COME SI PUÒ E SI DEVE MIGLIORARE IL DECRETO SUI SERVIZI PER L’IMPIEGO

BUONO IL GIUDIZIO SUL DECRETO GIÀ IN VIGORE IN MATERIA DI “RIORDINO DEI CONTRATTI” E SULLO SCHEMA DI DECRETO IN MATERIA DI CIG – DIVERSI DIFETTI ANCHE RILEVANTI, INVECE, NELLO SCHEMA RELATIVO AI SERVIZI PER L’IMPIEGO

Intervista a cura di Attilio Barbieri, pubblicato su Libero il 10 luglio 2015.

Professor Icino, come giudica gli ultimi decreti del Jobs Act? Sul suo blog non ha lesinato critiche…
Nel complesso, sono soddisfatto di quello sul “riordino dei contratti” che è entrato in vigore due settimane fa come decreto n. 81. Contiene alcune novità davvero molto positive, sia in materia di collaborazioni continuative autonome, si in materia di mutamento di mansioni, di lavoro a tempo parziale, di staff leasing – cioè somministrazione a tempo indeterminato – e di apprendistato.

E dei quattro nuovi schemi di decreti attuativi ora all’esame del Parlamento che valutazione dà?
Qui il discorso è più articolato. Do un giudizio molto positivo sul decreto in materia di Cassa integrazione, sul quale sono relatore in Senato: necessita di alcune messe a punto e integrazioni, ma complessivamente è un intervento di riordino notevole, in linea con l’obiettivo fissato dalla legge-delega. Si volta davvero pagina rispetto all’abuso della Cig per mascherare situazioni di effettiva disoccupazione.

Servizi per l’impiego: ha senso costruire un sistema di politiche attive che si basi in via esclusiva sui centri pubblici per l’impiego?
Lo schema di decreto, che pure ha diversi difetti, non mira a questo: il coinvolgimento delle agenzie private specializzate, secondo quanto previsto nella legge-delega, c’è in pieno. Ed è una svolta positiva di grande importanza. C’è anche, esplicitamente, il principio della remunerazione dei loro servizi prevalentemente a risultato, che costituisce il presupposto per una forte riqualificazione della spesa pubblica in questo settore.

Cosa pensa dell’Agenzia nazionale?
Può essere lo strumento giusto per far funzionare meglio la macchina dei servizi per l’impiego, a condizione che nel decreto venga sfrondata la parte di definizione rigida dell’organigramma e vengano chiarite meglio le sue funzioni, in rapporto a quelle delle Regioni.

Cioè?
All’Agenzia deve essere assegnato innanzitutto il compito di stabilire i livelli essenziali della prestazioni e obiettivi minimi specifici, misurabili e oggettivamente verificabili, che i servizi regionali devono raggiungere. Inoltre il compito di controllare il rispetto dei livelli essenziali e il conseguimento degli obiettivi minimi. Infine il compito di surrogarsi nello svolgimento della funzione alle Regioni inadempienti.

Visto com’è stata disegnata può funzionare?
Funzionare, alla bene meglio, forse sì. Ma perché produca i risultati che dobbiamo attenderci occorre un testo in cui pesi molto meno la vecchia impostazione burocratica e assuma peso predominante una parte che ora non c’è: quella relativa alla responsabilità per il conseguimento dei risultati. Occorre inoltre molta maggiore chiarezza circa il rapporto tra l’Agenzia e le Regioni e circa i compiti di queste ultime. Le quali si sono già viste assegnare, con il decreto-legge sugli enti locali n. 75/2015, la titolarità dei Centri per l’Impiego, ma senza il corrispondente trasferimento delle risorse necessarie per il loro funzionamento.

Come hanno reagito le Regioni a questa novità?
Il Lombardo-Veneto è sul piede di guerra. Le altre Regioni, per la maggior parte, hanno manifestato la disponibilità a cooperare con lo Stato secondo lo schema di cui abbiamo parlato prima, ristrutturando e cercando di far funzionare i Centri per l’Impiego come cerniera tra utenti e servizi di assistenza effettiva, a patto che lo Stato contribuisca in modo congruo al relativo finanziamento.

Parliamo del contratto di ricollocazione. Com’è che nello schema di decreto non se ne parla?
All’articolo 23 viene disciplinato l’“assegno di ricollocazione”. Il cambio di nome del nuovo istituto non è privo di significato: il contratto di ricollocazione ha molti nemici. E non è soltanto una questione nominalistica. Il termine “contratto” o “accordo”, che compare nella legge-delega, corrisponde a un elemento essenziale dell’esperienza olandese a cui il legislatore italiano si è ispirato: la negoziazione tra la persona interessata e l’operatore specializzato circa il contenuto concreto degli impegni reciproci. In particolare circa l’estensione dell’impegno del disoccupato ad attivarsi nella ricerca della nuova occupazione e l’ampiezza dell’area geografica e professionale entro la quale gli è chiesta la disponibilità ad accettare una nuova occupazione.

Perché, secondo lei, questa negoziazione è vista con diffidenza dalla struttura ministeriale?
Perché esce completamente dagli schemi di un servizio svolto in modo burocratico. Ma la diffidenza si manifesta soprattutto da parte di alcuni ambienti sindacali: perché questa negoziazione è funzionale a una nuova “condizionalità” del sostegno del reddito al disoccupato: una condizionalità effettiva e non solo teorica.

Spieghi meglio.
L’idea è che l’agenzia, se è troppo indulgente nell’esigere dal disoccupato la disponibilità necessaria, rischia di non riuscire a ricollocarlo, perdendo così il compenso. Se invece è troppo esigente e severa, non viene scelta dagli interessati. In questo modo si mira a realizzare una determinazione automatica di un contenuto concreto della condizionalità, congruo rispetto alle condizioni del mercato del lavoro nella zona, quindi equo. È il contrario esatto del modo burocratico di svolgere questa funzione delicata e difficile di assistenza intensiva nel mercato del lavoro.

C’è un altro aspetto critico nello schema di decreto, su questo punto: che senso ha fermare per sei mesi i disoccupati prima che possa scattare l’assegno di ricollocazione?
Qui vedo non uno, ma due errori, entrambi gravi. Il primo è quello che lei indica: non si deve attendere che l’interessato diventi un disoccupato “di lunga durata” prima di attivare l’assistenza intensiva necessaria per la rioccupazione. Occorre intervenire molto prima. In Germania, dove stanno sperimentando il metodo olandese, è previsto che il voucher per la ricollocazione venga erogato a chi non è riuscito a rioccuparsi entro tre mesi dal licenziamento. In Olanda sono più flessibili: è il job advisor a decidere quando è opportuno invitare l’interessato a rivolgersi a un’agenzia tra quelle accreditate, valutate tutte le circostanze.

E il secondo errore?
È di estendere la platea degli aventi diritto al voucher a tutto lo stock dei disoccupati attuali con più di sei mesi di “anzianità”. Il risultato di questa scelta è quasi certamente quello di soffocare nella culla il neonato, cioè il contratto di ricollocazione: né la rete dei Centri per l’Impiego né le agenzie private sono in grado oggi di soddisfare subito la richiesta di tutti questi soggetti, attivando centinaia di migliaia di contratti di ricollocazione dall’oggi al domani. Si tratta di un meccanismo sofisticato, che deve essere messo a punto attraverso un primo periodo di sperimentazione su numeri piccoli, per poi allargarlo gradualmente.

Quale sarebbe invece la scelta giusta?
Riservarne il diritto soltanto agli ex-titolari di contratto a tutele crescente, a seguito del licenziamento: si partirebbe così con numeri piccoli, destinati a crescere gradualmente. Libere, ovviamente, le Regioni, in questa fase iniziale, di ampliare la sperimentazione in modo mirato, sulla base delle risorse disponibili.

Non sarebbe una discriminazione contro i vecchi disoccupati?
Qualsiasi riforma seria richiede una fase di sperimentazione, necessariamente limitata, nella quale l’obiettivo prioritario deve essere quello di acquisire e affinare il più rapidamente possibile il know-how necessario. La parità di trattamento degli interessati si può avere solo quando la riforma è a regime.

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