LA MIA REPLICA ALLA DISCUSSIONE GENERALE SUL JOBS ACT

NON C’È LEGGE, CONTRATTO COLLETTIVO, GIUDICE, ISPETTORE, AVVOCATO O SINDACALISTA CHE POSSA ASSICURARE DIGNITÀ E LIBERTÀ  A CHI LAVORA MEGLIO DELLA POSSIBILITÀ DI ANDARSENE DA UN POSTO DOVE SI È TRATTATI MALE PERCHÉ SI DISPONE DI UN POSTO DOVE SI È TRATTATI MEGLIO

Replica al termine della discussione generale sul disegno di legge-delega n. 1428-B/2014, nel corso della sessione antimeridiana del Senato del 3 dicembre 2014 – Segue la replica del ministro del Lavoro Giuliano PolettiÈ disponibile su questo sito anche la relazione introduttiva della discussione in Senato, svolta il giorno precedenteche

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PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.

Ha facoltà di parlare il relatore.

ICHINO, relatore. Signora Presidente, anche io ringrazio i colleghi che hanno partecipato a questo dibattito dando un contributo davvero rilevante di discussione e di approfondimento di ciascuno dei tanti aspetti di questo provvedimento così importante per il futuro prossimo del nostro Paese. Ringrazio anche gli Uffici che hanno assistito il nostro lavoro con grande attenzione ed efficienza, come sempre.

Presidenza del vice presidente GASPARRI

(ore 11,40)

(Segue ICHINO, relatore). Vorrei rapidamente rispondere alle obiezioni che sono state mosse al disegno di legge delega punto per punto, rinviando per prima cosa a quanto è stato detto in questa Aula ieri dal senatore Tonini riguardo alla critica di eccessiva genericità della delega e, quindi, alla prospettata censura di incostituzionalità per difetto di precisione dei principi della delega stessa.

La critica che viene da alcuni altri interventi, in particolare da quelli della senatrice D’Adda e del senatore De Cristofaro, riguarda il punto del cosiddetto “nuovo dualismo”: si dice che questa legge vuole superare un vecchio dualismo, ma ne crea uno nuovo. Non è così. Il vecchio dualismo, quello che abbiamo sotto gli occhi e che caratterizza il mercato del lavoro oggi, è il dualismo tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti. Ciò che si determinerà per effetto di questa riforma è, certo, una transitoria compresenza di due regimi di protezione: uno vecchio e uno nuovo, che riteniamo preferibile rispetto al vecchio, anche dal punto di vista della sicurezza economica e professionale del lavoratore. Il nuovo è preferibile non soltanto perché si supera un regime di protezione che per sua natura produce esclusione. Il vecchio regime infatti – lo si è constatato attraverso decenni di esperienza – non può essere esteso all’intera forza lavoro perché non è accidentalmente ma intrinsecamente produttivo di dualismo, cioè di esclusione di una parte della forza lavoro. Inoltre il vecchio sistema, basato sull’ingessatura del rapporto di lavoro, mette il lavoratore stesso che gode di questa protezione a grave rischio quando il gesso si scioglie perché arriva l’acquazzone.

Ne sanno qualcosa i lavoratori, pur protetti dall’articolo 18, ma non protetti nel mercato del lavoro, dopo la cessazione dell’attività, la chiusura del reparto dall’azienda, finito un periodo di ammortizzatori sociali senza speranza, perché non assistiti da servizi seri di assistenza intensiva nella ricerca del nuovo posto di lavoro, capaci di guidare il lavoratore, nel percorso di riqualificazione necessario per occupare i nuovi posti di lavoro, che pure esistono anche in questo periodo di gravissima crisi.

Non dimentichiamo che in Italia oggi si registra mezzo milione di posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera che abbia le qualifiche richieste. È questo uno degli aspetti di più grave inefficienza del vecchio regime di protezione, dove esso mostra maggiormente la sua inadeguatezza.

Come si è detto da parte di alcuni, il nuovo sistema di protezione non intende difendere il lavoratore dal mercato del lavoro, ma intende difenderlo proprio nel mercato del lavoro, dargli sicurezza nel passaggio dalla vecchia alla nuova occupazione: un passaggio che sarà sempre più frequente nella vita di lavoro delle prossime generazioni.

Presidenza del presidente GRASSO

(ore 11,45)

(Segue ICHINO, relatore). Quest’ultima costituisce la migliore risposta a chi, invece, ha sostenuto che in questa transizione dal vecchio al nuovo sistema sarebbe in gioco la dignità e la libertà dei lavoratori. Lo hanno detto la collega Ricchiuti e la collega Paglini, e una venatura di preoccupazione su questo punto l’ho sentita anche negli interventi delle colleghe Gatti e Guerra. Ma io chiedo loro, e lo ha chiesto qui anche la collega Pezzopane: tutti i giovani (spesso i migliori tra i nostri figli e nipoti) che cercano all’estero il lavoro che non trovano in Italia vanno forse all’estero per cercare l’articolo 18. Certamente no. Non è quello che cercano, anche perché sanno che non lo troverebbero da nessuna parte.

D’altra parte sostenere che senza l’articolo 18 non ci sono dignità e libertà del lavoratore significa sostenere che, non soltanto quattro milioni di lavoratori dipendenti italiani (tutti i dipendenti delle aziende con meno di 15 dipendenti, tutti i dirigenti, i dipendenti dei sindacati e dei partiti, i dipendenti dei nostri Gruppi parlamentari) sarebbero deprivati della loro dignità e libertà: affermazione che nessuno fa perché sarebbe evidente insensata; ma equivarrebbe a dire che senza dignità e libertà sono anche 200 milioni di lavoratori dipendenti in tutta Europa. La verità è che non c’è legge, contratto collettivo, giudice, ispettore, avvocato o sindacalista che possa assicurare dignità e libertà a chi vive del proprio lavoro meglio della possibilità di andarsene dal posto dove si è trattati male, perché si dispone di un posto dove si è trattati meglio.

La dignità e libertà del lavoratore non sono date dall’ingessatura del rapporto di lavoro, ma dalla sicurezza che il lavoratore deve avere, e che noi dobbiamo essere in grado di garantire, molto meglio di quanto non lo garantiamo oggi, anche a chi è protetto secondo il vecchio paradigma: la sicurezza che, se il posto di lavoro viene meno, questo non segnerà una catastrofe economica o professionale (o economica e professionale) per il lavoratore e per la sua famiglia. Questo è lo scopo fondamentale di questa riforma.

Con riferimento sempre agli interventi della senatrice Gatti e della senatrice Ricchiuti, si obietta, a questa prospettiva, che in Italia manca il lavoro. Non c’è dubbio che in Italia la domanda di lavoro sia troppo fiacca e che debba essere rinvigorita. Altrettanto indubbio, però, è che, nell’attuale congiuntura, l’unica leva di cui disponiamo per rinvigorire la domanda di lavoro è riaprire la porta agli investimenti esteri; porta che noi abbiamo chiuso, se è vero che da anni l’Italia si trova fortemente al di sotto della media europea per capacità di attrarre investimenti stranieri. Gli investimenti stranieri, certo, non sono ostacolati solo dalla peculiarità del nostro ordinamento di lavoro: pesa anche la pressione fiscale e l’inefficienza delle amministrazioni. Ma non c’è alcun dubbio che anche le peculiarità negative del nostro ordinamento del lavoro e delle disfunzioni del nostro mercato del lavoro pesino nell’ostacolare gli investimenti stranieri.

Dobbiamo renderci conto del fatto che anche in periodi di crisi grave come quello che stiamo attraversando, in Italia esistono rilevanti flussi di domanda e offerta di lavoro dai quali le nuove generazioni sono totalmente escluse per un difetto gravissimo dei servizi di orientamento scolastico e professionale: un difetto che costituisce la principale spiegazione della differenza tra il tasso di disoccupazione giovanile al 43 per cento e il tasso di disoccupazione generale al 13 per cento.

Oggi a questi flussi i disoccupati non accedono perché sono flussi accessibili solo sulla base di reti parentali, amicali e professionali. Chi non dispone di queste reti non accede a quegli 800.000 incontri fra domanda ed offerta di lavoro che avvengono ogni mese nel nostro Paese anche in questo periodo di crisi nera, secondo i dati delle Comunicazioni obbligatorie al Ministero del lavoro.

Quando sento la collega Paglini molto opportunamente richiamare il principio per cui tutti nascono liberi ed uguali, osservo che nel nostro mercato del lavoro queste libertà ed uguaglianza non ci sono: chi dispone delle reti parentali, amicali e professionali alimenta i flussi di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, chi non dispone di quelle reti non ha alcun aiuto dai centri per l’impiego, salvo casi particolari, rari ed isolati, di efficienza nel realizzare l’incontro fra domanda e offerta.

Alla senatrice Gatti non piace la pubblicità che si fa alle agenzie private. È una scelta, quella che stiamo compiendo, non certo di delegare al settore privato una funzione pubblica, ma di valorizzare in questa funzione le agenzie specializzate, le imprese che conoscono la domanda e sanno accompagnare il lavoratore là dove il lavoro c’è. Sono imprese che sanno svolgere il lavoro che oggi, come dobbiamo onestamente constatare, i centri per l’impiego perlopiù non sanno svolgere; anche perché in un mercato del lavoro moderno, fortemente segmentato e specializzato in ciascun settore, conoscere la domanda implica avere non solo delle competenze specifiche settore per settore, ma anche la capacità di adattare la griglia di lettura della domanda e dell’offerta di lavoro in modo continuo: ciò che le strutture pubbliche per loro natura non possono fare.

Puntiamo allora – e anche questa è una scelta che stiamo compiendo – sul ridare centralità al centro per l’impiego, affidando alla struttura pubblica il compito di mettere in comunicazione il lavoratore con i servizi di cui egli può disporre; e poi impegniamo chi vuole cooperare alla funzione pubblica a rispettarne i principi fondamentali e cioè trasparenza ed imparzialità. Quando la struttura privata specializzata faccia propri questi principi, accetti di operare entro questo quadro e sotto il controllo della struttura pubblica, non c’è alcuna ragione di diffidare di questa cooperazione.

Credo abbia ragione la senatrice Bencini, quando denuncia, parlando addirittura di “scandalo” a questo proposito, la grave inefficienza del nostro sistema di assistenza del lavoratore nel mercato del lavoro.

Con la disoccupazione generale al 13 per cento e quella giovanile al 43 per cento ci sono enormi giacimenti occupazionali che lasciamo inutilizzati, mentre ogni anno in Italia chiudono 20.000 imprese artigiane per limiti di età del titolare, senza che si possano trasferire alle nuove generazioni il know-how specifico e l’avviamento commerciale: questo è davvero uno scandalo. Dobbiamo in tutti i modi voltar pagina rispetto a questa situazione!

Chiunque abbia a cuore gli interessi in tutti i modi deve superare questa situazione. Dobbiamo in tutti i modi far sì che, da qui in avanti, non si sprechino più questi giacimenti occupazionali.

A questo proposito, la senatrice Munerato dice che occorre fissare degli standard ed esigerne il rispetto da parte delle strutture che svolgono la funzione di assistenza nel mercato. È esattamente la funzione che intendiamo affidare alla nuova Agenzia nazionale per i servizi per l’impiego, cioè quello di fissare il benchmark: fissare i requisiti di efficienza ed efficacia che dovranno essere rispettati da tutte le Regioni. È una cosa che finora non abbiamo fatto e che è alla base della gravissima inefficienza e non produttività dei servizi per l’impiego in troppe Regioni (non in tutte, per fortuna, ma certo in troppe Regioni italiane). Occorre poi controllarne il rispetto e, laddove la Regione non sia in grado di rispettare lo standard, surrogarsi ad essa per svolgere quella funzione.

Il senatore Gaetti teme che l’Agenzia determini un aumento di spese. L’obiettivo, certamente, è l’opposto: riqualificare la spesa pubblica in questo campo. Essa, oggi, è di per sé troppo bassa: dobbiamo adeguare la nostra spesa per le politiche attive del lavoro rispetto alla media europea. Ma la bassa nostra spesa su questo capitolo è di cattiva qualità. Dobbiamo urgentemente riqualificarla; questo è l’impegno che la nuova Agenzia assumerà fissando degli obiettivi misurabili di riqualificazione della spesa su questo terreno.

In qualche misura lo stesso discorso vale per la questione delle risorse per gli ammortizzatori sociali. Noi oggi spendiamo più di 20 miliardi in politiche passive del lavoro, cioè per il sostegno del reddito a chi perde il lavoro, senza alcun controllo sulla disponibilità del lavoratore e sul suo attivarsi nel mercato del lavoro, con il risultato di un dilatarsi assolutamente innaturale dei periodi di disoccupazione in corrispondenza con il periodo di durata del sostegno del reddito. Invece noi dobbiamo riqualificare questa spesa e riportare il sostegno del reddito a quella stretta coniugazione con le misure per il reinserimento del lavoratore nel tessuto produttivo che oggi manca. Con questo rispondo anche alla preoccupazione sacrosanta espressa dal senatore Fornaro.

Il discorso non dovrà limitarsi alla parte assicurativa del sostegno. Qui accolgo in pieno – del resto lo stesso disegno di legge lo fa – la sollecitazione della senatrice Guerra: occorre che coloro che entro il periodo assicurato non riescono a trovare il lavoro abbiano un sostegno di natura assistenziale moderno, collegato strettamente alle misure per il reinserimento nel tessuto produttivo. Tuttavia non riusciremo mai a istituire questo reddito minimo di inserimento se non sapremo fare il reinserimento, appunto. Oggi non lo sappiamo fare. Tutto quanto stiamo facendo per darci questa capacità, che gli altri Paesi del Centro e del Nord Europa hanno in misura molto superiore a noi, è una premessa anche per poter risolvere il problema e dare attuazione al capitolo del reddito minimo di inserimento.

Passo all’ultimo punto: gli interventi del senatore Malan e della senatrice Pelino esprimono la preoccupazione che la soppressione della figura contrattuale del collaboratore a progetto possa generare disoccupazione.

Qui bisogna essere molto chiari: non c’è alcun dubbio sul fatto che l’intendimento non è quello di irrigidire il mercato del lavoro producendo disoccupazione, ma semmai il contrario: vogliamo una maggior flessibilità del mercato del lavoro e delle strutture produttive, compensata da un forte sostegno ai lavoratori nel mercato. Tutto questo però non deve mai portare a disoccupazione.

Ora i casi sono due: o la protezione che noi istituiamo o che manteniamo nel nostro ordinamento del lavoro è capace di estendersi ed applicarsi realmente a tutti i lavoratori, di essere cioè universale, e allora è una protezione che può servire utilmente a correggere le distorsioni del mercato del lavoro ed è giusto che essa si applichi a tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza dal datore di lavoro. Oppure questa protezione genera disoccupazione, cioè è incompatibile con l’equilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, e allora è uno strumento al servizio degli insider contro l’interesse degli outsider, in questo caso quella protezione deve essere corretta. Perché l’ordinamento non può farla propria senza violare la Costituzione. Questo è il principio fondamentale a cui dovremo attenerci anche, ovviamente, nell’attuazione della delega, in sede di decreti delegati.

Spero di aver risposto a tutte le principali critiche e obiezioni che sono state sollevate e mi scuso con i colleghi che non ho potuto menzionare, ma ho cercato di raggruppare gli interventi per questi capitoli per articolare le mie risposte. Vi ringrazio dell’attenzione. (Applausi dai Gruppi PD e SCpI e del senatore Berger).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

POLETTI, ministro del lavoro e delle politiche sociali. Signor Presidente, ringrazio tutti i senatori che sono intervenuti nel dibattito e voglio ringraziare il Parlamento – Camera e Senato – per il lavoro che ha svolto, in quanto credo vada detto in maniera esplicita che il testo che arriva alla conclusione di questa discussione è un testo che è stato significativamente cambiato e significativamente migliorato.

Credo quindi che questo sia un dato che va assunto e riconosciuto, perché è il riconoscimento del lavoro che il Parlamento ha fatto e che il Governo accoglie positivamente.

Il Governo ha pensato e pensa che il tema del lavoro sia una delle questioni essenziali, se non la questione essenziale, sulla quale dobbiamo agire oggi per invertire una situazione di fatto che si è realizzata in questo lungo periodo di crisi che il nostro Paese sta attraversando.

Possiamo discutere sui numeri della disoccupazione, dell’occupazione, degli inoccupati o degli inattivi, possiamo riflettere su come vanno interpretati questi dati, ma oggi siamo di fronte ad un dato di fatto, che è quello di una pesantissima crisi, di una situazione di stallo del nostro Paese e di una caduta degli investimenti, dei consumi interni e dell’occupazione.

Questo è il risultato di moltissimi anni, e oggi giustamente ci interroghiamo tutti preoccupatissimi, a cominciare dal Governo, sullo stato delle cose, ma dobbiamo anche prendere atto che questa è la risultante di questa situazione e oggi bisogna agire perché questa situazione cambi, e cambi radicalmente.

La nostra scelta, allora, l’abbiamo fatta a cominciare dalla nostra posizione in Europa, perché abbiamo cominciato a lavorare pesantemente affinché l’Europa cambi il proprio atteggiamento. Oggi questo viene dato quasi per scontato, sembra un fatto assunto, ma non lo è. Fino a qualche mese fa, non sarebbe stato scontato parlare delle cose così come ne parliamo oggi, discutere del piano Juncker, discutere della legge di stabilità italiana, che è stata costruita a partire da un’idea diversa da quella che storicamente si era costruita, riflettendo cioè sulla possibilità di utilizzare pienamente i Trattati, e quindi non cambiarli ma usarli, perché le cose nel tempo cambiano e bisogna avere la capacità di usare le potenzialità che all’interno dei Trattati ci sono.

Non bisogna, quindi, presentarsi con il cappello in mano, ma con la responsabilità, l’impegno e la coerenza che un Paese grande ed importante come l’Italia ha all’interno della dinamica europea, con l’idea cioè che, se l’Europa non cambia le sue politiche, il problema non è e non sarà solo dell’Italia, ma dell’Europa, della prospettiva generale e del posizionamento dell’Europa dentro lo scenario globale.

Abbiamo fatto dunque questa scelta, collegando ad essa la legge di stabilità attualmente in discussione, che recupera risorse, taglia tasse, mette a disposizione una riduzione del cuneo fiscale, riduce il costo del lavoro per le imprese, consegnando loro una maggiore capacità di competere. Ricade poi naturalmente sulle imprese la responsabilità di investire, di stare sui mercati e di innovare i prodotti, ma questa è una condizione necessaria.

Credo che quella che abbiamo fatto sia comunque una scelta giusta ed importante, una scelta compiuta – e non voglio dilungarmi su questo – lavorando su un ventaglio molto largo di riforme, perché siamo profondamente convinti che l’uscita dalla situazione in cui si trova oggi il nostro Paese non sarà possibile se non realizzando complessivamente tutte le riforme che abbiamo posto all’ordine del giorno.

È chiaro che non saranno le norme a produrre i posti di lavoro: in tutta sincerità, mi pare una discussione piuttosto priva di fondamento. Le regole sono il quadro, il contesto e la condizione in cui i soggetti agiscono. Da questo punto di vista abbiamo un problema, che va detto in maniera molto chiara: sull’impresa poi possiamo discutere, perché non ho una visione romantica e non penso che l’impresa sia fatta di rose e fiori e di gente che si fa carezze. Dobbiamo però intenderci: nel nostro Paese l’impresa, che per il modo in cui funziona e per la sua tipicità deve assumersi dei rischi e fare valutazioni in un contesto di incertezza, deve tuttavia poter riferire il contesto di incertezza nel quale si muove alle proprie azioni tipiche, sapendo cioè che cosa accade sul mercato, che cosa fanno i propri concorrenti, che cosa accade sul costo delle materie prime. Questo è il punto di incertezza tipico dell’impresa.

Quando all’impresa vengono aggiunte, per così dire, delle quote di incertezza, che non sono tipiche della sua funzione, da un cattivo funzionamento del sistema giudiziario o da regole del mercato del lavoro poco definite ed incerte e delle quali non si conosce l’esito finale – solo per citare alcune criticità, ma potremmo citare la burocrazia, piuttosto che i tempi per il rilascio delle autorizzazioni – si produce a quel punto un dato di inibizione che, dobbiamo saperlo, si scaricherà poi sui lavoratori, perché non ci saranno opportunità di lavoro.

Questo Paese deve uscire da un binomio che oggi è chiaro. L’Italia per una certa fase ha in qualche modo accarezzato le rendite invece di scegliere con forza la politica dello stare al fianco e del premiare le opportunità, e farlo non è per nulla facile, perché le rendite sono tante, diverse, piccole e grandi e tendono a sostenersi l’una con l’altra. Intervenire per cambiare questa situazione, quindi, è e sarà uno sforzo assolutamente rilevante, ma bisogna farlo se vogliamo davvero far aumentare le opportunità, perché questo è quello che dobbiamo fare per i nostri giovani, per i disoccupati e per tutti coloro che hanno bisogno di provare a fare un passo avanti importante.

La nostra idea non è certamente quella per cui saranno le regole a cambiare e a produrre posti di lavoro; siamo però convinti che un buon contesto aumenti le opportunità e che quindi dentro a un contesto migliore vi sia la possibilità di promuovere una fase di crescita ulteriore.

Su questo versante credo che dovremmo anche farci una domanda. Storicamente l’Italia ha un tasso di occupazione più basso della media europea. Anche quando ha toccato le vette più alte di occupazione, l’Italia è rimasta sempre 5, 6 o 7 punti sotto il livello di occupazione di molti altri Paesi europei. Qui il tema riguarda il Nord e il Sud; riguarda gli impianti sociali; riguarda le politiche sociali, e questa è un’altra questione che il Paese ha di fronte.

Sono convinto e consapevole che c’è bisogno di cambiare anche su tale versante. Non abbiamo mai costruito nel nostro Paese una politica sociale a funzione generale, capace di fare i conti con questi bisogni. E quando parliamo dell’occupazione femminile, trenta secondi dopo dobbiamo parlare di servizi e via dicendo. È di questo che dobbiamo parlare, altrimenti il tasso di occupazione continuerà ad essere storicamente e sistematicamente più basso. Ma avere un tasso di occupazione stabilmente più basso vuol dire produrre meno ricchezza, avere meno opportunità, avere una minore propulsione per il futuro. Quindi, questo è il tema che abbiamo davanti.

Rispetto a questa questione, la riflessione che abbiamo avviato credo debba cercare di rispondere alle tematiche generali e di farlo per la parte che compete alla legge delega.

Non tornerò su tutti i temi del disegno di legge, essendo stati ampiamente e ripetutamente discussi. Voglio solo intervenire su alcuni argomenti, anche per cercare di chiarire il senso delle scelte compiute.

Non credo che questa legge delega sia troppo vaga o non si capisca che cosa si voglia fare. A volte credo di poter dire che si è fatta di essa una lettura troppo parziale, nel senso che ognuno ha preso il pezzettino che gli serviva per sostenere la propria tesi. Al contrario, dobbiamo leggere tutto ciò che è scritto in ogni sua parte, i punti di equilibrio, che rispondono anche a preoccupazioni che ho ascoltato evidenziare in questa sede e che sono anche le mie preoccupazioni. Noi non vogliamo distruggere chissà che cosa o ledere i diritti dei lavoratori: è fuori dal nostro modo di pensare ed affrontare le questioni. Ma se leggiamo completamente ciò che abbiamo scritto dentro il provvedimento, troveremo dei punti di equilibrio rispetto al bisogno di avere una dimensione dinamica dell’azione dell’impresa, ma anche la tutela dei diritti e delle condizioni di vita dei lavoratori.

Lo sforzo che si sostiene è il seguente: non si deve pensare che l’equilibrio si risolve tenendo le cose come sono. L’equilibrio si risolve costruendo qualcosa di nuovo equilibrato. Questo è il passaggio, lo sforzo che vogliamo fare, e su questo bisogna farsi qualche domanda e darci una qualche risposta.

Perché non abbiamo mai fatto interventi in materia di politiche attive e di ammortizzatori sociali? Oggi diciamo che siamo d’accordo, anch’io sono d’accordo, ma la mia domanda è: come siamo arrivati qui? Perché non abbiamo fatto la scelta di investire sui servizi per l’impiego? Perché abbiamo fondato una parte essenziale degli interventi fondamentalmente attraverso i trasferimenti monetari? Questo è il tema. Dall’altro lato, perché non siamo riusciti a costruire una strumentazione che, sul piano sociale, combattesse le iniquità? Infatti, dentro questa crisi si è prodotta anche la situazione che chi ha di più ha ancora di più e chi ha di meno ha ancora di meno. Noi abbiamo un problema di lotta alla povertà in questo Paese: abbiamo bisogno di costruire strumenti che agiscano anche su questo versante.

Dobbiamo sapere, quindi, che questo cambiamento mette in gioco una parte fondamentale delle logiche che abbiamo utilizzato. È chiaro infatti che, se valuteremo solo il fatto che l’ammortizzatore mi dà un euro in più o in meno, se dura un giorno in più o uno in meno, rimarremo sempre all’interno della vecchia logica. Se invece insieme a questo ci mettiamo anche che cosa accade il giorno in cui esco da una situazione in cui il mio lavoro non c’è più e fuori dalla porta trovo un sistema di servizi capace di prendersi in carico quella condizione e di aiutarmi ad occuparmi di cosa fare e di come farlo, allora probabilmente possiamo trovare un altro punto di equilibrio, che non è esattamente quello del passato, ma è quello che vogliamo fare.

Quindi, noi ragioniamo in termini di estensione delle coperture. Noi ragioniamo in termini di inclusione e non di esclusione. Noi ragioniamo in termini di responsabilità, perché vogliamo che ogni cittadino si senta e sia nelle condizioni di essere responsabile rispetto anche alla condizione temporanea di non avere un lavoro e, quindi, di essere messo nella condizione di fare questo passo.

Da questo punto di vista mi sento di dare una risposta: legittimamente si chiedono le risorse rispetto agli ammortizzatori sociali e alla loro estensione. Credo che le risorse appostate nella legge di stabilità siano fondamentalmente vicine all’esigenza di affrontare il tema che abbiamo di fronte.

Infatti, erano postati due miliardi di euro, che sono stati incrementati di 200 milioni per il 2015 e per il 2016, e abbiamo il Fondo per l’occupazione che vale un miliardo e 400 milioni, all’interno del quale sono postati 700 milioni per gli ammortizzatori sociali in deroga.

Tuttavia – dobbiamo dircelo – sugli ammortizzatori sociali in deroga abbiamo approvato un decreto-legge che ha stretto i termini di utilizzabilità di questo strumento. Gli ammortizzatori sociali in deroga, infatti, che sono stati una risposta al dramma sociale esploso con la crisi sei, sette, otto anni fa, nel tempo, essendo in deroga, e quindi con poche regole, hanno dato adito a comportamenti non sempre virtuosi e coerenti. E poiché sono finanziati con i soldi della comunità, con le tasse, credo sia giusto, necessario e doveroso andare a definirne puntualmente un buon uso. Peraltro, la norma prevede che gli ammortizzatori sociali in deroga mano a mano, con il passare del tempo, vadano ad esaurire la loro funzione.

Quindi, credo che sul piano delle risorse siamo vicini all’esigenza di coprire la necessità, dichiarata e che abbiamo intenzione di realizzare, di estendere gli stessi ammortizzatori sociali.

Una seconda questione che desidero trattare rapidamente riguarda il tema della precarietà, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e dei problemi relativi a tale contesto. Da questo punto di vista si deve partire da un dato di fatto, vale a dire la fotografia, oggi, della realtà del mercato del lavoro nel nostro Paese. Su 100 avviamenti al lavoro (parlo di avviamenti, non di posti di lavoro) oggi abbiamo 85 avviamenti con contratti a tempo determinato e di tutte le altre tipologie similari e 15 a tempo indeterminato.

Credo che l’affermazione contenuta nella delega, che vuole fare del contratto a tempo indeterminato il perno essenziale della nuova situazione, debba essere resa possibile, e per fare ciò abbiamo bisogno di una norma più flessibile, aperta e gestibile sul piano normativo e di un dato di convenienza sul piano economico. Altrimenti il dato di fatto non è quello che succederà, non è la paura di ciò che accadrà, perché noi dobbiamo chiederci cosa è accaduto già oggi. Oggi, la pluralità di queste tipologie contrattuali e il fatto che tra di loro siano economicamente disallineate ha provocato una cannibalizzazione, nel senso che molte imprese competono tra loro non nel miglioramento della qualità del prodotto, dell’efficienza, dell’efficacia e così via, ma in una rincorsa finalizzata a catturare la tipologia contrattuale più economica. Ma se lasciamo che le cose stiano così, il sistema imprenditoriale del nostro Paese non migliorerà nella sua capacità competitiva globale, avrà sempre più problemi.

Pertanto, anche qui abbiamo bisogno di dare una sistemata ad un terreno di confronto e competizione tra le imprese che avvenga sul piano vero della competizione e non sulla rincorsa al ribasso delle tipologie contrattuali «più competitive» in termini di flessibilità e costo, che è quanto è accaduto effettivamente in questi anni.

Quindi, questa è la situazione da cambiare. Questa è la scelta che abbiamo fatto e vogliamo fare e che viene confermata da due elementi inconfutabili. Abbiamo deciso di destinare nella legge di stabilità 1,9 miliardi di euro per la decontribuzione, per i primi tre anni, dei contratti a tempo indeterminato e abbiamo deciso di ridurre la base imponibile IRAP del costo del lavoro dei contratti a tempo indeterminato. A me pare che se occorreva un segno chiaro della volontà di questo Governo di andare nella direzione del contratto a tempo indeterminato, questi due segni siano assolutamente inequivocabili. Credo che questo sia un terreno che dice in termini molto chiari quali siano le nostre volontà e i nostri impegni.

Su questo versante, come in generale sul tema da cui sono partito, abbiamo ascoltato posizioni diverse sul piano sociale. Le organizzazioni sindacali e le organizzazioni di rappresentanza imprenditoriale hanno espresso le loro valutazioni e le loro opinioni, ed è previsto uno sciopero generale. Credo che da questo punto di vista quello che dobbiamo dire è che siamo rispettosi della responsabilità che ogni soggetto assume nello svolgere il proprio ruolo. È importante che si ascolti, si rifletta, si tenga in considerazione la posizione di un’associazione di rappresentanza o di un sindacato. Detto ciò, credo che dall’altro lato il Governo e il Parlamento abbiano il dovere di assumere le proprie decisioni, di compiere responsabilmente le scelte che sono demandate loro e di essere in grado di portare a compimento le scelte fatte, perché queste sono le cose che servono al nostro Paese.

Non ho molte altre osservazioni da farvi, se non ribadire un dato: il Governo italiano assegna all’approvazione del disegno di legge delega in materia di lavoro un’importanza essenziale. Sono partito da questo punto e concludo il mio intervento su tale versante. Siamo convinti e consapevoli che su questo terreno si misura l’effettiva possibilità del Governo e della maggioranza di produrre un cambiamento necessario al nostro Paese. Si tratta di un passaggio difficile, pieno di tensioni e di difficoltà; lo sappiamo, lo comprendiamo, ma sappiamo anche che su molti contenuti di questo disegno di legge c’è consenso e condivisione: parlo dell’estensione degli ammortizzatori sociali e della loro riforma, delle politiche attive per il lavoro e l’occupabilità, della revisione e della semplificazione delle norme, della revisione delle tipologie contrattuali, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, della tutela della genitorialità e delle politiche per l’occupazione femminile, del coordinamento delle attività ispettive dell’Agenzia unica.

Il Governo, nella stesura dei decreti, saprà tenere nella giusta considerazione il lavoro che è stato fatto in Parlamento e le posizioni che sono state espresse. Nel lavoro, veramente gigantesco, di cambiamento del nostro Paese c’è un impegno e una responsabilità per tutti. Credo che ognuno possa e debba fare la propria parte, e non penso che ci sia qualcuno che possa onestamente sostenere di essere a posto e di avere già fatto tutto ciò che doveva.

Ho aperto il mio intervento a partire dalla drammatica consapevolezza della gravità e centralità nel nostro Paese del lavoro per i nostri giovani, per noi tutti e, in primo luogo, per il Governo. Cambiare questa situazione è l’obiettivo che ci siamo dati e lavoriamo fortemente in questa direzione.

Pertanto, a nome del Governo, con l’autorizzazione del Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia sull’approvazione dell’articolo unico del disegno di legge n. 1428-B, nel testo già approvato dal Senato e modificato dalla Camera dei deputati. (Applausi dal Gruppo PD. Commenti e applausi ironici dai Gruppi M5S, Misto-SEL e Misto-MovX).

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