LA RIDUZIONE DELL’IRPEF DEVE RIGUARDARE ANCHE IL LAVORO AUTONOMO

NON AVREBBE SENSO CHE FOSSERO ESCLUSI DAL BENEFICIO COLLABORATORI CONTINUATIVI E “PARTITE IVA” – QUESTI SPESSO OPERANO IN POSIZIONE DI SOSTANZIALE DIPENDENZA E CON REDDITO INFERIORE RISPETTO AI LAVORATORI SUBORDINATI, A PARITÀ DI MANSIONI

Intervista a cura di Giuliano Balestreri per il sito Repubblica.it, 3 aprile 2014

Professor Ichino, la riforma cosi come è stata concepita esclude partite iva a autonomi. Il governo sostiene che sarebbe meglio intervenire sull’Irap. Ma per il momento resta un buco nero: è così?
Il decreto è ancora in gestazione. È vero che nell’annuncio iniziale dato dal Presidente del Consiglio il 14 marzo scorso lo sgravio Irpef era indicato come destinato ai soli lavoratori subordinati; ma è anche vero che non avrebbe alcun senso escludere dalla riduzione del prelievo Irpef i lavoratori autonomi della fascia bassa, i quali in molti casi guadagnano meno dei subordinati regolari.

Per esempio?
Pensi ai giornalisti: i subordinati guadagnano in media più di 40.000 euro l’anno; i cosiddetti free lance guadagnano in media meno di 10.000.

C’è margine per un intervento in questo senso oppure non ci sono le risorse?
Quali che siano le risorse, esse devono essere destinate prioritariamente a ridurre l’Irpef per tutti coloro che vivono del loro lavoro e hanno redditi di fascia bassa.

Tra finte partite IVA e vere partite IVA a pagare rischiano di essere sempre i piccoli imprenditori e soprattutto i giovani costretti ad accettare forme contrattuali di qualunque tipo pur di lavorare: le riforme del Jobs Act possono essere una risposta?Per ora c’è il decreto-legge n. 34. Che ha concentrato tutta la flessibilizzazione sui contratti a termine. Forse, in questa fase, per il Governo è stata una scelta politicamente obbligata; ma in Parlamento è probabilmente possibile correggerla e integrarla, introducendo nel decreto anche il contratto a tempo indeterminato a protezioni crescenti; e istituendo una indennità di cessazione del rapporto proporzionata all’anzianità di servizio, uguale per il contratto a tempo indeterminato e per il contratto a termine senza motivazione: l’ipotesi è una mensilità per ogni anno di durata effettiva del rapporto. In questo modo si aumenterebbe la quota di assunzioni a tempo indeterminato, altrimenti destinate a ridursi ulteriormente.

Alcuni degli economisti che hanno lavorato al Piano Renzi hanno collaborato anche al documento per il reddito d’inclusione attiva: può rientrare davvero nei piani del governo? Può essere una risposta ai problemi del lavoro?
L’Italia ha bisogno urgente deIl’istituzione del reddito minimo di inserimento, per allinearsi su questo terreno ai maggiori Paesi europei. Ma questa importantissima riforma è possibile soltanto se si realizzano due condizioni. La prima è che i nostri servizi per l’impiego acquisiscano il know-how necessario per rendere effettiva la condizionalità del sostegno del reddito alla persona disoccupata: “ti sostengo, ma a condizione che tu sia davvero disponibile per tutto quanto è ragionevolmente necessario per reinserirti nel tessuto produttivo”. In altre parole, occorre avviare subito la sperimentazione del metodo del “contratto di ricollocazione”. Altrimenti quel sostegno si traduce in un aumento del periodo di disoccupazione, o, peggio, in una sostanziale uscita dei beneficiari dal mercato del lavoro.

Qual è l’altra condizione?
L’altra condizione è che siamo capaci di destinare al finanziamento del reddito minimo di inserimento tutti i fiumi di denaro che fin qui abbiamo speso per fini sostanzialmente assistenziali, in varie forme, ma con effetti prevalentemente dannosi sul mercato del lavoro: Cassa integrazione in deroga, pensioni di invalidità fasulle, compensi per “lavori socialmente utili” che in realtà non sono tali, e così via.

 

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