CRISI ALITALIA, SPECCHIO DELLA CRISI DI UN INTERO SISTEMA

I NODI AL PETTINE DI UN DIRITTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI GRAVEMENTE DIFETTOSO

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 21 settembre 2008

        L’applauso dei piloti e degli assistenti di volo, a Fiumicino, alla notizia della rottura della trattativa con la nuova compagnia Cai, col conseguente probabile fallimento di Alitalia, non è un “episodio paradossale”, come qualcuno ha detto: in realtà lo si può spiegare facilmente. Quelli che hanno applaudito fanno conto sull’intervento di una Cassa integrazione guadagni o su di un trattamento di disoccupazione speciale erogato proprio per consentire loro di attendere con calma il nuovo lavoro. Qualcuno dovrà pure, prima o poi, far volare gli aerei sulle nostre rotte al posto di Alitalia; e piloti e personale di volo non si sostituiscono così facilmente.
        Logico? No, per nulla. Perché in nessun Paese serio si erogano trattamenti di disoccupazione o integrazione salariale, neppure per pochi mesi, a chi rifiuta l’offerta di un rapporto di lavoro regolare, confacente alla sua professionalità, come certamente era l’offerta di Cai. Se anche in Italia sapessimo gestire in modo serio questi “ammortizzatori sociali”, a Fiumicino giovedì scorso non ci sarebbe stato alcun applauso; e probabilmente la trattativa non sarebbe stata rotta, perché il rifiuto dell’offerta Cai avrebbe precluso il godimento delle misure di sostegno. Chiediamoci: quanto ci costa e ci è costata, anche in passato, questa incapacità di gestione appropriata del sostegno del reddito dei disoccupati?

Questo è solo uno dei nodi cruciali del funzionamento del nostro ordinamento del lavoro e del nostro sistema di relazioni industriali che la crisi Alitalia ha fatto venire al pettine, addirittura portandolo sul teleschermo in prima serata. E fornendoci così un’occasione unica di riflessione pubblica di massa su questi temi.

Nei giorni precedenti, si era vista la Cgil subordinare la propria firma dell’accordo alla firma dei sindacati autonomi. Se non sono d’accordo tutti e nove i sindacati operanti in azienda, non se ne fa nulla. È il principio non scritto che regola le relazioni industriali nella maggior parte dei settori dei nostri servizi pubblici, dove anche il sindacato più piccolo può esercitare un diritto di veto, proclamando uno sciopero ben congegnato, capace di bloccare l’intera azienda e talvolta intere parti del Paese. L’applicazione di fatto di questo principio, nei decenni passati, ha svenato le confederazioni maggiori nel settore dei servizi pubblici, consentendo ai sindacati autonomi di ridicolizzare, paralizzandoli, gli accordi più importanti e impegnativi che esse avevano stipulato per ridare efficienza ed economicità alle aziende. Occorrono invece regole chiare sulla misurazione della rappresentanza nei luoghi di lavoro, che favoriscano il pluralismo sindacale, cioè il confronto aperto fra visioni diverse, ma non la frammentazione. E che, come in quasi tutti i maggiori Paesi europei, consentano ai lavoratori di scegliere a maggioranza la coalizione sindacale legittimata a proclamare uno sciopero e quella legittimata a negoziare con efficacia estesa a tutti i dipendenti dell’azienda. Che fine ha fatto questo tema della riforma della rappresentanza nella grande trattativa in corso tra Confindustria e sindacati?

Un altro nodo che è venuto al pettine nella crisi Alitalia è l’incapacità totale del sindacato di operare come intelligenza collettiva che consente ai lavoratori di valutare i piani industriali disponibili, l’affidabilità di chi li propone, e scegliere il migliore tra quelli realisticamente praticabili. Questa incapacità ha portato la Cisl, nel marzo scorso, a guidare il fronte del “no” pregiudiziale alla proposta Air France-KLM (“no” cui si è improvvidamente associato Berlusconi), salvo poi passare a guidare il fronte del “sì” alla proposta di una compagnia incomparabilmente più debole sotto tutti i punti di vista, e che offre condizioni di lavoro per diversi aspetti meno vantaggiose. Il collettivo dei lavoratori Alitalia avrebbe dovuto porsi in grado di scegliere il meglio dell’imprenditoria mondiale in questo settore; ma questo non è possibile quando il leader sindacale che guida le danze, Raffaele Bonanni, dichiara come criterio di preferenza decisivo che dall’altra parte del tavolo ci siano imprenditori “che parlano italiano”!

Lo stesso può dirsi dell’altro leader sindacale maggiore quando egli chiede a gran voce una “trattativa vera”, chiarendo che tale non può considerarsi una trattativa che dura soltanto quattro giorni o una settimana. “Trattativa vera”, dunque, sono soltanto i vetusti riti nostrani delle defatiganti negoziazioni notturne che durano mesi? Epifani dovrebbe sapere, ormai, che quei riti nulla hanno a che vedere con i tempi dell’economia attuale, con i modi nei quali comunemente si tratta e si decide un investimento nella grande platea globale.

Finché questa sarà la nostra cultura sindacale dominante, sarà molto difficile per l’Italia proporsi di guadagnare posizioni nella graduatoria dei Paesi d’Europa più capaci di intercettare investimenti nel mercato planetario dei capitali: una graduatoria che la vede oggi fanalino di coda.

 

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