PERCHÉ È GIUSTO RIDURRE LA PARTE NON GUADAGNATA DELLE VECCHIE PENSIONI PIÙ LAUTE

FIN QUI ABBIAMO CORRETTO GLI ECCESSI DI GENEROSITÀ DEL NOSTRO SISTEMA PENSIONISTICO VERSO I PENSIONATI FUTURI, MA È TEMPO DI CORREGGERE ANCHE GLI ECCESSI PIÙ GRAVI DEL PASSATO

Articolo pubblicato da Alessandro De Nicola su la Repubblica, 26 settembre 2014 – In argomento v. anche la mia Lettera sul Lavoro pubblicata dal Corriere della Sera del 13 agosto 2013, Le pensioni d’oro che vanno tosate (e come farlo).

Provate in un qualsiasi dibattito pubblico ad avanzare l’idea che, nonostante quanto fatto con la riforma Fornero, il sistema pensionistico italiano debba essere ulteriormente riformato in quanto troppo oneroso per le finanze pubbliche. Sarà un miracolo uscire illesi.

Naturalmente il provvedimento preso del governo Monti é macchiato dall’imperdonabile errore commesso con gli esodati, ma ciò nonostante é stato un passo necessario per evitare il tracollo delle finanze pubbliche italiane e la sostenibilità a medio- lungo termine del sistema stesso.

Eppure, non più tardi di qualche giorno fa, il Fondo Monetario Internazionale, nella sua nota di aggiornamento sull’Italia, ha ribadito che per liberare risorse indispensabili ad abbassare le aliquote fiscali marginali (argomento che il governo non sfiora mai) e rilanciare la crescita, si devono ridurre in particolare le attuali pensioni .

Il peso delle stesse sul PIL italiano, in effetti, non si è affatto ridotto. Il Documento di Economia e Finanza DEF) di aprile, preparato dal ministro Padoan, già prevedeva un lieve aumento rispetto al 2013 dal 16,3 al 16,4% del PIL. Peccato che la previsione fosse tarata su una crescita nominale dello stesso PIL per il 2014 dell’1,7%, mentre oggi -tra recessione in corso e deflazione- gli oltre 260 miliardi di  prestazioni previdenziali rappresentano il 16,6% della ricchezza prodotta. E, se nel 2015 si confermeranno le previsioni più recenti che parlano di un magro aumento della produzione nazionale, le pensioni saliranno all’equivalente del 16.7%. Insomma, la situazione peggiora anche rispetto alle già prudentissime stime del MEF che nondimeno ponevano il peso previdenziale sul PIL sopra il 16% almeno fino al 2018. La media UE é all’incirca il 12% e quella dei paesi OCSE il 9%. Facile intuire che, oltre noi, sopra la media europea svettano campioni dello sviluppo come la Grecia e la Francia. É vero che nel lunghissimo periodo, il 2060, (quando molti di noi saranno, ahimè, morti) la riforma Fornero dovrebbe portare l’impatto previdenziale appena sotto il 14%, ma è un numero comunque più elevato della futura media europea. Peraltro, lo studio del MEF che nel 2013 giunge a tali conclusioni si basa su una stima di crescita del PIL reale dell’1,5% l’anno che forse è un  po’ ottimistica. Se prendiamo il decennio 2012-2022, nei primi 3 anni avremo perso il 4,4% PIL e quindi nei successivi sette bisognerebbe crescer del 3% annuale per raggiungere l’1,5% di media. Nemmeno un Berlusconi smagliante e redivivo al governo oserebbe prometterlo.

Basta coi numeri, ma essi sono facilmente consultabili. Chi si oppone ad ogni revisione della spesa previdenziale cita in genere due fattori. Il primo é che già oggi l’assegno pensionistico è basso per la stragrande maggioranza dei percettori: il 75% é inferiore ai 2000 euro. Il secondo é che togliendo potere di acquisto ai pensionati si riducono i consumi e si aggrava la recessione.

Quest’ultimo ragionamento non ha molto fondamento. Se la minor spesa previdenziale si traduce in una riduzione delle tasse, sia sul lavoro che sull’impresa, non solo i soldi rimangono in circolazione ma anche stimolano gli investimenti. La seconda osservazione è più ragionevole. In parte la diminuzione delle imposte compenserebbe eventuali decurtazioni, in parte il risparmio dovrebbe ottenersi anche agendo sull’età pensionabile. I coefficienti per calcolarla, visto che la vita media si allunga, sono rivisti triennalmente fino al 2021 e poi biennalmente. Non c’è motivo di avere questi intervalli e si potrebbe subito introdurre un adeguamento annuale.

Inoltre, si potrebbero ricalcolate le pensioni più alte oggi erogate in modo da allinearle ai contributi effettivamente versati. É l’idea che aveva fatto balenare il ministro Poletti, poi sommersa di critiche ed accantonata. Tuttavia, per gli assegni sopra i 3000 euro mensili goduti non a fronte di pagamenti realmente effettuati nel corso della vita lavorativa, un ritocco non sarebbe un’aggressione a diritti acquisiti, ma un ammorbidimento di privilegi elargiti. Tutt’al più si potrebbe differenziare tra fasce di età e reddito, ed essere più puntuti con il 65enne che porta a casa 7000 € (ripetiamo, non frutto di contributi) che con l’80enne che ne riceve 3100.

In più, bisognerebbe liberalizzare completamente il cumulo tra pensioni e redditi di lavoro, oggi ancora limitato per alcune fasce di pensionati (se percepiscono salari devono rinunciare a parte dell’assegno previdenziale): l’Italia ha una bassissima percentuale di anziani che lavorano e col miglioramento di salute e aspettativa di vita bisognerebbe ricordarsi quel che diceva Voltaire: ” Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio ed il bisogno ” .

Si tratta di proposte che non ne escludono altre, ovviamente. Quel che è importante é cominciare a discutere senza tabù anche delle pensioni: il peso sulla nostra affaticata economia e il differenziale con le economie a noi simili e ancor più con quelle maggiormente dinamiche é troppo alto, non ce lo possiamo assolutamente permettere.

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