ETTY HILLESUM: IL CUORE PENSANTE DEL LAGER

DIAMO UN PICCOLO CONTRIBUTO AL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO) RICORDANDO LA FIGURA DI ETTY HILLESUM NEL CENTENARIO DELLA NASCITA, CON ALCUNI CENNI BIOGRAFICI E UNA PICCOLA ANTOLOGIA DEI SUOI PENSIERI

Adelphi ha pubblicato dapprima una selezione del Diario 1941-1943 (1985) e delle Lettere 1942-1943 di E.H. (1986); poi, nel 2012-2013, l’edizione integrale di essi, nella quale abbiamo scelto i brani qui riportati

LA VITA
Il 15 gennaio di un secolo fa nasceva in Olanda Etty Hillesum, prima dei tre figli di Louis e di Riva Bernstein, appartenente ad una famiglia russa fuggita dai pogrom. Nella sua formazione, più che la carriera scolastica (Giurisprudenza), occorre mettere in rilievo la lettura di Rilke e la passione per la lingua e la letteratura russa – Dostoevskij -, da lei studiate e ben conosciute. Nel marzo del 1941 diviene paziente dello psico-chirologo junghiano Julius Speer, ebreo fuggito dalla Germania nazista, legame che si trasforma ben presto in una amitié amoureuse e che è di grande importanza per lo sviluppo spirituale di Etty. Speer le fa conoscere la Bibbia e S. Agostino, la aiuta a imparare a pregare (“La ragazza che non sapeva inginocchiarsi e che pure lo aveva imparato”; “Avere il coraggio di pronunciare il nome di Dio”) e ad aprirsi alla fede, la incoraggia a tenere un diario della sua vita, per mettere “ordine nel suo caos interiore”, scioglierne il“gomitolo aggrovigliato” e “pieno di paura”. Quando Speer muore di malattia, l’anno seguente, Etty è una donna forte, in grado di accettare la sua scomparsa, consapevole che essa gli risparmierà altra sofferenza: “Sono riconoscente che la tua vita sia finita naturalmente – scrive Etty il 15 settembre nel diario, rivolgendosi all’amico morto lo stesso giorno –, che anche a te sia toccato un po’ di dolore da sopportare. Tide dice: questo dolore gli è stato assegnato da Dio, e così gli è stato risparmiato quello che gli avrebbero inflitto gli uomini. Tu, caro uomo viziato, probabilmente non saresti stato in grado di sopportarlo. Io sì che ne sono capace, e in questo modo continuerò la tua vita e la trasmetterò ad altri.”.
Alla fine di luglio del 1942, Etty chiede ed ottiene di essere destinata a Westerbork, il principale campo di raccolta e transito degli ebrei olandesi (30-40.000 persone strette in uno spazio che originariamente doveva contenerne 1.500), come assistente sociale; rifiuta di nascondersi e di fuggire, vuole condividere il destino del suo popolo (“…altre persone, che sono oramai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno, [Dio,] se si è nelle tue braccia.”; in una lettera riflette lucidamente che “tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia”). Deve tornare qualche tempo ad Amsterdam, costretta a letto per un’ulcera gastrica, ma ha nostalgia del campo: “questi due mesi tra il filo spinato […] sono stati i mesi più intensi e più ricchi della mia vita e una tale conferma dei valori pù importanti e più alti per me. […] Ti sono così riconoscente, mio Dio, perché in ogni luogo mi rendi la vita così bella che ne ho nostalgia quando ne sono lontana”. A Westerbork Etty passa gli ultimi mesi, scrivendo agli amici di “fuori” e occupandosi con abnegazione dei deportati (“Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento”), molti dei quali ammalati. “Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. […] Ma se [noi ebrei] non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione -, allora non basterà.”.
Qui Etty è raggiunta dai genitori e dal fratello Mischa. Gli Hillesum sono deportati ad Auschwitz col convoglio del 7 settembre 1943. Nessuno di loro ne farà ritorno; lì Etty muore meno di tre mesi dopo, il 30 novembre.

ALCUNI PENSIERI DAL DIARIO

15 marzo 1941 – … la barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma. […] si può essere tanto combattivi e attenti ai propri principi anche senza gonfiarsi d’odio […]

Preghiera della domenica mattina [12 luglio 1942] – Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso prometterti nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzetto di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. […]
Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio.

18 maggio 1942 – […] Le minacce e il terrore  crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte. […] Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che su questa terra i tuoi simili si fanno l’un l’altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo esssere umano che spesso è diventato irriconoscibile. In mezzo alle rovine delle sue azioni insensate. […] Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni -, e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!

19 giugno 1942 – […] Trovo bella la vita e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. […] Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. […] Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.

15 luglio 1942 – […] Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo “Dio”. Non so, trovo così infantile che si preghi per ottenere qualcosa per sé. […] Mi sembra infantile anche pregare perché un altro stia bene: per un altro si può solo pregare che riesca a sopportare le difficoltà della vita.

20 luglio 1942 – Senza pietà, senza pietà. Ma tanto più misericordiosi dobbiamo essere noi nel nostro cuore, la mia preghiera di stamattina presto non voleva dire nient’altro che questo:
Mio Dio, è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi. In qualche modo mi sento leggera, senz’alcuna amarezza e e con tanta forza e amore. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?
[…] E credo che quella preghiera mi abbia dato forza per tutto il giorno. […]
Sì, mio Dio, ti sono moto fedele, in ogni circostanza, non andrò a fondo e continuerò a credere nel senso profondo di questa vita […] trovo la vita così bella e mi sento così felice.

ALCUNI PENSIERI DALLE LETTERE

Westerbork, 8 giugno 1943 – …I vagoni merci erano completamente chiusi, ma qua e là mancavano delle assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga.
Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno lì così principeschi e così pacifici, su quella cassa si sono sedute a chiacchierare due vecchiette, il sole splende sulla mia faccia e sotto i nostri occhi accade una strage incomprensibile.

Westerbork, 10 luglio 1943 – […] La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare. […] Sapremo ben sopportare ciò che decine e decine di migliaia hanno sopportato prima di noi. Credo che per noi non si tratti più della vita, ma dell’atteggiamento da tenere nei confronti della nostra fine.

Westerbork, 24 agosto 1943 – […] Se penso alle facce della scorta armata in uniforme verde, mio Dio, quelle facce! Le ho osservate una per una, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata tanto come per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: “E Dio creò l’uomo a sua immagine”. Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile. […] Se dico che stanotte [nelle baracche, tra vecchi, malati, donne, bambini che si preparano alla deportazione del mattino seguente] sono stata all’inferno, che cosa ne potete capire voi?

Westerbork, 2 settembre 1943 – …siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità […]. E se solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani…

Queste parole si possono considerare come il testamento ultimo di E.H. Dopo di esse, c’è solo una cartolina buttata dal vagone merci in viaggio verso Auschwitz, pietosamente raccolta e spedita da mano ignota,  in cui Etty dice di aver aperto “a caso” la Bibbia e avervi trovato: “Il Signore è il mio alto ricetto”.

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