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LE PENSIONI D’ORO CHE VANNO TOSATE (E COME FARLO)

IL CONTRIBUTO STRAORDINARIO DEVE (E COSTITUZIONALMENTE PUÒ) ESSERE IMPOSTO SULLA PARTE NON EFFETTIVAMENTE GUADAGNATA DELLA RENDITA PENSIONISTICA

Lettera sul Lavoro pubblicata dal Corriere della Sera il 13 agosto 2013 – In argomento v. anche l’informazione e la valutazione con cui ho risposto a un lettore il 5 maggio 2012 [1] circa il voto del PD in Senato sulle pensioni degli alti dirigenti dello Stato di pochi giorni prima – Segue un commento di Alessandro De Nicola su l’Espresso del 16 agosto2013

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Caro Direttore, nei giorni scorsi il Corriere ha dato conto dettagliatamente di alcuni trattamenti pensionistici davvero impressionanti: molte decine di migliaia di euro al mese. Di fronte a notizie come questa l’uomo della strada – che considera la pensione soltanto una forma di assistenza – rimane attonito e si chiede come queste pensioni possano essere state liquidate e perché esse possano essere mantenute in vita anche in un periodo di “vacche magrissime” come quello che stiamo attraversando.

La realtà è che ci sono “pensioni d’oro” di due tipi, molto diversi tra loro. Se non mettiamo a fuoco la differenza tra i due tipi, la nostra battaglia contro le rendite indebite è destinata a nuove sconfitte, come quella subita ultimamente davanti alla Corte costituzionale: la quale ha ritenuto incostituzionale il “contributo straordinario” del cinque per cento che il Governo Monti aveva imposto sulle pensioni superiori a 90.000 euro annui (dieci per cento su quelle superiori ai 150.000).

I casi – dicevo – sono due. Il primo è quello di chi percepisce una pensione molto elevata perché per tutta la propria vita lavorativa ha percepito retribuzioni molto elevate, e ha versato contributi previdenziali in proporzione. In questo caso, la “pensione d’oro” non è altro che una porzione, differita nel tempo, della “retribuzione d’oro” che l’ha generata. È sbagliato che ci siano retribuzioni d’oro? In certi casi sì (anche se esse tornano comunque subito, per metà, a beneficio di tutti i cittadini, attraverso le tasse); ma in molti altri casi no. Se il sig. Rossi ha la capacità di aumentare del dieci per cento la produttività dei mille dipendenti di un’impresa, è interesse anche di questi ultimi che l’impresa stessa ingaggi il sig. Rossi pagandolo un milione all’anno. Staranno meglio sia i mille dipendenti, sia gli azionisti, sia i contribuenti (il problema dell’enorme disparità di reddito che così si determina, e dell’“obbligo di restituzione” che ne deriva, non è di natura giuridica o politica, ma di natura esclusivamente morale e riguarda soltanto il sig. Rossi e la sua coscienza). Se poi su quel milione di euro ogni anno per trent’anni vengono versati trecentotrentamila euro di contributi all’Inps, non c’è proprio niente di male nel fatto che, quando il sig. Rossi va in pensione, l’Inps calcoli sulla base di quella ingente contribuzione la parte del suo trattamento maturata in quei trent’anni: si tratta solo di una restituzione. E lo Stato? Si accontenti di prelevarne il 45 per cento a titolo di Irpef, come su tutti i redditi personali di quell’entità: questo dice la Corte costituzionale; se poi lo Stato ritiene che questa aliquota sia troppo bassa, la aumenti per tutti. Effettivamente, non si vede il motivo per cui il sig. Rossi dovrebbe essere penalizzato più di chiunque altro abbia un reddito dello stesso livello, solo perché il suo è costituito da una retribuzione differita.

Il discorso cambia radicalmente se il sig. Rossi ha avuto la retribuzione di un milione di euro soltanto negli ultimi dieci della sua vita lavorativa, ma la sua pensione è stata calcolata per intero in proporzione alla retribuzione e contribuzione di quell’ultimo decennio. In questo caso, il sig. Rossi si è effettivamente guadagnato soltanto un terzo o un quarto della pensione d’oro che gli viene erogata, mentre la parte restante è sostanzialmente regalata. Questo si chiama “sistema retributivo” di calcolo della pensione; ed è quello che è stato in vigore fino alla riforma Monti-Fornero del dicembre 2011, per tutti i fortunati che hanno incominciato a lavorare e versare contributi previdenziali prima del 1978 (cioè per la generazione di quelli che oggi hanno cinquanta o sessant’anni).

Oggi la maggior parte delle pensioni d’oro nasce proprio dall’applicazione di questo vecchio e sbagliatissimo metodo di calcolo: il sig. Rossi incomincia a guadagnare il super-reddito soltanto nell’ultimo periodo della sua vita lavorativa, ma si vede poi calcolata la pensione per intero in riferimento a quell’ultimo periodo. Ecco, questa è la parte della pensione non effettivamente guadagnata: la differenza tra la pensione calcolata in proporzione alle ultime retribuzioni e quella calcolata in stretta proporzione ai contributi versati nel corso di tutta la vita lavorativa. Su questa differenza può e deve applicarsi un contributo straordinario, che, applicandosi solo su questa parte, può essere determinato anche in misura molto superiore rispetto a quella del cinque o del dieci per cento fissata dal Governo Monti l’anno scorso e poi bocciata dalla Corte costituzionale. Se il contributo straordinario sarà riferito soltanto a questa differenza, la Corte non potrà non approvarlo, poiché esso non creerà una disparità di trattamento, bensì al contrario ridurrà un privilegio indebito, in un momento di straordinaria necessità. Questo è – insieme ad altre cose – il contenuto di una proposta che ho elaborato con Giuliano Cazzola e Irene Tinagli. Il Governo Letta avrebbe tutto da guadagnare nel farla propria; e nel farla camminare in fretta.

BUON SENSO ED EQUITÀ.
Commento di Alessandro De Nicola pubblicato su l’Espresso del 16 agosto 2013

“There is not such a thing as a free lunch”, non esistono pasti gratis, é un motto reso popolare dal premio Nobel Milton Friedman. Si tratta di una verità intuitiva che sembra sfuggire solo ai politici, i quali amano promettere benefici a destra e a manca a spese di non si sa chi. In Italia il tema é all’ordine del giorno ed é ben rappresentato dal dibattito intorno alle pensioni d’oro. Basta farsi un giretto su un qualsiasi social network e uno degli argomenti più gettonati è proprio questo: si fanno nomi e cognomi di coloro i quali percepiscono un altissimo vitalizio, di solito ricoprendo di improperi loro, la classe politica e la Corte Costituzionale che ha bocciato il contributo straordinario deciso dal governo Monti del 5% per le pensioni sopra ai 90.000 euro l’anno e del 10% per la parte superiore ai 150.000 euro. Ora, una proposta di legge elaborata dal senatore Pietro Ichino, insieme ad Irene Tinagli e Giuliano Cazzola, non per caso tutti cofondatori  di Italia Aperta, l’associazione che dà le pagelle di efficienza alle leggi, riporta un po’ di buon senso alla discussione. In poche parole, i proponenti distinguono tra chi percepisce un elevato vitalizio perché nel corso della propria vita lavorativa ha versato sufficienti contributi per meritarselo e chi invece no. Nessuno avrebbe niente da obiettare se il sig. Tizio, dopo 40 anni di onorata carriera dirigenziale, avendo versato qualche milione di euro in un fondo pensionistico privato si godesse i frutti della sua parsimoniosità ricevendo in cambio cospicue somme annuali calcolate dagli attuari del fondo. Ebbene, ciò non dovrebbe scandalizzare nemmeno se al posto del fondo privato ci fosse l’INPS. Lo Stato tosa i redditi alti con l’Irpef progressiva e negando loro qualsiasi tipo di agevolazione (dall’università dei figli all’estensione dei ticket): non c’è ragione che si appropri anche di quanto risparmiato attraverso i contributi previdenziali (salvo una minima quota di solidarietà che in alcuni casi, ad esempio le casse previdenziali professionali, assume invece i contorni di quasi un esproprio). Tutt’altro discorso si può fare per il sig. Caio il quale, avendo goduto in passato del sistema pensionistico retributivo (ora sostituito dal contributivo), percepisce un assegno pensionistico molto più alto rispetto ai contributi versati. Come è possibile? Semplice, col sistema retributivo la pensione si calcolava avendo come base di riferimento gli ultimi 10 anni di attività lavorativa, periodo in cui, col crescere dell’anzianità di servizio, in genere si guadagna di più che nella media dei precedenti 20, 25 o 30 anni. Questo è il vero scandalo che viene difeso con il mantra dei “diritti quesiti”. Più che diritti quesiti a me sembrano “privilegi carpiti” e comunque cosa dovrebbero dire coloro i quali avevano l’aspettativa di andare in pensione a 58 anni e invece ci andranno più tardi? Per loro non vale la favola dei diritti quesiti? Ecco perché la proposta di Ichino, Tinagli e Cazzola di imporre un contributo solo su quelle pensioni d’oro che non riflettono i contributi versati, dovrebbe sgombrare il campo da accuse di incostituzionalità (non solo non si commette un’ingiustizia, ma si ripara ad una esistente per la quale a parità di contributi c’è chi prende di più e chi di meno), ed in più é decisamente sensata. Un solo caveat: qualsiasi contributo straordinario, per quanto equo come in questo caso, equivale ad un’entrata supplementare per le casse dello Stato, ad una tassa insomma. Non ce n’è bisogno: quindi la proposta dovrebbe essere corredata da una clausola automatica per la quale qualsiasi centesimo recuperato dall’imposta sulle super-pensioni “parassitarie” sia destinato ad abbassare l’Irpef per i redditi bassi. Il buon senso é benvenuto, ma senza bisogno di far ingrassare ulteriormente il Leviatano