CHI FA PARTE DELL’“ITALIA CHE SUCCHIA RENDITE GRANDI E PICCOLE”

LE CATEGORIE CHE TRAGGONO UN BENEFICIO INDEBITO DALLA REDISTRIBUZIONE DI RICCHEZZA ATTUATA DALLO STATO

Lettera pervenuta il 26 novembre 2013, a seguito del mio editoriale 27 novembre: non c’è proprio niente da festeggiareSegue la mia risposta

Egregio Professore,
i suoi editoriali sono sempre stimolanti e costituiscono utile occasione di brain storming.
Con riferimento a quello di ieri – Non c’è proprio niente da festeggiare – , sono d’accordo con lei sia sul fatto che la decadenza di Berlusconi non deve creare alcuna illusione di palingenesi, sia sull’esposizione delle cifre che dimostrano la stridente contraddizione fra le premesse della “discesa in campo” berlusconiana e i risultati ottenuti.
Ma è proprio su quelle premesse che mi permetto qualche rilievo rispetto alle sue valutazioni, con cui lei sembra condividere una contrapposizione fra un’Italia che produce e che rischia e un’Italia “che succhia rendite attraverso le imposte e non rischia mai nulla”. Da vecchio liberal, non discuto l’impostazione di massima (anche se non sono certo di aver capito se nella seconda categoria rientrino  i percettori di rendite più o meno parassitarie, i lavoratori dipendenti o entrambe le categorie).
Comunque formulo le seguenti considerazioni:
– l’ “Italia che produce e che rischia” è ormai ridotta solo alle più che benemerite piccole e medie imprese. Ma purtroppo non è sempre vero che “piccolo è bello”. Negli ultimi decenni sono man mano scomparse, o ridotte ai minimi termini, quelle (pur poche) grandi imprese che un tempo avevano contribuito in modo determinante al miracolo economico. E’ inutile far nomi, ma è certo che i settori dell’elettronica, dell’autotrazione, della chimica, della grande distribuzione, dei trasporti aerei, della telefonia, e tanti altri, sono ormai pressoché in disarmo o in mano ad aziende straniere;
– quanto sopra è ascrivibile solo in parte alla politica, mentre non può ignorarsi che il nostro capitalismo – al di là dei “lacci e laccioli” e della rigidità dei rapporti di lavoro – si è dimostrato per nulla all’altezza delle sfide globali, e anzi è proprio la mancata voglia di rischiare, e quindi di investire, che sta facendo scomparire le grandi industrie private. Semmai, anziché investire risorse autoprodotte, si è preferito far ricorso al denaro preso a prestito dalle banche, non raramente grazie a connivenze fra poteri forti, sicché il rischio è stato trasferito dalle aziende “produttive” al sistema bancario, e quindi in ultima analisi alla collettività;
– di investimenti in ricerca, da parte delle grandi imprese private, ve ne sono stati ben pochi, anche perché la loro resa, oltre che incerta, è differita nel tempo: si preferiscono invece gli investimenti speculativi che dànno, sì, un ritorno più immediato e cospicuo ma certo non contribuiscono all’economia reale;
– salvo che abbia capito male, circa l’83% delle imposte dirette gravano sugli stipendi pubblici e privati e sulle pensioni;
– in molti casi i percettori dei redditi più alti, comunque ricavati, trasferiscono i loro fondi all’estero o comunque evadono le imposte.
A questo punto mi chiedo a quale categoria appartengano quelli che “succhiano rendite” a scapito della collettività.
Cosa ne pensa?
Con i migliori saluti.
Giuseppe Daino

Quando parlo di “Italia che succhia rendite grandi e piccole e rischia poco o nulla” alle spalle di “quella che produce e rischia” mi riferisco, tra gli altri, in ordine decrescente di gravità del fenomeno dal punto di vista dell’etica civile:
–    agli imprenditori la cui “impresa” consiste nel vegetare all’ombra dei grandi enti pubblici, beneficiando di aiuti di Stato in varia forma, ivi compresa quella criminale degli appalti truccati;
–    agli imprenditori la cui impresa consiste nell’evasione fiscale sistematica;
–    ai dirigenti strapagati dello Stato, di enti pubblici o di società controllate da enti pubblici, che non rispondono del raggiungimento di alcun obiettivo;
–    ai professori universitari che insegnano pochissimo e non fanno ricerca;
–    ai impiegati pubblici, o dipendenti da carrozzoni tenuti in vita esclusivamente con il denaro pubblico, nulla o poco facenti, aggrappati per decenni alla loro inamovibilità;
–    ai militari che, secondo il disegno del ministero della Difesa si accingono a essere prepensionati a cinquant’anni e difendono a spada tratta questo progetto;
–    ai pensionati che percepiscono pensioni in larga parte non corrispondente a contributi versati;
–    ai cassintegrati da anni, che non cercano un nuovo lavoro regolare arrotondano con il lavoro nero.    (p.i.)

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