IL RISCHIO É IL NOSTRO MESTIERE

DIALOGO SUI MIEI RAPPORTI CON LA SINISTRA, IL SINDACATO, IL PARTITO DEMOCRATICO, E SUI RAPPORTI TRA POLITICI DI PROFESSIONE E POLITICI DI COMPLEMENTO

Intervista a cura di Ivan Scalfarotto, pubblicata nel suo libro fresco di stampa Ma questa è la mia gente. Un viaggio nel Partito democratico in diciassette conversazioni con i suoi protagonisti, Mondadori, settembre 2012 – Lo stesso libro contiene, tra le altre, le interviste a Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Massimo D’Alema, Stefano Fassina, Anna Finocchiaro, Walter Veltroni

[Nella prima parte di questo capitolo del libro Ivan Scalfarotto racconta la sua vicenda come dipendente della Banca Commerciale Italiana negli anni ‘90]

[…] La Banca commerciale italiana, la «prestigiosa» Comit, […] è stata il mio primo datore di lavoro e l’azienda nella quale ho imparato i fondamentali della professione e della professionalità. Lì mi hanno insegnato a far bene le cose, e a rispettare le scadenze, prestando una scrupolosa attenzione ai dettagli. Mi hanno soprattutto insegnato una lezione preziosa: che i propri comportamenti organizzativi non vivono per se stessi come isole. Essi hanno senso soltanto dentro una precisa catena in cui c’è sempre un cliente (interno o esterno non importa) a cui consegnare qualcosa e sempre un fornitore (interno o esterno non importa) da cui dipendi per ottenere, in tempo e bene, i pezzi che ti servono per costruire ciò che dovrai consegnare al tuo cliente. In breve, lì ho imparato – cosa quasi invisibile in politica, in particolare tra i miei coetanei e tra le persone più giovani di me – che il successo è sempre frutto di un meccanismo preciso che può vivere soltanto grazie a un diligente e scrupoloso gioco di squadra.
Il collegamento tra questo racconto e il mio incontro con Pietro Ichino è stato immediato per due motivi molto diversi tra loro. Il primo è che la conoscenza con Pietro risale proprio agli anni in cui lavoravo per la Banca commerciale italiana. Era il 1992, ero in banca da poco, ed ero stato destinato da pochissimo alla Direzione centrale (proprio il grande e prestigioso edificio di piazza della Scala, tra Palazzo Marino e il Teatro), a quello che allora si chiamava «Ufficio normativo e sindacale» del Servizio del personale. Provenivo da un gruppo di giovani virgulti, assunti direttamente dalle università, che venivano collocati a disposizione dalla Direzione centrale e poi mandati a formarsi in giro per l’Italia; così, in poco più di un anno e mezzo, mi avevano mandato a lavorare a Napoli, Barletta, Viareggio, Padova, Monza e Biella. Poi, dato che da quel gruppo di ragazzi venivano pescati anche profili specialistici, mi era stato chiesto di andare «al personale» e, immagino a causa della mia laurea in legge, di occuparmi di temi di diritto del lavoro.
Di quei giorni ricordo in particolare due cose. La prima fu che, proprio mentre prendevo possesso della mia nuova scrivania, un consigliere comunale di allora, Paolo Hutter, aveva simbolicamente sposato proprio in piazza della Scala alcune coppie gay e lesbiche. Per me, che arrivavo da Foggia, sapere che fuori dalla finestra dell’ufficio si celebravano dei matrimoni gay era stata una notizia assolutamente rivoluzionaria, che mi sembrava avrebbe spianato in breve tempo la strada a inarrestabili e gloriose conquiste sul piano dei diritti civili. Mi sbagliavo di grosso, come la storia ha poi ampiamente dimostrato.
Il secondo ricordo è appunto che cominciai a collaborare con Pietro Ichino – che in ufficio chiamavamo «il Professore» per distinguerlo da suo padre Luciano, «l’Avvocato» – il quale mi colpì subito per una cosa in particolare: gli atti che preparava erano scritti non solo con grande perizia tecnico-giuridica, ma anche con uno stile assolutamente avvincente. Come per un romanzo d’appendice, se cominciavi a leggere una comparsa di risposta redatta da Pietro Ichino non potevi non arrivare fino in fondo. «Se al giudice quest’atto piacerà quanto è piaciuto a me» riflettevo con un pizzico di ingenuità «si convincerà di sicuro delle nostre buone ragioni.» In effetti andava così abbastanza spesso, e tra le molte cose non molto avvincenti che invece mi toccava fare (ricordo un intero, interminabile periodo a lavorare sulle richieste di cure termali sottoposte alla banca dai dipendenti delle filiali che avevamo in tutta Italia, da Trapani a Bolzano), la collaaborazione con il professor Ichino era una di quelle più gratificanti, piacevoli e formative del mio lavoro. Aver avuto la fortuna di imparare da Pietro ha rappresentato una discreta parte di quel bagaglio di formazione che la Comit mi ha dato, e di questo gli sono ancora grato, così come sono grato alla banca. Nutro dunque, da quei giorni, un’enorme stima professionale per Pietro Ichino, stima che poi si è allargata anche alla sua attività di scrittore e di divulgatore e, successivamente, a quella di politico.
E qui vengo al secondo motivo per cui quel piccolo racconto sulla Comit mi è tornato in mente. È un post che ho scritto di getto per il mio blog, nell’agosto 2007, sull’onda di un’emozione irresistibile. Il racconto si chiama A Gianpiero, in ricordo di un mio caro collega di lavoro che non ebbe la forza necessaria per resistere ai grandi cambiamenti che la nostra banca, come tutto il sistema bancario, ha attraversato negli anni. Chi abbia lavorato in Comit negli anni in cui ci ho lavorato io sa benissimo che si entrava in banca con la convinzione che con quell’assunzione la vita sarebbe stata vissuta grosso modo col pilota automatico. La Comit c’era da sempre, e ci sarebbe stata per sempre. Anche quando cominciarono le privatizzazioni, e anche la nostra banca fu collocata sul mercato, pensavamo che Comit sarebbe comunque rimasta un attore insostituibile sulla scena finanziaria. Oggi la Banca commerciale italiana non c’è più, e l’unica traccia rimasta è la scritta che ancora si legge sul frontone della facciata di quella che fu la sua Direzione centrale.
La storia della Comit è rimasta per me una specie di monito, la lezione che chi si ferma è perduto. Neanche l’istituzione più grossa, il moloch più granitico, è al riparo se non si è in grado di comprendere il cambiamento e di rivedere rapidamente le proprie strategie. Non ce l’ha fatta nemmeno il Pcus, e anche noi del Pd dovremmo capire, in questi tempi di estremi e repentini cambiamenti, che l’unico modo per non morire è riuscire a comprendere che la realtà è soggetta a continue modificazioni, e mutare noi stessi di conseguenza. Può sembrare controintuitivo, ma ci sono situazioni in cui prendere il mare è molto più sicuro che restare ormeggiati in porto.
Le tesi di Ichino mi sono sempre parse un antidoto a questa condanna. Con la loro capacità di guardare al diritto del lavoro da una prospettiva sempre nuova, e magari spiazzante, mi sono sempre sembrate, e oggi mi sembrano più che mai, la cosa giusta da fare. Sono l’incoraggiamento a guardare in modo dinamico alla sostanza delle cose. Indicano strade completamente nuove per conservare i diritti che vogliamo garantire a chi lavora e coltivare le aspirazioni e il senso di realizzazione di sé che il lavoro deve necessariamente comportare se non lo si vuole ridurre a pura fatica fisica. Chi critica Ichino – lo faccia ragionando da un giornale o in un convegno, o abbaiando la propria oscena violenza da una gabbia in un’aula di tribunale – non comprende che la sua attenzione si concentra sulla sostanza delle cose e sulla loro effettiva fattibilità in un contesto che cambia a velocità vertiginosa. Tra tanti che si preoccupano dell’intangibilità dei processi trascurando il prodotto finale, Ichino mi pare occupato a osservare la luna mentre moltitudini di persone stanno lì, immobili, rapite dall’immagine del dito che la indica.

***

Pietro, voglio chiedere in particolare a te, che hai provato a guardare il mondo del lavoro da un’altra angolazione: quanto, secondo te, il Partito democratico è uno strumento di cambiamento della società e quanto invece ci capita, volontariamente o no, di essere uno strumento di conservazione?
Una componente strutturale del mondo della sinistra, da sempre, è costituita dal sindacato, che conservatore è per sua stessa natura. Il sindacato difende principalmente i lavoratori stabili, regolari e di aziende medio-grandi, i quali hanno l’interesse a mantenere il proprio posto di lavoro, la propria stabilità, cioè l’interesse a una certa continuità dell’esistente. Questo ruolo del sindacato, istituzionalmente e naturalmente conservatore, non sarebbe in sé un fatto negativo: il sindacato svolge il ruolo della difesa di un segmento di interessi che sono perfettamente legittimi in qualsiasi tessuto civile, in qualsiasi società. Il problema nasce quando l’ottica del sindacato, per difetto di leadership e di visione strategica del partito, diventa la visione generale della sinistra. È in quel momento che la sinistra nel suo complesso – da noi la sua componente maggiore costituita dal Partito democratico – diventa conservatrice.

In altri paesi il sindacato, pur svolgendo la stessa funzione che tu descrivi, ha saputo però riadattarsi a forme più moderne di tutela dell’interesse che rappresenta. Per esempio, accettando di rinunciare a un atteggiamento per principio conflittuale in cambio di una maggiore partecipazione alle scelte dell’impresa. Comprendendo, in un certo senso, che gli interessi dell’azienda e quelli dei lavoratori non sono necessariamente contrari e contrapposti.
Questo è accaduto quando la sinistra politica ha saputo darsi una visione, e una leadership portatrice di questa visione, indipendente dal sindacato, perché capace di dialogare col sindacato senza trovarsi rispetto a esso in una posizione di subalternità. È accaduto in Germania, per esempio. Possiamo ricordare la vicenda del governo Schroeder che, all’inizio degli anni Duemila, ha ottenuto dal movimento sindacale la svolta costituita dalla ristrutturazione della contrattazione collettiva. Una riforma che ha portato a stabilire che il contratto aziendale potesse non solo derogare, ma addirittura sostituirsi integralmente al contratto nazionale di lavoro. È stata una svolta che il sindacato ha compiuto in formale autonomia ma guidato e spinto dalla buona politica, pur in un paese che è stato per decenni il portabandiera del centralismo contrattuale più rigido. Anche negli Stati Uniti il Partito democratico ha compiuto tutte le sue scelte più innovative sul terreno della politica liberal in assoluta indipendenza dalle centrali sindacali, con le quali ha certamente dialogato, stabilito sinergie, ma senza che si creasse mai un rapporto di dipendenza.

E poi c’è il caso britannico.
Tony Blair ha costruito un’intera, lunga stagione di egemonia del Labour in Gran Bretagna sulla base di una drastica distinzione, inizialmente non priva di qualche elemento di ruvidità, rispetto alle posizioni delle trade unions. Da questo punto di vista, Blair ha dato una lezione a tutta la sinistra europea, che ancora non abbiamo apprezzato in tutta la sua portata. Poi Blair ha commesso i suoi errori, a partire dall’Iraq. Ma su questo punto del rapporto con il sindacato ha sicuramente avuto ragione.

Abbiamo dunque qualcosa da imparare dalle politiche di Blair sul lavoro?
Sì, e questo non riguarda solo le forze politiche di centrosinistra: quell’esperienza dovrebbe essere una lezione anche per i sindacati. Il sindacalismo britannico era stato in parte già rivitalizzato dalla Thatcher che, pur partendo da posizioni che portavano in sé un intendimento distruttivo, lo ha costretto a modernizzarsi, a cambiare per non morire. Poi Blair ha positivamente continuato, con finalità costruttive, ciò che la Thatcher aveva iniziato. Il combinarsi di questi due momenti dialettici ha prodotto un effetto molto positivo nella rivitalizzazione del movimento sindacale britannico su posizioni di apertura; apertura alla globalizzazione, alla negoziazione di piani industriali innovativi, consapevolezza che il difendere l’imprenditore indigeno per partito preso porta a valorizzare in maniera meno efficace il lavoro dei propri rappresentati. Si è dunque compreso che fa molto meglio il suo mestiere un sindacato capace di negoziare col miglior imprenditore, da qualsiasi paese esso provenga e quale che sia il modello di organizzazione del lavoro che propone.

Be’, ma per il sindacato non è stata esattamente una passeggiata.
Sicuramente no. Ma ha imparato ad aprirsi al nuovo nei piani industriali, nei modi di organizzazione del lavoro, nell’inquadramento professionale, nella struttura delle retribuzioni. Le novità proposte dalle imprese, su questi temi, non sono certo tutte positive. Ma se non sappiamo discernere quelle su cui scommettere da quelle negative, il paese si ferma, la produttività ristagna.

E a noi, dunque, cosa manca?
A noi manca una sinistra che abbia una visione chiara di quello che sta accadendo e di quello che accadrà nel prossimo futuro.

Occorrerebbe la sfera di cristallo.
No. Se c’è un unico vantaggio nell’essere un paese un po’ arretrato, è quello di poter cogliere i segni dei tempi osservando quello che accade nei paesi più avanzati, vicini e meno vicini. La nostra sinistra pecca molto di provincialismo; sentiamo dire troppo frequentemente che «da noi non si può, perché l’Italia è diversa», alimentando così i circoli viziosi che ci attanagliano. Una sinistra senza orizzonti larghi e senza la capacità di progettare la rottura dei circoli viziosi tradizionali finisce col doversi appoggiare a un sindacato che magari ha una sua precisa strategia, ma una strategia conservatrice rispetto ai vecchi equilibri.

E forse c’è anche un certo atteggiamento che ci porta, in un momento di crisi, a voler mandare messaggi rassicuranti a tutti i costi. Che sono per definizione conservatori.
Di certo ci manca la lungimiranza. Quella di comprendere, per esempio, che un sistema che consente una maggiore fluidità di movimento della manodopera nel tessuto produttivo – per lo spostamento dall’impresa in fase di riduzione o di chiusura all’impresa in fase di espansione – è un sistema che consente al lavoratore di andare dove il suo lavoro è più valorizzato. Quindi, se il lavoratore è garantito nel passaggio da un lavoro all’altro, un sistema più fluido e più dinamico gli offre la possibilità di guadagnare di più. Una delle ragioni delle nostre basse retribuzioni è proprio costituita dalla cattiva allocazione delle risorse. Le risorse umane restano troppo a lungo legate a strutture che non meritano di essere conservate e che invece richiedono anni in più del necessario per essere chiuse o ristrutturate; questo in omaggio a una protezione della stabilità che genera un’evidente vischiosità. È una palla al piede per l’intero paese.

Quando uno dice queste cose, però, si sente subito rispondere che si tratta di «discorsi di destra».
Se per sinistra intendiamo la parte politica che ha una preferenza fondamentale per la costruzione dell’uguaglianza di opportunità per tutti, è evidente come non possa essere «di sinistra» una politica che difende un mercato del lavoro fortemente segmentato tra protetti e non protetti. Diciamo così: è formalmente di sinistra la posizione che viene appoggiata dal sindacato perché tradizionalmente sindacato vuol dire «movimento operaio», contrapposto al «padrone sfruttatore»; se questo è il contesto, è chiaro che la sinistra deve stare con l’operaio. Ma quando la situazione non corrisponde a quello schema e la scelta è invece tra costruire la parità nel mercato del lavoro o difendere una situazione di apartheid tra la casta superiore e la casta dei paria, lì è di sinistra la scelta del superamento dell’apartheid, anche se questa si pone in rotta di collisione con le posizioni dei sindacati.

Ne abbiamo avuto un esempio nel dibattito sulla riforma del lavoro proposta dal ministro Fornero.
Vero. L’ispirazione iniziale del progetto, seppure già attenuata per molti aspetti, era pur sempre quella di flessibilizzare la disciplina del rapporto di lavoro «regolare» in funzione di un riassorbimento nella sua area di applicazione di tutta una serie di rapporti che oggi ne sono fuori, quelli precari. Per ottenere questo risultato era necessario flessibilizzare il rapporto a tempo indeterminato in modo tale da renderlo più appetibile per le imprese, così che si potesse poi compiere l’operazione reciproca: quella del riassorbimento di due milioni di partite Iva fasulle, di collaboratori continuativi in posizione di sostanziale dipendenza, di contratti a termine la cui unica ragion d’essere è l’eccessiva rigidità del rapporto a tempo indeterminato, e così via.

E qual è stata la posizione della sinistra in questa vicenda?
La sinistra politica e sindacale ha difeso con le unghie e con i denti la vecchia impostazione della protezione della stabilità degli insiders (quei 5,7 milioni di dipendenti di aziende medio-grandi cui si applica l’articolo 18), facendo le barricate e difendendo centimetro per centimetro la vecchia disciplina dei licenziamenti. Ha concentrato tutta la propria attenzione e la propria capacità di opposizione su quell’obiettivo, ottenendo, dal suo punto di vista, anche dei risultati. Infatti, rispetto all’impostazione iniziale, si è limitata l’incisività delle nuove norme di protezione della stabilità del lavoro a tempo indeterminato. Al prezzo, però, richiesto dalla parte imprenditoriale e dalla destra, di una totale disponibilità a ridurre l’incisività delle norme sul contrasto del precariato.

È stata solo la posizione della Cgil o anche quella ufficiale del partito?
Sull’«Unità» del 10 aprile 2012 abbiamo potuto leggere direttamente il responsabile economia del Pd, Stefano Fassina, sostenere che bisognava cancellare la norma che comporta il riassorbimento nell’area del lavoro regolare delle partite Iva fasulle. Insomma, facciamo una battaglia all’ultimo sangue per evitare un allentamento minimo della protezione degli insiders dicendo che quel mezzo giro di vite mette a repentaglio la dignità e la libertà morale dei lavoratori e l’onorabilità della persona, e poi diamo il nostro via libera perché venga espunta dall’intervento legislativo la voce che riguarda un milione e mezzo di persone totalmente escluse da quella tutela. Io in questo modo di procedere vedo proprio il paradigma della sinistra priva di visione e incapace di distinguere il proprio ruolo e i propri obiettivi da quelli del sindacato; una sinistra che, in questo caso, ha fatto integralmente sua la posizione della Cgil.

Torniamo, quindi, ai concetti di sinistra e di destra.
Sarebbe stato molto più di sinistra – se «sinistra» vuol dire una scelta di fondo per l’uguaglianza di opportunità – una posizione che magari lasciasse provvisoriamente inalterata la disciplina dei vecchi rapporti, ma che per i nuovi rapporti puntasse a un nuovo diritto del lavoro veramente aperto a tutti, veramente suscettibile di applicarsi a tutti. Una scelta magari meno ambiziosa sul piano quantitativo, perché non si sarebbe applicata subito a tutti i lavoratori, ma più ambiziosa sul piano qualitativo e sul piano dell’incisività della riforma. Comunque, anche dal punto di vista quantitativo, il turnover avrebbe portato nel giro di poco tempo a estendere una riforma incisiva senza drammi a tutti i lavoratori e, soprattutto, avrebbe consentito di sperimentare il nuovo gradualmente, a partire dalle nuove assunzioni. Si sarebbe potuto investire di più sui nuovi rapporti in tema di ammortizzatori perché il fabbisogno sarebbe cresciuto nel tempo, e si sarebbe mostrato al paese come può funzionare veramente un modo diverso di affrontare la sicurezza economica e professionale del lavoratore. In questa vicenda, dov’è la sinistra e dov’è la destra?

E se la sinistra tiene quella linea, è chiaro che anche la destra si tiene su posizioni veteropadronali. Col risultato che il nostro mondo del lavoro risponde a logiche ottocentesche. E tutto il sistema, non essendo capace di adattarsi allo scenario di questo secolo, si blocca.
Noi soffriamo di una destra che è l’immagine speculare di questa sinistra. È una destra che si guarda bene dal fare sua tutta la più moderna costruzione del mercato concorrenziale ben regolato come strumento indispensabile per combattere le rendite e gli sprechi. La competizione tra destra e sinistra dovrebbe svolgersi su questo terreno, con una destra che punta al mercato concorrenziale senza farsi troppi problemi riguardo alle disuguaglianze di reddito che possono nascerne, e una sinistra che invece punta a utilizzare i proventi della lotta agli sprechi e alle rendite per redistribuire reddito a favore dei più deboli. Questa è la novità che la destra e la sinistra del XXI secolo dovrebbero entrambe far propria.

E invece?
Invece, qui abbiamo una destra e una sinistra che tendono piuttosto a farsi la concorrenza sul terreno della protezione delle vecchie posizioni di rendita o di vantaggio. Così, per esempio, né destra né sinistra sono state capaci, prima del governo Monti, di voltar pagina in modo deciso rispetto agli assurdi privilegi pensionistici della mia generazione, quella dei cinquanta-sessantenni, rispetto alle generazioni dei nostri figli e nipoti; quei privilegi che più di ogni altra cosa hanno contribuito al debito enorme da cui oggi il nostro paese è soffocato. Allo stesso modo, né destra né sinistra, prima del governo Monti, hanno saputo porre concretamente in agenda il superamento del dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro; e neppure il voltar pagina rispetto a un uso assurdo della Cassa integrazione guadagni nelle crisi occupazionali.

Non mi pare, in effetti, che ci sia stato un grande sforzo per andare nella direzione di un mercato concorrenziale, nel nostro paese.
C’è da dire che un mercato perfettamente concorrenziale è una cosa complicata da costruire: allo stato di natura non si dà e richiede strutture istituzionali e regole sofisticatissime. Però, se è costruito in tutte le sue parti, compresa la cura della parità di dotazioni in partenza per i partecipanti – che significa soprattutto istruzione, formazione professionale, e poi ancora istruzione e formazione professionale –, è uno strumento formidabile di garanzia delle pari opportunità. Un altro punto importantissimo, in un programma della sinistra, dovrebbe essere il reddito di cittadinanza; ma questo è concretamente impensabile se non siamo capaci di mettere in atto dei meccanismi di effettiva condizionalità dell’erogazione del sostegno, cioè di controllo dell’effettiva disponibilità al lavoro del beneficiario. Il reddito di cittadinanza, insieme al sistema scolastico aperto davvero a tutti, è uno dei complementi fondamentali di un mercato perfettamente concorrenziale perché contribuisce a dare la parità di dotazione di partenza.

Come ti spieghi il fatto che, intorno al tema del lavoro, il dibattito abbia sempre toni estremi, virulenti, a tratti addirittura violenti? Tu stesso vivi sotto scorta. Cosa tocca il dibattito sul lavoro per provocare queste reazioni?
Me lo sono chiesto molto spesso, come puoi facilmente immaginare, in questi anni in cui ho vissuto sotto protezione. Sono dieci anni; dal marzo 2002, esattamente dal giorno dopo l’omicidio di Marco Biagi. In realtà ho vissuto sotto questa minaccia anche per tutti i tre anni precedenti, sin dall’assassinio di Massimo D’Antona. Quando D’Antona venne ucciso, Pierluigi Bersani mi chiese di sostituirlo nel consiglio d’amministrazione dell’Enav, dove Massimo proprio prima di essere ucciso stava lavorando alla regolazione degli scioperi. Non è affatto escluso che proprio questo suo impegno all’Enav fosse una delle ragioni per cui D’Antona fu scelto come obiettivo dai terroristi. In quei tre anni ho vissuto questo problema senza la protezione della scorta e quindi con una preoccupazione viva, anche se non paralizzante.

E che risposta ti sei dato?
Non sono uno storico. Per quel poco che può valere, mi sono convinto che una delle chiavi di lettura del fenomeno delle Brigate rosse sia questa: il terrorismo di sinistra ha sostanzialmente estremizzato un metodo che fondamentalmente è quello della Terza internazionale, fare terra bruciata tra i «buoni» e i «cattivi». I terzinternazionalisti praticavano sistematicamente la tecnica dell’isolamento della persona che, pur appartenendo all’area del partito, si collocava «fuori linea», e quella del rifiuto drastico di tutte le posizioni intermedie: «Chi non è con noi è contro di noi». Esercitando una libertà di pensiero e di critica si poteva contaminare altri nel partito e nell’area degli alleati, si poteva far germinare idee rischiose, si poteva sfuggire al controllo tipico del centralismo democratico. E allora la tecnica per evitare il contagio era l’isolamento, il cordone sanitario, la parola d’ordine per cui chi è fuori dalla linea è un «socialfascista». Non puoi essere soltanto uno che, pur appartenendo alla sinistra, ha idee diverse. Se hai idee diverse, sei oggettivamente al servizio del nemico, sei oggettivamente servo del padrone. L’azione delle Brigate rosse sembra coltivare questa eredità politica estremizzandola: tende a drammatizzare lo scontro tra «proletariato» e «capitale», tra destra e sinistra, per convincere la classe operaia del fatto che non c’è alcuna alternativa alla lotta armata.

Perché tanti attacchi e tante vittime proprio tra i tuoi colleghi? Siamo l’unico paese al mondo in cui fare il professore di diritto del lavoro è una scelta professionale che implica il rischio della vita.
Le Brigate rosse se la sono sempre presa con i giuslavoristi o gli economisti del lavoro di frontiera, quelli che cercavano di costruire delle soluzioni, di risolvere i problemi, perché la loro linea consiste nell’affermare l’insuperabile antagonismo di classe. Qualsiasi soluzione che eviti lo scontro diventa allora una trappola tesa dallo «Stato imperialista delle multinazionali» per «tagliare le unghie al proletariato». È più pericoloso chi cerca di costruire soluzioni che non il nemico dichiarato, il padrone cattivo. Ecco che si spara su Gino Giugni, si spara su Massimo D’Antona, su Marco Biagi, su Ezio Tarantelli. Si spara sui costruttori di soluzioni, sugli innovatori. E gli si spara per un verso con lo scopo di intimidire chi si propone di svolgere quella funzione. Qui lo scopo è schiettamente mafioso: colpisci uno per intimidirne (non educarne) cento; quest’intimidazione è pesata duramente sul dibattito giuslavoristico negli ultimi trent’anni. Per altro verso si cerca di demonizzare il tentativo di ingegnerizzazione di soluzioni nuove, di rottura del tabù; questa tecnica si sposa infatti con quella della costruzione del tabù.

Tipo «L’articolo 18 non si tocca»…
«L’articolo 18 non si tocca» perché si ha paura del «piano inclinato»: si comincia così e non si sa dove si va a finire. Per evitare allora anche di cominciare, il meglio è creare il tabù dell’intangibilità della norma, che diventa più che una norma costituzionale, diventa un dogma religioso. Però da noi quello slogan – «L’articolo 18 non si tocca» – si è trasformato nella regola «Chi tocca l’articolo 18 muore». Ma muore per davvero, non solo in senso metaforico. Tutto si tiene in questa logica, ma è una logica rovinosa, una logica che condanna la sinistra alla sclerosi mentale, che ci condanna ad arrivare a fare le cose in drammatico ritardo rispetto a quello che sarebbe stato necessario, come è successo almeno su cinque grandi questioni negli ultimi decenni.

Vediamole tutte.
La prima. Già negli anni Settanta, dentro la Cgil, dicevo che bisognava che accettassimo il riconoscimento e la regolamentazione del part-time. In Olanda la cosa aveva funzionato benissimo: era ed è stata un veicolo di ingresso per le donne nel mercato del lavoro. All’epoca ero isolatissimo, perché la parola d’ordine era che il part-time serviva a ghettizzare le donne (come se a lasciarle a casa fossero meno ghettizzate). Il Pci votò contro il riconoscimento del part-time operato con la legge n. 863 del 1984, e la Cgil era essa pure contraria. Credo che oggi nessuno a sinistra, e nemmeno nella Cgil, riconfermerebbe quella scelta. Anche se è un’eredità residua di quella posizione la volontà, che non è mai venuta meno, di mettere lacci, vincoli, che appesantiscono il part-time come se fosse di per sé una cosa pericolosa.

Seconda questione.
Quella del superamento del monopolio del collocamento e dell’abolizione dell’avviamento al lavoro sulla base di richiesta numerica. Quando nel 1982 scrissi il mio libro Il collocamento impossibile ero isolato non solo rispetto a Pci e Psi, ma anche rispetto alla Dc, che sguazzava nel vecchio sistema del collocamento perché controllava lei stessa i collocatori. Poi a quelle posizioni è arrivato nel 1997 un governo di centrosinistra che includeva Rifondazione comunista, ma solo dopo che la Corte di giustizia aveva condannato l’Italia per il suo monopolio statale dei servizi di collocamento, e con 15 anni di ritardo che ci hanno fatto arrivare a questa riforma penultimi in Europa (al solito c’è la Grecia che ci salva dalla posizione di ultimi della classe). Stesso discorso per il lavoro temporaneo tramite agenzia, di cui pure sostenevo la necessità di un riconoscimento legislativo nel libro del 1982, e poi in diversi scritti successivi. Se ne parlava diffusamente, del resto, già prima del 1982, nella seconda metà degli anni Settanta; ma, anche qui, ci siamo arrivati soltanto nel 1997. Oggi sono i sindacati che indicano al governo la «somministrazione» come forma di lavoro precario tutto sommato da valorizzare, certo non da demonizzare.

Poi cosa succede?
Nel 2005 scrivo il libro A che cosa serve il sindacato? e vengo tacciato di attentare a una struttura portante della protezione dei lavoratori, poiché contesto il dogma dell’inderogabilità rigida del contratto collettivo nazionale di lavoro, che viene identificato come «la fonte e garanzia dei diritti fondamentali dei lavoratori». Lo scrissi quando in Germania erano già arrivati da due o tre anni a fare quella riforma di cui parlavamo all’inizio della nostra conversazione; non stavo inventando nulla, semplicemente guardavo quel che accadeva al di là delle Alpi. Sei anni dopo, nel 2011, si firma l’accordo interconfederale del 28 giugno, e lo firma anche la Cgil. Non ho sentito nessuno che dicesse che forse si era sbagliato a ostracizzare quel mio libro, che poi in realtà ha avuto un successo editoriale straordinario e ora è nelle edicole nella collana Oscar Bestsellers. Anche in questo silenzio, in questa difficoltà a riconoscere diritto di cittadinanza alle idee «fuori linea», vedo un’eredità culturale del terzinternazionalismo comunista, della quale la sinistra italiana non riesce a liberarsi, e che le fa molto danno, perché ritarda la sua capacità di cogliere i segni dei tempi. Sul terreno della struttura della contrattazione collettiva, siamo arrivati a fare quel che hanno fatto in Germania con dieci anni di ritardo. E gli anni di ritardo sarebbero stati di più senza lo strappo di Marchionne. Non è un caso che gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori siano del 2010, e l’accordo interconfederale della grande svolta sia del giugno 2011. Ma lo stesso ritardo lo abbiamo dimostrato sul terreno del dualismo del mercato del lavoro.

E siamo di nuovo alla questione del precariato.
Ho proposto la tematica del conflitto di interessi insider/outsider nel libro Il lavoro e il mercato, del 1996. La Cgil ha dedicato addirittura una delle tesi del suo congresso del 2004 per contrastare quella chiave di lettura dei problemi del mercato del lavoro, indicando esplicitamente la teoria insider/outsider come «fuorviante». Oggi, pur con le contraddizioni di cui parlavamo prima, si è arrivati a un progetto di riforma la cui ratio legis affonda le sue radici pro- prio nella teoria insider/outsider. E la sinistra, pur avendo premuto per ridurne l’incisività, non potrà permettersi di non votare in Parlamento a favore di questa riforma. Avrebbe potuto arrivarci guidando lei la danza, e invece ci è arrivata tirata per i capelli, soffrendo mal di pancia terribili per questo voto. Anche questo è un ritardo drammatico, su di una questione di importanza cruciale. È un po’ la stessa cosa che è accaduta anche per la scala mobile.

Ti è toccato il ruolo del grillo parlante, della Cassandra.
Il mio ruolo è sempre stato eccentrico rispetto alla sinistra; è stato quello di chi si doveva scontrare, dell’eretico, della voce scomoda… Non me ne lamento. Però mi colpisce che questo sistematico ritardo si ripeta ancora, sempre uguale, senza che nessuno a sinistra mostri di percepirne il costo, senza che nessuno si renda conto che è proprio questo ritardo ciò che impedisce alla sinistra di intercettare i consensi persi dal centrodestra. È proprio questo ritardo che impedisce sistematicamente alla sinistra italiana, anche quando conquista la maggioranza, di dare al paese un governo stabile e credibile. Mi piacerebbe che qualcuno riconoscesse gli errori che sono stati via via commessi, sempre uguali; invece chi ne è stato responsabile continua a pontificare, e si prepara per il prossimo errore della stessa serie. Forse, almeno ora, sarebbe il caso di affrontare questi temi con meno verità rivelate, più attenzione alla comparazione internazionale e più spirito critico, più apertura alle scienze economiche e sociali, che hanno tanto da insegnare alla politica. E poi, basta con questo refrain per cui «in Italia non si può fare» perché «noi siamo diversi» o perché «noi abbiamo il Sud»…

… o perché «non siamo la Danimarca»…
… o perché «non abbiamo senso civico». Basta inchiodare il nostro paese alle sue tare tradizionali! In questo modo, invece che rompere i circoli viziosi, li alimentiamo. E ci condanniamo a rimanere ancorati ai vecchi equilibri deteriori.

Mentre parlavi pensavo che, da noi, anche la legge contro la violenza omofobica non si approva per via del «piano inclinato», e anche qui per fortuna abbiamo la Grecia che sta peggio di noi. Che si parli di diritti civili o di diritto del lavoro, la conservazione utilizza sempre i medesimi strumenti.
È così. I politologi ci spiegano che l’argomento del «piano inclinato» è il cavallo di battaglia di tutti i peggiori conservatorismi. È l’argomento col quale ci si vieta qualsiasi scostamento rispetto alla linea seguita sin qui. Questo implica una chiusura d’orizzonti, perché è ovvio che qualsiasi innovazione ha in sé qualche rischio di errore. Ciò di cui non ci si rende conto è che qualsiasi rifiuto di novità ha in sé un rischio di errore ancor maggiore. Ma il rischio è il nostro mestiere, non possiamo certo evitarlo.

Sì, ma se rendi ufficiale che accoltellare un omosessuale non va bene, con ciò stesso riconosci la categoria degli omosessuali. E se riconosci una categoria, poi devi chiederti per quale motivo quella categoria ha diritti inferiori rispetto alla generalità dei cittadini. E quindi concederle, magari gradualmente ma ineluttabilmente, la piena parità.
In Italia questo «freno a mano» viene azionato in nome di valori che si pretendono cristiani, ma dei quali è difficile individuare una qualsiasi radice evangelica. Per esempio, l’argomento del piano inclinato è usato da monsignor Sgreccia per impedire qualsiasi sperimentazione in campo genetico che si discosti da un modello che lui attribuisce alla verità rivelata, ma di cui non c’è traccia di fondamento nella Bibbia. Cercare il minimo accenno alle cellule staminali nel Vangelo o nell’Antico Testamento sarebbe evidentemente assurdo, così come cercare nella Bibbia un accenno alla migliore regolamentazione civile delle convivenze. Si usa l’argomento del piano inclinato per difendere delle incrostazioni culturali.

Io ho avuto un momento di polemica con qualcuno che disse che la tua possibile nomina a ministro del Welfare nel governo Monti avrebbe causato un imbarazzo al partito.
No, veramente è stato detto di peggio: che la mia nomina avrebbe significato «la fine prematura» dell’esperienza del governo Monti. Il discorso in pratica era che, se Pietro Ichino fosse stato nominato ministro del Lavoro, il Pd non avrebbe votato la fiducia al nuovo governo. Era un modo per lanciare un messaggio a Mario Monti: non ti azzardare a toccare l’articolo 18. Si è visto come è andata: il ministro Elsa Fornero ha riscritto l’articolo 18 da cima a fondo, e il Pd lo voterà. Ma quella metà del Pd che si è attardata sulla parola d’ordine «L’articolo 18 non si tocca» lo voterà nello stesso spirito di chi trangugia un rospo, mentre lo stesso Pd avrebbe potuto trovarsi oggi a votare una riforma più organica e meno politicamente costosa, se si fosse posto sulla lunghezza d’onda del mio progetto, invece di fare tutto il possibile per prenderne le distanze.

E, tuttavia, tu sei un senatore del partito. Cos’è che fa di te ancora un democratico, nonostante tutto?
Da che sono in Senato continuo a ricevere ogni settimana dai cinque ai dieci inviti per incontri in materia di lavoro in federazioni e circoli di ogni parte d’Italia; pur potendone accogliere soltanto una piccola parte, in questi quattro anni ho partecipato a più di mezzo migliaio di incontri, trovando sempre sale piene e persone attente, aperte, interessate, anche quando non pienamente consenzienti; tutte disposte a fare la mezzanotte per discutere con me. Almeno per metà, il Pd è fatto di questa gente, alla quale mi sento profondamente legato. Del resto, in Senato le cose non vanno in modo molto diverso: il progetto di legge per il codice del lavoro semplificato e la flexsecurity, che ho presentato nel 2009, è stato firmato da 55 senatori, quasi tutti del gruppo del Pd.

E quindi, qual è il ruolo che uno come Ichino può avere nel partito?
Penso che la buona politica abbia certamente bisogno del politico di mestiere. Quello che deve vincere le prossime elezioni e che – per quanto intelligente e lungimirante – è costretto a cercare il consenso immediato. Ma la buona politica ha anche bisogno del politico «di complemento», reclutato tra le file degli studiosi, degli intellettuali, che non è preoccupato del consenso immediato e che sa cogliere i segni dei tempi. Quello che per mestiere cerca di vedere come andranno le cose non solo entro il prossimo anno, ma anche nei prossimi dieci, e quindi cerca di costruire un ponte fra il consenso dell’oggi e il consenso del domani. Questo è indispensabile, se non vogliamo che la politica si riduca alla demagogia, al populismo.

Fu quello che dicesti a Genova alla conferenza sul lavoro, quando si decise di non far votare il tuo documento – che era stato presentato anche da me, oltre che da Paolo Giaretta, Maurizio Ferrera, Michele Salvati ed Enrico Morando – ma di metterlo a disposizione del partito «a futura memoria».
Il mio ruolo nella sinistra è stato questo; lo è stato sempre, fin da quando lavoravo nella Cgil all’inizio della mia vita adulta. Sempre eccentrico, però, devo dire, quasi sempre rispettato, perché mi si è riconosciuta l’onestà intellettuale e la rettitudine morale che, quantomeno, fanno sì che io possa essere stato ascoltato con fastidio ma quasi mai squalificato personalmente.

Ma è sempre stato così difficile?
Più o meno: da quando ho cominciato a lavorare per la Fiom nel 1969 è sempre stato così, anche se nella Cgil degli anni Settanta – quella dei Lama e dei Trentin – ho respirato un’aria più libera e aperta di quella che si respira nella Cgil di oggi. Quanto alla vita di partito, mi aspettavo che nel Partito democratico, fondato nel 2007, questi rapporti tra il politico professionale e il politico di complemento si fluidificassero un po’. Mi attendevo che i tempi del ritardo si riducessero, che ci fosse un’accelerazione nella capacità di elaborazione di questo partito: non nasceva forse per liberarsi di vecchie incrostazioni? Immaginavo che si potesse avere un rapporto più aperto, e anche più produttivo, più fecondo di idee per le riforme necessarie al paese. Ma tutto questo avrebbe richiesto una leadership capace di dialogare con l’opinione pubblica su questi temi, facendo penetrare nel senso comune del popolo democratico queste cose. Questo c’è stato per qualche mese, poi il partito si è un po’ inaridito e si è tornati al vecchio stile. Oggi, nei confronti di questo Pd, mi sento un po’ come ero nei confronti del vecchio Pci. Vedo un avvizzimento della sua ispirazione originaria, quella in base alla quale accettai la candidatura al Parlamento propostami da Veltroni. Però vedo anche tanti germi di una possibile ripresa della carica innovatrice del partito e della sua libertà dalle vecchie incrostazioni culturali.

Un’ultima domanda. Mi racconti un momento di grande cambiamento nella tua vita?
Un primo cambiamento è stato la mia elezione a sorpresa alla Camera nel 1979. Non me lo aspettavo assolutamente; fino ad allora ero stato e continuavo a essere ben felice di lavorare a tempo pieno alla Cgil. Invece venni catapultato in Parlamento. Altrettanto brusca fu la fine di quell’esperienza parlamentare, con la mia mancata rielezione, che fu chiaramente dovuta alle mie posizioni eccentriche in materia di politica del lavoro: era appena uscito il libro sul «collocamento impossibile» di cui abbiamo parlato prima. Un’altra svolta imprevista è nata, quattro anni fa, dalla proposta di Veltroni di tornare in Parlamento. Ho dovuto sospendere l’insegnamento e l’attività professionale – ero professore a tempo definito –, e ho dovuto abbandonare l’attività del mio studio e anche il «Corriere della Sera», di cui ero editorialista di punta. È stata un’esperienza che ha prodotto più di quanto mi sarei aspettato e della quale, quindi, sono davvero contento. Non mi sono pentito di aver accettato quell’invito di Veltroni. Ho soltanto qualche dubbio sul fatto che questa esperienza possa proseguire. Forse non è un caso che le legislature da me fatte finora siano multiple di otto: ho fatto prima l’ottava, ora la sedicesima; se la prossima fosse la ventiquattresima, vorrebbe dire che c’è una logica in tutto questo: la politica italiana mi sopporta soltanto a piccole dosi, al massimo per una legislatura ogni otto. O forse sono io che la sopporto soltanto in questa dose. Sono fatto così, e a sessantatré anni non so se è il caso di sforzarmi per cambiare.

Senza dubbio, Pietro. Ma non credo farebbe bene al paese accumulare ulteriori ritardi.

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