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PERCHÉ É UTILE TASSARE MENO IL LAVORO DELLE DONNE

LA DIVISIONE DEI COMPITI SQUILIBRATA ALL’INTERNO DELLA FAMIGLIA, CHE OSTACOLA LA PARTECIPAZIONE DELLE DONNE AL MERCATO DEL LAVORO, PUO’ E DEVE ESSERE CONTRASTATA CON LA TASSAZIONE DIFFERENZIATA PER GENERE

Articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato sul sito lavoce.info [1] il 29 novembre 2011

Un governo che volesse realizzare una riduzione della pressione fiscale per stimolare la crescita economica, otterrebbe risultati maggiori concentrandola sulle sole donne. La minore aliquota sui redditi delle donne si applicherebbe poi a una base imponibile maggiore e quindi il gettito fiscale diminuirebbe poco. Non è la mancanza di servizi di cura a tenere le donne lontane dal mercato del lavoro, ma una divisione dei compiti squilibrata all’interno della famiglia. La tassazione differenziata per genere aiuta a cambiare una mentalità che non ha più alcuna giustificazione.
Siamo stati i promotori dell’introduzione in Italia della tassazione differenziata per genere e ovviamente non la consideriamo una “stonatura” del programma del nuovo governo. Sarebbe forse meglio attendere di avere maggiori informazioni su quello che Mario Monti e i suoi ministri concretamente vorrebbero fare prima di discuterne in astratto, anche per non ripetere cose già dette. (1) Tuttavia, grazie a lavoce.info, il dibattito si è riaperto, proviamo dunque a riassumere le ragioni per cui riteniamo sia utile discutere di questa proposta.

UN PROBLEMA DI OFFERTA
Nel breve periodo, la proposta si giustifica in virtù del principio secondo cui è possibile diminuire la pressione fiscale media, a parità di gettito, tassando di più i beni la cui offerta è rigida rispetto a quelli la cui offerta è flessibile. Innumerevoli studi economici mostrano che l’offerta di lavoro femminile, soprattutto nelle fasce economicamente deboli, reagisce in modo diverso da quella maschile rispetto a variazioni del salario. (2) In particolare, gli uomini non riducono la loro offerta di lavoro quando la retribuzione diminuisce, mentre le donne iniziano a lavorare più volentieri o lavorano significativamente di più, se già occupate, quando la loro retribuzione aumenta. È quindi possibile tassare poco di più gli uomini, senza ridurre la loro base imponibile e aumentando il gettito da loro prodotto, per poter tassare molto meno le donne che in questo modo lavorerebbero di più. La minore aliquota sui loro redditi si applicherebbe a una base imponibile maggiore e quindi il gettito fiscale delle donne diminuirebbe poco. In altre parole, un governo che, come Mario Monti ha detto, volesse realizzare una riduzione della pressione fiscale per stimolare la crescita economica, otterrebbe risultati maggiori concentrando la riduzione sulle sole donne.
Chiara Saraceno obietta [2] che la scarsa occupazione femminile è un problema di domanda non di offerta. È  un’affermazione da dimostrare empiricamente e se possibile in modo sperimentale. Non sappiamo su quale evidenza empirica Saraceno fondi questa sua convinzione. Quello che sappiamo è che il meccanismo della traslazione dell’imposta fa sì che una riduzione del prelievo fiscale sull’offerta si traduca almeno in parte in una riduzione del costo del lavoro, che quindi stimola la domanda. Il caso evidente è quello dell’imprenditoria: se il lavoro delle donne fosse tassato meno sarebbe più facile per loro far nascere imprese. Ma non è certo l’unico esempio. Molti ritengono che tra i vincoli che impediscono la crescita nel nostro paese ci sia l’eccessiva tassazione del lavoro. Ai tempi del governo Prodi si parlava di riduzione del “cuneo fiscale” per rilanciare l’occupazione. Se Chiara Saraceno avesse ragione, ridurre il prelievo fiscale sul lavoro sarebbe inutile. Invece la maggior parte degli economisti oggi ritiene il contrario. Ed essendo difficile che gli uomini lavorino di più, gli effetti benefici della riduzione possono conseguire solo dalle donne. Quindi tanto vale concentrarla lì.

PIÙ PARITÀ IN FAMIGLIA
Chiara Saraceno afferma poi che la scarsa offerta di lavoro femminile dipende dalla carenza di servizi di cura. Questo, però, è qualcosa che limita l’offerta, non la domanda, in contraddizione con quanto lei stessa precedentemente afferma. Comunque sembra difficile credere che il problema sia davvero la carenza di servizi (pubblici) di cura. In paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna e altri ancora, questi servizi mancano più che da noi, eppure i tassi di occupazione femminile sono maggiori dei nostri. Lo sono perché i compiti di cura sono distribuiti in modo più equilibrato tra i membri delle coppie e le famiglie hanno maggiori risorse economiche per poter comprare i servizi di
cura sul mercato. La tassazione differenziata per genere aumenta le risorse a disposizione delle famiglie (perché mediamente sono tassate meno) e quindi consente di chiedere maggiori servizi al mercato, cosa che indirettamente accresce anche la domanda di lavoro femminile.
Nei paesi scandinavi dove lo Stato offre servizi di cura in abbondanza, i tassi di occupazione femminile sono elevati, ma si osserva anche una forte segregazione occupazionale per genere.
(3) Il motivo è che in un mondo in cui sono le donne a doversi occupare prevalentemente dei figli, gli asili nido consentono loro di lavorare, ma solo in impieghi compatibili con l’accompagnare e riprendere i figli a ore precise e stare con loro quando sono malati. Chiunque abbia figli sa che gli asili nido risolvono solo parzialmente le difficoltà di conciliazione dell’attività di genitori con il lavoro.
In ogni caso pensare ai servizi pubblici di cura come una soluzione per l’occupazione femminile significa dare per scontato che debbano essere le donne, e non gli uomini, a curarsi dei figli, degli anziani e della casa. Vuol dire usare l’aspirina per curare il sintomo, invece di andare a toccare l’origine del problema, che è lo squilibrio dei compiti familiari tra donne e uomini in famiglia. Proprio su questo squilibrio agisce, nel lungo periodo, la tassazione differenziata per genere.
La divisione dei compiti all’interno della famiglia è ancora fortemente sbilanciata, come dimostrano innumerevoli ricerche e la quotidiana percezione di tutti. In un mondo in cui la forza fisica fosse un requisito importante per lavorare nel mercato, sarebbe efficiente che le donne si specializzassero nei lavori casalinghi e gli uomini in quelli fuori casa, come è stato per migliaia di anni. Ma oggi non è più così: in un’economia avanzata come quella italiana, sono sempre meno i lavori fuori casa per i quali si possa sostenere che gli uomini hanno un vantaggio comparato rispetto alle donne, di natura tecnologica o biologica. Tuttavia le donne non possono esprimere fuori casa la stessa energia degli uomini perché su di loro ricade la maggior parte dei compiti domestici. Il risultato è che, sommando lavoro in casa e fuori, le donne lavorano 80 minuti al giorno in più degli uomini.
Tra i compiti familiari, solo la gravidanza e l’allattamento al seno possono essere considerati impossibili per gli uomini. Eppure i lavori in casa e fuori sono allocati in modo squilibrato tra i sessi, perché così è stato in una storia secolare in cui questo aveva un senso. Oggi non lo ha più. In altre parole, se per un verso le differenze di genere che osserviamo sono efficienti dato il secolare condizionamento storico-culturale, qualora potessimo eliminare il condizionamento e
ricominciare da capo nelle attuali condizioni di sviluppo economico, sarebbe più efficiente redistribuire in modo equilibrato i compiti tra donne e uomini sia nel mercato che in casa.
La tassazione differenziata per genere contribuisce esattamente a questo effetto, accelerando un processo evolutivo che comunque è in corso, ma appare troppo lento. Contribuisce perché aumenta il potere contrattuale delle donne all’interno delle coppie. (4)

REDISTRIBUZIONE E FORMAZIONE
Non sappiamo se Chiara Saraceno abbia colto questa funzione della tassazione differenziata per genere, dal momento che sembra conoscere solo il primo dei nostri articoli in proposito, sul Sole24Ore, e forse non ha visto il nostro lavoro scientifico al riguardo. Ha però ragione a dire che la proposta comporta conseguenze da valutare con attenzione per i maschi single e le famiglie monoreddito nelle quali solo l’uomo lavora. Se in queste famiglie l’incentivo fiscale non fosse
sufficiente a indurre la donna a lavorare, il reddito familiare diminuirebbe. Tuttavia uno studio recente di Fabrizio Colonna e Stefania Marcassa mostra che oggi in Italia le donne sono di fatto tassate di più, per il gioco delle detrazioni, soprattutto nelle famiglie meno abbienti in cui solo l’uomo lavora. (5) Anche alla luce di questo dato, non ci sembra una stonatura che il governo Monti voglia seriamente prendere in considerazione il problema dei regimi fiscali a cui sono assoggettati donne e uomini in Italia.
In ogni caso, sono pochissime le riforme che aumentano il benessere di tutti. Quando va bene, il beneficio tratto da alcuni supera i costi sofferti da altri. Decidere se ne vale la pena è compito della politica. E i problemi distributivi sollevati da Chiara Saraceno sono risolvibili affiancando la tassazione differenziata ad altri strumenti di riequilibrio fiscale. Inoltre il problema delle differenze di genere non è solo la scarsa occupazione femminile, ma anche la difficoltà a far carriera. La tassazione differenziata agisce anche su questo.
Chiara Saraceno ritiene più efficace investire nella formazione delle donne a bassa istruzione. Tutti i dati mostrano però che ormai le donne sono più istruite degli uomini (e conseguono voti mediamente migliori a scuola), sembra dunque difficile che questo possa spiegare perché oltre metà delle donne italiane non lavora. Inoltre, è stato ampiamente documentato lo spreco di soldi pubblici per corsi di formazione di cui nessuno ha mai valutato la reale efficacia. (6) Ma se si riescono a trovare i soldi per la formazione (efficace), certo male non fa. Non si dimentichi, però, che la tassazione differenziata per genere è a costo zero per il bilancio pubblico: e proprio di riforme a
costo zero ha bisogno Monti.

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(1) I lettori de lavoce.info interessati a leggere quando da noi scritto, trovano a questo link vari articoli usciti su Il Sole24Ore [3], Financial Times e Vox. L’articolo scientifico che studia nei dettagli la proposta è “Gender based taxation and the division of family chores [4]”, scritto insieme a Loukas Karabarbounis, American Economic Journal: Economic Policy, 2010. Infine la proposta è descritta e argomentata anche nel nostro libro “L’Italia fatta in casa”, Mondadori, 2009.
(2) Vedi recentemente, tra gli studi più convincenti, Alexander Gelber “Taxation and the Earnings of Husbands and Wives: Evidence from Sweden”, in corso di pubblicazione sulla Review of Economics and Statistics, che sfrutta la riforma fiscale svedese dei primi anni Novanta per studiare, in modo quasi sperimentale, le reazioni dell’offerta di lavoro di donne e uomini indotte da variazioni “esogene” delle retribuzioni al netto delle tasse. Per l’Italia otteniamo risultati simili in una nostra ricerca in corso di elaborazione i cui risultati verrano presentati a Milano il 30 novembre presso l’aula magna di Unicredit in via Tommaso Grossi 10.
(3) Vedi ad esempio Breen and Penalosa, (2000) “A Ratioanl Learning Model of Gender Segregation in Labour Markets [5]”, Journal of Labor Economics.
(4) Essendo tassate meno, le donne potrebbero dire agli uomini: “sono le 4: vai tu a prendere il bambino all’asilo e inizia a cucinare, perché conviene a tutta la famiglia se continuo io a lavorare e tu smetti”.
(5) F. Colonna e S. Marcassa “Taxation and Labor Force Participation: The Case of Italy”, Banca d’Italia 2011.
(6) Vedi ad esempio Martini e Trivellato “Sono soldi ben spesi? [6]”, Marsilio 2011.