AL VIA IL DECRETO SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI

MA È ANCORA FORTE, E SI MANIFESTA DI CONTINUO, LA RESISTENZA DI UNA PARTE DELLE STRUTTURE MINISTERIALI CONTRO IL NUOVO SISTEMA DEI SERVIZI PER L’IMPIEGO DELINEATO NELLA LEGGE-DELEGA, IN PARTICOLARE CONTRO IL NUOVO STRUMENTO COSTITUITO DAL CONTRATTO DI RICOLLOCAZIONE

Intervista a cura di Attilio Barbieri, pubblicata da Libero il  16 gennaio 2015.

I primi due decreti delegati del Jobs act sono finalmente arrivati in Parlamento. Da quando le imprese potranno assumere con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti?
Se le Commissioni Lavoro di Camera e Senato saranno entrambe sensibili alle attese che si sono create nel nostro mercato del lavoro, i pareri potrebbero essere espressi già entro la settimana prossima e i decreti potrebbero entrare in vigore già all’inizio di febbraio. In Senato mi sembra che ci sia una volontà convergente di tutte le forze di maggioranza nel senso di assicurare la massima rapidità.

E a Montecitorio?
Il Presidente della Commissione Lavoro della Camera ha detto che “non c’è fretta”. Spero invece che prevalga anche lì il senso di responsabilità rispetto a un mercato del lavoro che è in apnea ormai da settimane, in attesa del decreto con il nuovo contratto.

L’annuncio della Fiat che a Melfi assume mille operai con il nuovo contratto è il segnale che le cose cambieranno veramente?
Sì: è apparso proprio come uno squillo di tromba lanciato per dare la carica all’economia italiana. E – come Sergio Marchionne ha esplicitato – la concomitanza della decisione con questa riforma non è affatto casuale.

Marchionne ha detto che con il Jobs act l’Italia è meno diversa dagli altri Paesi. Conferma?
Sì. Dopo le riforme a Cuba eravamo rimasti l’unico Paese al mondo con un regime di job property. Ora ci allineiamo ai migliori standard dell’occidente industrializzato, sia per il drastico abbassamento del costo di separazione tra impresa e lavoratore, sia per l’aumento dell’entità, della durata e del campo di applicazione del trattamento di disoccupazione.

A quanto ammonterà il severance cost, il costo che le imprese dovranno sostenere per licenziare un dipendente?
L’indennizzo giudiziale sarà pari a due mensilità di retribuzione per ciascun anno di servizio, con un massimo di 24 mensilità. Ma di fatto il costo per l’impresa sarà la metà o poco più: perché in quasi tutti i casi la persona interessata opterà per la conciliazione standard, pari a una mensilità per anno di servizio, con un massimo di 18.

Perché il lavoratore dovrebbe optare per una transazione che gli darà meno rispetto all’indennizzo giudiziale?
Innanzitutto perché l’esito del giudizio non è mai scontato: il giudice potrebbe riconoscere la giustificatezza del licenziamento. Inoltre perché il ricorso giudiziale ha dei costi, non solo in denaro, ma anche in tempo e fatica, limitando la possibilità per la persona interessata di dedicarsi alla nuova occupazione. In terzo luogo perché l’indennizzo oggetto della conciliazione-standard è esente da imposizione fiscale: il che avvicina notevolmente il suo importo all’importo netto ottenibile in caso di esito positivo del giudizio.

In quali casi si applicherà la nuova disciplina dei licenziamenti che ha superato l’articolo 18?
Si applicherà a tutti i nuovi contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Inoltre in tutti i casi in cui un valido contratto a termine verrà convertito in contratto a tempo indeterminato.

E in quali casi, invece, è ancora previsto il reintegro?
La vecchia disciplina dei licenziamenti continuerà ad applicarsi a tutti i rapporti a tempo indeterminato stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto. Ma continuerà ad applicarsi anche ai rapporti nuovi la disciplina della reintegrazione nel caso di licenziamento discriminatorio, cioè dettato dall’intendimento di espellere dall’azienda un lavoratore per ragione della sua razza, nazionalità, genere, orientamento sessuale, opinione politica, credo religioso, o disabilità.

Come funzionerà il nuovo sussidio di disoccupazione?
Potranno goderne le persone che abbiano perso involontariamente il lavoro, o si siano dimesse per giusta causa, e che possano far valere almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni e 30 giornate di lavoro effettivo nell’ultimo anno. Il trattamento è pari al 75 per cento dell’ultima retribuzione, con un massimo di 1.300 euro mensili, e a partire dal quarto mese di fruizione si riduce del tre per cento ogni mese. Il trattamento – secondo il principio delle “tutele crescenti” – avrà durata pari alla metà delle settimane di contribuzione che la persona interessata può far valere nell’ultimo quadriennio: ne risulta una durata massima di 24 mesi.

Applicabile anche ai collaboratori continuativi autonomi?
Per i collaboratori autonomi, iscritti alla Gestione Speciale dell’Inps, viene istituito a titolo sperimentale per il 2015 un trattamento di disoccupazione regolato secondo gli stessi principi generali della NASpI, chiamato Dis-Coll. Ma è probabile che, nel quadro del Codice semplificato del lavoro – che sarà oggetto di un ulteriore decreto – si andrà verso un assorbimento della Dis-Coll nella NASpI per tutti i collaboratori in posizione di sostanziale dipendenza.

La riforma parte senza il contratti di ricollocazione. Come mai?
No, la disposizione sul contratto di ricollocazione è stata solo spostata, per motivo di materia, dal decreto sul contratto a tutele crescenti a quello sul trattamento di disoccupazione: articolo 17. Qui si è verificato, però, un piccolo colpo di mano.

A che cosa si riferisce?
Il testo della norma approvato dal Governo il 24 dicembre estendeva il diritto al contratto di ricollocazione a tutti coloro che avessero subito un licenziamento illegittimo, o un licenziamento per motivo oggettivo. Nello spostamento dal primo al secondo decreto la norma è stata manipolata, con la soppressione di quella “o”, oltre che della virgola che la precede. Se la disposizione rimanesse così, l’effetto sarebbe che avrebbe diritto al contratto di ricollocazione soltanto chi abbia subito un licenziamento per motivo oggettivo e soltanto quando questo licenziamento sia stato qualificato da un giudice come illegittimo: una platea ristrettissima, dunque, che potrebbe avvalersi del contratto di ricollocazione non subito, ma solo all’esito del passaggio in giudicato della sentenza. Il contrario di quello che ci proponiamo: cioè di una attivazione immediata del lavoratore che perde il posto.

Come è potuto accadere che venisse introdotta questa restrizione?
Certamente non corrisponde alla volontà politica del Governo, né delle forze politiche della maggioranza. Questa vicenda dimostra quanto il controllo sui testi legislativi possa facilmente sfuggire di mano al legislatore. Questa modifica, inserita in modo tecnicamente sapiente da qualche dirigente ministeriale, si pone in linea con l’ostruzionismo che una parte delle strutture ministeriali ha condotto per tutto lo scorso anno contro il decollo della sperimentazione del contratto di ricollocazione.

Perché questa resistenza?
Perché una parte rilevante della dirigenza pubblica non apprezza affatto la scelta, compiuta con la legge-delega n. 183/2014, di puntare sulla cooperazione e integrazione fra strutture pubbliche e agenzie specializzate per la ricollocazione dei disoccupati: avrebbero preferito che si scegliesse di investire tutte le risorse sulle strutture pubbliche. Questa opposizione dall’interno delle strutture pubbliche, poi, si salda con quella della sinistra sindacale, che vede il contratto di ricollocazione come il fumo negli occhi.

Che cosa temono?
Questi sindacalisti preferirebbero che le crisi occupazionali aziendali continuassero a essere affrontate mettendo i lavoratori in freezer per anni e anni, con la Cassa integrazione “a perdere”. Il contratto di ricollocazione obbliga, invece la persona interessata ad attivarsi subito per la rioccupazione, sostenendola in questo passaggio, ma rendendo effettiva la condizionalità del trattamento di disoccupazione.

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