LIBERO: IL PROGETTO DI SPERIMENTAZIONE REGIONALE DEI NUOVI SERVIZI PER L’IMPIEGO

COME PASSARE DALLE COSIDDETTE POLITICHE DEL LAVORO PASSIVE A QUELLE ATTIVE, ATTUANDO IL PRINCIPIO DI CONDIZIONALITÀ DEL SOSTEGNO DEL REDDITO

Intervista a cura di Alessandro Giorgiutti pubblicata da Libero, 4 ottobre 2013 – Sono on line anche la bozza di disegno di legge per l’attivazione del progetto e le slides della relazione svolta al convegno di Milano del 23 settembre scorso, nel quale il progetto è stato presentato e discusso

Mentre si cercano i soldi per la Cassa integrazione in deroga per gli ultimi mesi dell’anno, lei sta lavorando in Parlamento a un progetto alternativo alla Cassa integrazione: un contratto di ricollocazione che coinvolga le Regioni, i centri per l’impiego pubblici, le agenzie private e anche, in via facoltativa, l’impresa che abbia licenziato il dipendente in cerca di nuovo impiego. È giusto chiamarlo un progetto alternativo?
Sì, nel senso che esso si propone di affrontare le crisi occupazionali in modo nuovo. Finora, nel migliore dei casi a chi perde il posto abbiamo offerto soltanto un sostegno del reddito: nella forma appropriata di un trattamento di disoccupazione o in quella inappropriata della Cassa integrazione, ma sempre senza che il beneficio fosse condizionato per davvero alla disponibilità a un nuovo lavoro.

Questa condizionalità, però, la legge già oggi la prevede.
Ma di fatto è del tutto inoperante. Il risultato è che abbiamo praticato soltanto le cosiddette politiche del lavoro passive, per le quali dal 2010 abbiamo speso oltre 20 miliardi l’anno. Sono invece mancate le politiche attive, quelle volte alla ricollocazione del lavoratore. Ora, questo progetto mira a consentire un collegamento stretto, proprio attraverso l’applicazione della condizionalità, tra le politiche passive e le misure attive per il reinserimento del disoccupato nel tessuto produttivo.

Ci riassume i contenuti della proposta?
Lo Stato si limita a porre a disposizione delle Regioni la possibilità dell’esperimento: lo attiva solo la Regione che vuole utilizzarlo per riqualificare la propria spesa in questo settore. La Regione, a sua volta, con una delibera della Giunta, offre ai disoccupati la possibilità di stipulare il contratto di ricollocazione, mettendo sul piatto un voucher per la copertura del costo di un buon servizio di outplacement, cioè di assistenza intensiva nella ricerca del nuovo posto. Il voucher è suddiviso in una parte fissa e una, assai maggiore, pagabile soltanto a ricollocazione avvenuta. Il lavoratore può scegliere liberamente l’agenzia di cui avvalersi tra quelle accreditate presso la Regione.

Non c’è il rischio che le agenzie accreditate si concentrino sulle persone più facilmente collocabili, lasciando perdere le altre?
Per neutralizzare questo rischio, il progetto prevede che l’entità del voucher sia differenziata in relazione al grado di “collocabilità” di ciascuna persona, secondo i criteri che ciascuna Regione deciderà. La Lombardia ha già elaborato una “griglia di valutazione” della collocabilità delle persone interessate molto evoluta. Le agenzie accreditate sono comunque impegnate ad accettare tutti i lavoratori che si rivolgono loro.

E dov’è la condizionalità?
Il contratto prevede l’affidamento della persona interessata a un tutor designato dall’agenzia, che ha il compito di assisterla giorno per giorno, ma anche di controllarne la disponibilità effettiva per tutto quanto è necessario ai fini della ricollocazione, compresi eventuali corsi di riqualificazione mirati. Nel caso di rifiuto ingiustificato di una iniziativa, o addirittura di un posto di lavoro, il tutor lo contesta al lavoratore. E alla contestazione – salva possibilità di impugnazione da parte del lavoratore davanti a un arbitro – consegue il dimezzamento dell’indennità; poi, la seconda volta, l’interruzione.

Arbitrato: non è una complicazione eccessiva?
Al contrario: è una grande semplificazione. L’arbitro, persona esperta del mercato del lavoro locale, è scelto di comune accordo dai sindacati maggiormente rappresentativi e dall’associazione delle agenzie. E decide entro due settimane, con una procedura semplicissima: anche perché non ci sono da fare complicate istruttorie: basta sentire il tutor e il lavoratore.

Perché chi viene licenziato e ha un’indennità dovrebbe decidere di aderire al nuovo contratto, che prevede questa condizionalità?
Per godere del servizio di outplacement pagato dalla Regione. Il progetto, poi, prevede che al contratto di ricollocazione possa partecipare anche l’impresa che licenzia, la quale può impegnarsi a pagare un trattamento complementare di disoccupazione. Così, per esempio, il lavoratore licenziato che stipula il contratto, invece di ricevere soltanto il 75 per cento dell’ultima retribuzione erogato dall’ASpI, riceve il 90 per cento. Comunque, se nella fase iniziale ci sarà un numero esiguo di persone interessate, questo consentirà alla Regione di “arricchire il piatto”, concentrando le risorse su un minor numero di casi.

Le risorse, appunto. Da dove le prenderanno le Regioni che attiveranno il progetto?
Oggi le Regioni spendono fiumi di denaro per corsi di formazione professionale la cui utilità effettiva non viene quasi mai misurata. È urgente che esse incomincino a riqualificare questa spesa, anche spostandola in parte dalla formazione all’attività di placing. Poi ci sono i contributi del Fondo Sociale Europeo, di cui riusciamo a utilizzare mediamente soltanto il 40 per cento, per mancanza di progetti che abbiano i requisiti necessari; questo esperimento soddisferebbe pienamente quei requisiti. Poi ci sono i fondi UE per lo Youth Guarantee, il programma per l’aiuto intensivo all’inserimento nel tessuto produttivo dei giovani. Infine occorre considerare che tenere i lavoratori in Cassa integrazione per anni, come facciamo ora diffusamente, costa molto di più che inserirli nel giro di sei mesi nel grande flusso delle assunzioni: nel 2012, in Italia, nonostante la crisi nera, sono stati stipulati un milione e mezzo di contratti di lavoro a tempo indeterminato, abbastanza ben distribuiti fra nord, centro e sud!

Il progetto può applicarsi anche ai giovani che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro?
Certo: il contratto di ricollocazione può costituire una delle alternative da offrire loro entro il quarto mese, come previsto dallo Youth Guarantee. Con o senza un’“indennità di inserimento”. Sarebbe un ottimo modo di usare i fondi che per questo programma riceveremo dall’Unione Europea.

Pensa che tutte le Regioni siano pronte a mettere in pratica efficacemente questa sperimentazione?
Tutte no. Alcune, come il Lazio e la Toscana, non aspettano altro; e, a ben vedere, potrebbero anche avviare questo progetto a legislazione invariata. Però una norma di legge statale sarebbe molto utile per dettare le linee guida dell’esperimento. Le altre Regioni seguiranno, sfruttando l’esperienza delle prime. E sarà bene che ciascuna sfrutti a fondo il largo spazio di discrezionalità nella determinazione delle modalità specifiche dell’esperimento: entità e modulazione del voucher.

Ha fatto qualche stima sui costi del progetto?
Consideriamo il caso di una Regione nella quale si attivino 10.000 contratti di ricollocazione. Si può ipotizzare che il costo di un buon servizio di outplacement coperto dal voucher varii da un minimo di 2000 a un massimo di 4000 euro. Questo comporterebbe per la Regione, se tutti i contratti andassero a buon fine, un costo di circa 30 milioni.

Parecchio.
Già. Ma ha fatto il conto di quanto costa tenere, invece, quei 10.000 lavoratori in Cassa integrazione per due, tre, quattro o più anni?

Di ricollocazione e politiche attive, nel documento unitario Confindustria-sindacati di inizio settembre su occupazione e crescita non c’è traccia…
Certo, mettere la gente che perde il posto in Cassa integrazione, cioè in freezer, per qualche anno è la soluzione più comoda. Ma è una soluzione costosissima e che fa un danno grave proprio ai lavoratori interessati. D’altra parte, sindacati e imprenditori finora hanno considerato che questa dei servizi di assistenza intensiva per la ricollocazione, nel nostro Paese, sia una partita persa. Uno degli scopi principali del progetto di sperimentazione è, invece, proprio di mostrare che anche in Italia queste cose si possono fare, e si possono fare bene.

C’è invece, in quel documento, soprattutto la domanda di abbattimento del cuneo fiscale. Al netto delle incognite politiche di questi giorni, pensa che ci siano le condizioni per un intervento di forte riduzione del carico fiscale sul lavoro nel 2014? E… quanto forte dovrebbe essere per risultare davvero efficace?
Per azzerare il differenziale che ci separa dalla Germania, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, occorrerebbero 50 miliardi l’anno. Oggi appaiono una somma astronomica; però non è irrealistico il modo in cui essi propongono di trovarla: stipulando un patto di ferro con l’UE, che abbia per oggetto una autorizzazione a sforare per qualche anno rispetto al Fiscal Compact, in cambio di un impegno rigorosissimo di destinare tutte le risorse così ottenute all’abbattimento del cuneo fiscale e contributivo.

L’altro richiamo deciso delle parti sociali è a una nuova politica industriale. Come tradurrebbe lei questo concetto di politica industriale?
Credo che l’unica politica industriale efficace che possiamo proporci di attuare, oggi, consista nell’apertura del Paese agli investimenti diretti stranieri. Basterebbe fare un quinto di quello che prevede il documento Destinazione Italia elaborato dal Governo Letta, per ottenere qualche primo risultato importante. Se fossimo capaci di allineare l’Italia al livello di attrattività di un Paese europeo mediano, per questo aspetto, come la Francia o l’Olanda, questo significherebbe un flusso aggiuntivo di capitali stranieri pari al 3,6 per cento del PIL: tra i 50 e i 60 miliardi l’anno!
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