PER LA RIFORMA EUROPEA DELL’ITALIA

LE ELEZIONI DEL 24 MAGGIO PROSSIMO POSSONO E DEVONO DIVENTARE OCCASIONE DI CONFRONTO E AGGREGAZIONE TRA SCELTA CIVICA E TUTTI I MOVIMENTI E ASSOCIAZIONI DELL’AREA LIBERAL-DEMOCRATICA, CHE COMPIONO IN MODO RADICALE E COERENTE LA SCELTA EUROPEISTA

Intervento svolto all’Assemblea nazionale di Scelta Civica, Roma, 17 gennaio 2014

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Vi propongo l’osservazione curiosa di un fatto solo apparentemente casuale, ma a ben vedere non casuale affatto. Dei venti responsabili degli altrettanti settori politico-programmatici che Scelta Civica si è data nella primavera scorsa, nel novembre successivo solo due si sono staccati insieme al gruppo di Casini e Mauro. Quei venti responsabili erano stati scelti senza alcun riguardo alla loro provenienza politica o associativa, e ancor meno alla loro fede religiosa, ma esclusivamente in riferimento alla loro capacità di contribuire al completamento e all’attuazione dell’agenda di Scelta Civica, delle sue proposte sul terreno delle policies. Il fatto che solo due di questi venti abbiano seguito Casini e Mauro, nonostante che lo abbiano fatto quasi metà dei nostri parlamentari, non è casuale: è la conferma che la frattura si è determinata non su questioni ideologiche, ma sulle cose concrete da fare. È su queste che ci siamo divisi.

Quanto quella nostra agenda morda nel vivo si è incominciato a capirlo già ai primi di settembre, quando Mario Monti scrisse al ministro D’Alia per attirare la sua attenzione sul fatto che il suo progetto di “decreto stabilizzazioni” per le amministrazioni pubbliche era esattamente il contrario dell’agenda sulla quale avevamo chiesto i voti ai nostri elettori, in particolare il contrario di quanto richiedeva l’applicazione del principio della spending review: e in quell’occasione, quando il ministro mostrò di guardare con fastidio alle nostre critiche, si sentirono i primi scricchiolii premonitori della frattura che si sarebbe verificata di lì a poco. Se ne ebbe poi un’altra conferma quando il ministro Mauro presentò il suo piano per la riduzione degli organici delle Forze Armate, che prevedeva sostanzialmente il prepensionamento a 50 anni di 27.000 militari (sul presupposto che in Italia fosse impossibile, chissà perché, attivare qualche cosa di simile alla convenzione attivata dal Ministero della Difesa britannico con una grande impresa specializzata nell’outplacement, che dal 2006 a oggi ha consentito di ricollocare decine di migliaia di militari in altre amministrazioni e soprattutto in una vasta gamma di settori del tessuto produttivo). È stata la nostra battaglia a correggere profondamente il decreto D’Alia sulle stabilizzazioni nel pubblico impiego, a impedire che il prepensionamento di massa previsto nel disegno originario del ministro della Difesa andasse in porto, poi che si compissero altre scelte sbagliate dello stesso tipo, come quelle che si stavano delineando nel decreto cosiddetto “salva Roma”; e si può capire che a questo punto fosse difficile rimanere insieme, nella stessa formazione politica, in presenza di divergenze così gravi, su scelte di questa importanza.

Ora, però, di quanto è accaduto non è certo il momento di compiacersi. Quanto meno, non prima che siamo riusciti a trasformare le proposte contenute nella nostra agenda in idee-forza suscettibili di essere capite da milioni di persone. E di far loro almeno intuire i danni che hanno fatto al nostro Paese sia la vecchia destra, sia la vecchia sinistra, che nei decenni passati hanno detto a giorni alterni di condividere quelle idee e proposte, facendo però sistematicamente il contrario il giorno dopo. A questo proposito vi racconto un piccolo episodio, insignificante nelle sue dimensioni, ma significativo di quanto le grandi forze politiche siano capaci di dire una cosa e poi fare il contrario. All’inizio della legislatura passata, nel 2008, mi telefonò Silvio Berlusconi per propormi di fare il ministro del Lavoro nel suo Governo, dicendomi che condivideva in toto i miei progetti e le mie proposte. Gli risposi ringraziandolo, ma rifiutando l’offerta, essendo io a non condividere le sue idee e linee di azione su alcune questioni cruciali, quali la giustizia, la politica fiscale, le politiche del suo ministro dell’Economia, di difesa dell’“italianità” di alcune grandi imprese tra cui in particolare Alitalia, e altro ancora; aggiungendo, peraltro, che se davvero egli voleva realizzare quei miei progetti in materia di politiche del lavoro, sarei stato pronto a collaborare senza riserve alla loro attuazione, pur dall’opposizione. Senonché nei tre anni e mezzo che seguirono quella conversazione neppure una minima parte di quei progetti fu realizzato dal Governo Berlusconi. Salvo poi, nel settembre 2011, tornare lo stesso Berlusconi con l’acqua alla gola a far proprio il mio progetto del Codice semplificato del lavoro.

Alla fine del 2011 accadde poi che Mario Monti, chiamato a formare il nuovo Governo, abbia preso anch’egli in considerazione l’ipotesi di affidarmi il ministero del Lavoro; in quell’occasione furono due alti dirigenti del PD – il partito cui allora appartenevo – che posero drasticamente il veto, affermando che questa sarebbe stata considerata, nientemeno, come “una provocazione”. Erano gli stessi che solo un anno prima avevano qualificato come “attentatore ai diritti fondamentali dei lavoratori” un imprenditore italo-americano che si era permesso di chiedere tre deroghe al contratto collettivo nazionale per grande un piano industriale. Quel piano industriale di lì a poco avrebbe dato vita in Campania a uno stabilimento, quello di Pomigliano d’Arco, che è stato recentemente premiato come il più avanzato in Europa sul piano tecnologico e su quello ergonomico (cioè dal punto di vista del benessere di chi ci lavora); dove gli infortuni sul lavoro per le 2000 persone che vi sono addette sono stati letteralmente azzerati – non uno in due anni di attività! – perché tutte le produzioni pericolose o nocive sono affidate a 600 robot. Quella sinistra si è permessa di qualificare un piano industriale di questa qualità e portata come “attentato ai diritti fondamentali dei lavoratori”, per di più in una regione dove l’unica alternativa era ed è costituita dal lavoro a 4 euro all’ora negli scantinati controllati dalla camorra, senza contributi e senza diritti di alcun genere! Ma come pensiamo di ottenere lo sviluppo del nostro Mezzogiorno, e non solo di quelle regioni, criminalizzando in quel modo inconsulto una multinazionale che nel Mezzogiorno viene a investire, solo perché propone tre deroghe ad altrettante disposizioni organizzative del contratto collettivo nazionale? (Quando questo avveniva, nel 2010, la questione della rappresentanza sindacale della Fiom alla Fiat non si era ancora posta). Non si rende conto, la nostra vecchia sinistra, del messaggio di chiusura che in quel modo essa ha efficacemente lanciato a tutti gli investitori potenzialmente interessati a investire in Italia? Non si rende conto del danno enorme che, comportandosi in questo modo, essa causa a tutti i lavoratori italiani?

Sì, a tutti i lavoratori; non soltanto a quelli che vengono così privati di un’occasione di lavoro qualificato e altamente produttivo. Perché anche per tutti gli altri, i quali un lavoro ce l’hanno, non c’è protezione migliore della libertà, della dignità, della sicurezza economica e professionale, che quella data dalla possibilità di andarsene dall’azienda da cui sono trattati male, o meno bene, perché ce n’è un’altra che offre loro condizioni migliori.

L’episodio dell’opposizione all’investimento di Fiat-Chrysler è soltanto l’ultimo di una lunga serie, che ha visto la vecchia sinistra fare sponda alla vecchia destra nell’azione di scoraggiamento delle multinazionali interessate a investire da noi. È la storia delle barricate che abbiamo fatto via via contro l’olandese Abn Amro che voleva investire su Antonveneta, contro la spagnola Abertis che voleva investire sulle nostre autostrade, contro l’americana AT&T che voleva investire su Telecom, contro la francese Lactalis che voleva investire su Parmalat, contro la franco-olandese Air France-KLM che nel 2008 offriva di rilevare Alitalia portando un miliardo di investimento e accollandosi un miliardo e mezzo di debiti; è la storia delle barricate fatte per decenni in difesa del ferrovecchio del monopolio statale dei servizi nel mercato del lavoro, fino a quando la Corte di Giustizia europea non ci ha condannati a smantellarlo; o di quelle fatte in difesa del ferrovecchio del monopolio postale fino all’ultima ora e all’ultimo minuto possibile; e la rassegna delle nostre politiche bi-partisan di chiusura dell’economia nazionale potrebbe continuare ancora a lungo. Certo: a tenere lontani gli investimenti stranieri dal nostro Paese contribuiscono fortemente le inefficienze delle nostre amministrazioni, prima fra tutti quella giudiziaria, il costo troppo alto dell’energia e dei servizi alle imprese, una legislazione del lavoro farraginosa e disallineata rispetto ai migliori standard internazionali; ma un ostacolo di primaria importanza all’afflusso degli investimenti estero era costituito negli ultimi decenni anche da una cultura e da un sistema delle relazioni industriali chiuso all’innovazione (l’inderogabilità del contratto collettivo nazionale è servita anche a questo) e ostile all’imprenditoria straniera.

Il nostro compito, oggi, è di dare agli italiani la percezione di quanto ci è costato e quanto ci costa questa chiusura. Se l’Italia riuscisse ad allinearsi alla media europea per capacità di attrazione di investimenti stranieri, questo comporterebbe un maggiore flusso annuo di investimenti in entrata pari a circa il tre e mezzo per cento del PIL, che vuol dire tra i cinquanta e i sessanta miliardi di euro in più che entrano ogni anno, con piani industriali innovativi che generalmente portano con sé un aumento della produttività del lavoro, e con centinaia di migliaia di posti di lavoro in più. Questa è la leva principale sulla quale possiamo e dobbiamo agire per rimettere in moto l’economia italiana. Precondizione per questo è ovviamente che l’Italia rimanga nel sistema dell’euro; ma per questo è necessario anche che noi assumiamo sistematicamente gli standard di efficienza delle amministrazioni, delle infrastrutture e dei servizi del centro e del nord-Europa come benchmark, come punto di riferimento in ogni campo.

Questa è la riforma europea dell’Italia che noi proponiamo come essenziale per la nostra crescita, per il nostro benessere, per il futuro dei nostri figli. Proporre questa scelta non significa chiuderci in un profilo ideologico liberista, ma al contrario aprirci a tutti coloro – provengano essi dall’area socialista, democratica, popolare, o da qualsiasi altra – che sono convinti della necessità di questa apertura della nostra economia per la crescita del Paese; convinti, in particolare, che oggi non c’è niente di più progressista, di più socialmente utile, del rendere contendibili da parte di chiunque non soltanto le imprese, ma anche i servizi e le funzioni pubbliche, dal mercato del lavoro alla scuola, ai trasporti, ai servizi sociali.

Dobbiamo però anche essere consapevoli che in questa battaglia non siamo soli: tutto il Paese è percorso da un fermento di movimenti, gruppi, associazioni appartenenti all’area liberal-democratica, che in vario modo propongono quella stessa scelta europea, quella stessa riforma europea dell’Italia. È con loro che dobbiamo affrontare il passaggio elettorale delle elezioni europee, sfruttando la preziosa occasione di apertura e di confronto che esse ci offrono.  Con loro dobbiamo fare della composizione delle liste elettorali comuni un’occasione di confronto aperto e di aggregazione politica. Anche – perché no? – chiamando tutti coloro che in quest’area liberal-democratica si riconoscono a esprimersi in una consultazione “primaria” per la scelta dei candidati. In questa prospettiva sta lavorando il coordinamento che si è costituito il 4 dicembre scorso tra Scelta Civica e questi movimenti e associazioni.

Anche chi, come oggi Matteo Renzi, si propone di liberare il Partito Democratico dalle  incrostazioni ideologiche e dalle coazioni a ripetere della vecchia sinistra, avrà bisogno di potersi confrontare e cooperare con un partito radicalmente europeista, che di questa scelta  abbia fatto la propria ragion d’essere essenziale. E ne avrà bisogno domani anche un nuovo leader – se verrà – che si proponga di rifondare e guidare verso questa stessa scelta un centrodestra davvero affrancato dal populismo anti-europeista che oggi caratterizza il partito di Silvio Berlusconi.

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