero dello sviluppo economico. È vero che c’è l’innovazione buona e quella cattiva. Però, se per paura di quella cattiva impediamo anche quella buona, il risultato è che il Paese non cresce, le nostre imprese sono più deboli nella competizione internazionale e i lavoratori italiani sono trattati peggio di quel che potrebbero. Qui si pone la questione della struttura della contrattazione collettiva. Il contratto collettivo nazionale, così come si configura nell’esperienza italiana dell’ultimo mezzo secolo, con le sue centinaia di disposizioni che regolano minuziosamente e inderogabilmente non soltanto l’entità della retribuzione, ma anche la sua struttura, l’organizzazione del lavoro, l’inquadramento professionale, la distribuzione dell’orario di lavoro e molto altro ancora, può essere di ostacolo all’ingresso nel nostro Paese di piani industriali innovativi. Solo un esempio: il cosiddetto “modello Toyota” di produzione dell’automobile, nel quale tutti gli staff manufacturers devono essere disponibili a fare tutto, viene premiato lo scambio tra loro di know-how e la capacità di fare squadra, insomma quella che qui in Europa chiamiamo la lean production, è incompatibile con le regole poste dal nostro contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico in materia di inquadramento professionale, organizzazione del lavoro e rapporto tra retribuzione fissa e retribuzione variabile. Regole scritte quarant’anni fa, nel 1972, e da allora tramandatesi di rinnovo in rinnovo senza modifiche di rilievo.
       Nella riforma del sistema delle relazioni industriali che ho proposto nel 2009 con il disegno di legge n. 1872 il contratto collettivo nazionale conserva un ruolo importantissimo come rete di sicurezza, come fonte di una disciplina destinata ad applicarsi in tutti i casi in cui una coalizione sindacale rappresentativa della maggioranza dei lavoratori interessati non ne abbia negoziata una diversa a un livello più vicino al luogo di lavoro. Con una norma-quadro di questo genere, in Italia, resta interamente soggetta al contratto nazionale più di metà dei rapporti di lavoro dipendente, che non sono coperti da contrattazione aziendale.

      L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, ha compiuto un passo rilevantissimo in questa direzione, fissando i criteri di misurazione della rappresentatività maggioritaria dei sindacati stipulanti al livello aziendale e individuando una amplissima gamma di materie soggette alla contrattazione collettiva a questo livello. Come la vicenda degli accordi Fiat 2010 di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco ha dimostrato, questa è una scelta di grande importanza per eliminare un fattore di chiusura del nostro sistema agli investimenti stranieri. Le preoccupazioni espresse dalla sinistra politica e sindacale circa la possibilità che ne consegua un pregiudizio per diritti fondamentali dei lavoratori non sono fondate. Ciò che è oggetto soltanto di un contratto, foss’anche un contratto collettivo nazionale, non può mai costituire un diritto fondamentale: altrimenti non si spiegherebbe il fatto che la materia possa essere disciplinata in 400 modi diversi, quanti sono oggi i contratti collettivi nazionali in Italia. Ciò che è riservato all’autonomia sindacale ed è quindi suscettibile di essere regolato da un contratto collettivo, è sempre, per definizione, qualche cosa la cui disciplina può e deve essere adattata alle circostanze, agli interessi particolari in gioco. E poiché il ritmo dell’innovazione tecnologica e organizzativa è diventato molto più rapido di quanto non fosse mezzo secolo fa, è indispensabile che il baricentro della contrattazione si sposti fortemente verso le aziende, cioè verso il luogo dove l’innovazione stessa si manifesta, dove quindi è indispensabile che i lavoratori esercitino la propria intelligenza collettiva nell’individuazione del piano industriale sul quale vale la pena di scommettere.

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