APPUNTI IRRIVERENTI SUI NUOVI DECRETI ATTUATIVI DELLA RIFORMA DEL LAVORO

IN QUESTA SECONDA FASE DELL’ATTUAZIONE DELLA DELEGA, INSIEME A DIVERSE COSE MOLTO POSITIVE, SI OSSERVANO ALCUNE CURIOSE SCELTE UN PO’ RÉTRO E UNA PERDITA DI VISTA DELL’OBIETTIVO DELLA SEMPLIFICAZIONE – MA LA PARTITA È ANCORA APERTA: NEI PROSSIMI MESI ANCHE QUESTI DIFETTI POSSONO ESSERE CORRETTI

Testo integrale dell’articolo pubblicato, con alcuni tagli per ragioni di spazio, sulla rivista Bancaria, organo dell’Associazione Bancaria Italiana, luglio 2015.

Sommario – 1. Le misure tendenti al riassorbimento del precariato: si torna alla definizione più antica del lavoro dipendente. – 2. Un altro ritorno alle origini: torna la distinzione tra operai e impiegati. – 3. Part-time: tornano praticabili le clausole elastiche (ma resta anche il lavoro intermittente) – 4. Non abolito, ma solo privato della sua disciplina esplicita il lavoro ripartito, o job sharing – 5. Servizi per l’impiego: quel che manca e quel che è di troppo. – 6. I passi avanti (ancora insufficienti) verso il Codice semplificato – 7. La partita è ancora aperta.

Del significato e della portata generale del complesso dei nuovi decreti e progetti di decreti varati dal Governo tra il 20 febbraio e il 12 giugno, e del giudizio complessivamente molto positivo che, a mio modo di vedere, se ne deve dare, ho detto più volte in altra sede: la svolta compiuta nel segno della flexsecurity con la riforma dei licenziamenti e del trattamento di disoccupazione contenuta nei primi due decreti attuativi della riforma, nn. 22 e 23/2015, costituisce un evento positivo la cui importanza è destinata a manifestarsi progressivamente negli anni prossimi. In questo articolo, nell’impossibilità di descrivere compiutamente le novità normative contenute nei decreti successivi, che sono da poco entrate o entreranno tra poco in vigore, mi limito a proporre alcune note curiose e per certi aspetti sorprendenti sul contenuto di questi testi ulteriori approvati dal Governo. E mi spingo anche a fare una cosa inconsueta: pur appoggiando convintamente questa riforma nella sua ispirazione di fondo, ne metto in evidenza anche alcuni aspetti che mi appaiono come veri e propri difetti. Siamo ancora in tempo per correggerli.

1. Le misure tendenti al riassorbimento del precariato: si torna alla definizione più antica del lavoro dipendente – Sono convinto che la drastica riduzione del numero assoluto delle collaborazioni continuative e coordinate (c.d. co.co.co.) e della relativa percentuale sul totale degli occupati, registratasi lungo tutto l’arco dell’ultimo decennio, sia dovuta al requisito del “progetto” imposto dalla legge Biagi del 2003 e poi alle restrizioni ulteriori poste dalla legge Fornero nel 2012 (piaccia o non piaccia a coloro che hanno sparato a zero contro queste due leggi). Curiosamente il legislatore delegato, con il decreto n. 81/2015 attuativo della legge-delega 10 dicembre 2014 n. 183, pur con l’intendimento di contrastare il lavoro precario, abroga sia le restrizioni poste in materia di collaborazioni autonome continuative con la legge Biagi, sia quelle poste con la legge Fornero.

Vero è che con l’articolo 2 dello stesso decreto n. 81/2015 viene allargato il campo di applicazione della protezione piena, propria del lavoro subordinato, a tutti i casi in cui la collaborazione personale continuativa è “organizzata” dal creditore, e in particolare è soggetta al coordinamento spazio-temporale nel suo interesse: ciò farà sì che non si potrà più assumere come collaboratore autonomo il magazziniere o la segretaria d’ufficio; neanche inventandosi un “progetto”. E questo è certamente un apprezzabile fattore di chiarezza. Ma è anche vero che con la soppressione delle disposizioni restrittive su questa materia delle leggi Biagi e Fornero, viene meno – appunto – il requisito del “progetto” e, torna possibile per le imprese private l’ingaggio di collaboratori continuativi, a tempo indeterminato o a termine, purché non soggetti a vincolo di orario, o comunque liberi di svolgere la prestazione nel luogo che preferiscono.

Il risultato della nuova norma è dunque quello di porre un confine meglio definito tra area di applicazione della protezione piena e area della collaborazione autonoma continuativa; ma il risultato non sarà quello di inibire drasticamente il ricorso a questo tipo contrattuale, che si manterrà dunque presumibilmente nelle sue (ormai peraltro modeste) dimissioni attuali. Avrei preferito la soluzione centrata sulla nozione di “dipendenza economica”, delineata nel progetto del Codice semplificato; ma riconosco che la soluzione scelta ha una sua logica apprezzabile e merita di essere sperimentata.

Una curiosità: con la nuova norma il campo di applicazione del diritto del lavoro non coincide più con l’area della “subordinazione”, come stabilito dall’articolo 2094 del Codice civile, ma con l’insieme di tutti i rapporti di lavoro subordinati e di tutti i rapporti di collaborazione “inseriti nell’organizzazione” del creditore, cioè che si svolgono “dentro l’azienda”. Con questo si torna alle origini del nostro diritto del lavoro, quando, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la legge n. 80/1898 sull’assicurazione infortuni definiva il proprio campo di applicazione facendo riferimento alla dislocazione fisica del prestatore «negli opifici industriali» o «nelle miniere, cave e torbiere» (articolo 1), o comunque «fuori della propria abitazione» (articolo 2): e la legge n. 242/1902 sul lavoro delle donne e dei fanciulli, poi la legge n. 489/1907 sul riposo settimanale, si applicavano a chi lavorasse «negli opifici industriali», senza distinzione tra “subordinati” e no.

2. Un altro ritorno alle origini: torna la distinzione tra operai e impiegati – La nuova disposizione sul mutamento di mansioni, contenuta nell’articolo 2103 del Codice civile riscritto dall’articolo 3del citato decreto n. 81/2015, consente al datore di lavoro di variare le mansioni del dipendente, purché esse restino nel novero di quelle inquadrate nello stesso livello di inquadramento, oppure – nel caso di ristrutturazione aziendale – anche nel livello immediatamente inferiore. Per rispondere a chi protesta contro questa disposizione basti osservare che, se non si consente di soddisfare l’esigenza organizzativa in questo modo, essa finisce col costituire giustificato motivo di licenziamento; con o senza articolo 18.

La cosa curiosa, qui, è invece che il legislatore delegato ha ritenuto di limitare il nuovo ius variandi dell’imprenditore così ridefinito, imponendo che esso si eserciti all’interno della “categoria legale”: il richiamo è alle categorie di “operaio”, “impiegato”, “quadro”, e “dirigente”, indicate nell’articolo 2095 del Codice civile. Ora, i più giovani devono sapere che mezzo secolo fa il movimento sindacale italiano diede vita a una forte mobilitazione volta a superare in ogni campo e a tutti gli effetti la summa divisio tra operai e impiegati (allora non esisteva ancora la categoria dei “quadri”), raggiungendo l’obiettivo nella tornata dei rinnovi contrattuali del 1972 con la conquista in quasi tutti i settori del cosiddetto “inquadramento unico”. Da allora tutti gli ex-operai qualificati e specializzati e i loro capi-squadra sono stati inquadrati in categorie contrattuali nelle quali venivano inquadrati anche impiegati d’ordine e di concetto. Contemporaneamente, nel corso degli anni ’70, vennero superate quasi tutte le precedenti differenze di disciplina del rapporto e di struttura della retribuzione, originate dalla legge sull’impiego privato del 1924: in particolare la differenza di trattamento fra salariati e stipendiati nei casi della sospensione della prestazione e di intervento della Cassa integrazione guadagni.

Nonostante gli intendimenti originari con cui venne istituito l’”inquadramento unico”, l’antica distinzione tra le mansioni e professionalità di “chi modifica la materia” e quelle di “chi lavora sui flussi delle informazioni” è tuttavia rimasta: se ne trova, infatti, traccia negli stessi contratti collettivi, che a quarant’anni dall’istituzione dell’”inquadramento unico” continuano a distinguere per alcuni aspetti normativi molti limitati gli ex-impiegati dagli ex-operai. E ora il legislatore ha ritenuto di precisare che, anche quando l’inquadramento contrattuale accomuna gli uni e gli altri, non si può imporre agli uni mansioni che sono “proprie” degli altri.

3. Part-time: tornano praticabili le clausole elastiche (ma resta anche il lavoro intermittente) – La cosa era andata così: otto anni dopo il riconoscimento nel nostro ordinamento del lavoro a tempo parziale, la sentenza della Corte costituzionale n. 210/1992 aveva stabilito che le clausole di variabilità dell’estensione o della collocazione temporale della prestazione lavorativa al di sotto del limite di orario normale fossero ammissibili a condizione che prevedessero variazioni non soggette al mero arbitrio del datore, ma correlate a eventi oggettivi predeterminati o predeterminabili. Questo consentiva, per esempio, di assumere una “maschera” di cinema o teatro “per i soli giorni in cui c’è spettacolo, con orario di lavoro da mezz’ora prima dell’inizio del primo spettacolo a mezz’ora dopo la fine dell’ultimo”; oppure di assumere un cameriere di ristorante con fine lavoro “mezz’ora dopo l’uscita dell’ultimo avventore”. Poi accadde che, nel 2000, il decreto legislativo sul part-time n. 61 vietò quasi del tutto le clausole di elasticità dell’estensione temporale della prestazione, facendo sorgere, soprattutto nei settori del turismo, della ristorazione e dello spettacolo, alcuni problemi organizzativi pressoché insolubili. Fu anche per risolvere questo problema che la legge Biagi istituì il “lavoro intermittente”, o “a chiamata”.

Ora l’articolo 6, commi 5 e 6, del decreto n. 81/2015 torna a consentire le clausole elastiche, anche quando non previste da un contratto collettivo applicabile: si torna così – assai opportunamente, a mio avviso – alla situazione precedente al decreto del 2000, disciplinata dalla sentenza costituzionale del 1992.

In ottemperanza alla direttiva di semplificazione e di sfrondamento dei tipi contrattuali non necessari, contenuta nella legge-delega, a questo punto si sarebbe dovuto riassorbire esplicitamente nel lavoro a tempo parziale con clausola elastica tutti i rapporti attualmente assoggettati al complesso regolamento del lavoro intermittente, sopprimendo quest’ultimo. Si è preferito invece – non chiedetemi perché – tenere in vita questo sotto-tipo contrattuale, riscrivendone la disciplina; col risultato di appesantire di una sezione e di ben sei articoli (dal 13 al 18) il decreto n. 81/2015 e di aprire uno spazio di sovrapposizione tra intermittente e clausole elastiche. Niente di grave, certo; ma non è il massimo dal punto di vista della chiarezza e della semplificazione.

 4. Non abolito, ma solo privato della sua disciplina esplicita il lavoro ripartito, o job sharingÈ il rapporto che vede due persone assumere in solido tra loro la stessa prestazione lavorativa, libere di ripartirla tra loro secondo le proprie mutevoli esigenze, senza necessità di preavviso al (e tanto meno autorizzazione dal) datore; il quale viceversa beneficia di una maggior garanzia di copertura della posizione anche in caso di malattia o altro impedimento di uno dei due partner, nonché della possibilità – con il consenso degli interessati – di raddoppio della prestazione con sovrapposizione dei due in caso di necessità, salvo ovviamente l’obbligo di retribuzione aggiuntiva nel caso dell’infermità e del lavoro straordinario. Non è un rapporto di lavoro precario, bensì una forma moderna di coniugazione del massimo di flessibilità dell’orario per i prestatori con il massimo di sicurezza della continuità della prestazione per il datore; per questo negli U.S.A. il 2 per cento della forza-lavoro è impiegata con questo tipo di contratto: soprattutto nei settori dei nidi e scuole materne, case di cura, vendita al dettaglio e servizi alle comunità locali.

In Italia questa forma di organizzazione del lavoro – un tempo diffusamente praticata nel settore del portierato dei condomini urbani – è stata riconosciuta per la prima volta, a legislazione invariata, con una circolare (n. 43/98) del ministro del Lavoro Treu, poi, sul piano legislativo, dagli articoli 41-45 della legge Biagi, i quali hanno peraltro ripreso quasi integralmente il contenuto di quella circolare. Ora l’articolo 55 lettera d) del decreto n. 81/2015 abroga i suddetti cinque articoli.

Il motivo della soppressione è puramente politico: un contentino a tutti coloro che hanno sempre avuto in odio la legge Biagi e provano soddisfazione a vederne smantellare una parte maggiore. Sta di fatto comunque che, come il lavoro ripartito ha potuto vivere anche in Italia senza alcuna legge che lo riconoscesse esplicitamente, allo stesso modo esso può continuare a vivere anche dopo che il suo riconoscimento legislativo è stato abolito. I (pochi) rapporti di job sharing attualmente in essere possono tranquillamente proseguire.

5. Servizi per l’impiego: quel che manca e quel che è di troppo – Quando, con quarant’anni di anticipo rispetto a noi, nel Regno Unito l’Employment and Training Act 1973 istituì la prima grande agenzia nazionale per l’impiego, la Manpower Services Commission, quella legge – preceduta da un quinquennio di sperimentazione sul campo dei nuovi strumenti e metodi – conteneva questa sola regola circa l’organizzazione e l’attività del nuovo public body (sect. 2.5): “La MSC ha il potere di fare tutto (escluso il prendere a prestito denaro) ciò che è ritenuto utile o incidentalmente necessario per il perseguimento dell’obbiettivo”, cioè l’aumento quantitativo e il miglioramento qualitativo dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Sulla struttura della MSC quella legge prevedeva soltanto l’articolazione in quattro divisioni, dedicate rispettivamente al collocamento, alla formazione, ai programmi speciali per i giovani e i disoccupati di lunga durata e all’attività di ricerca, studio e rilevazione statistica. Nient’altro circa la sua struttura interna, che veniva interamente lasciata alla discrezionalità del management. Tutto il resto della legge era dedicato, per un verso, a regolare le fonti e i criteri di finanziamento dell’agenzia, per altro verso a prevedere il controllo sui risultati conseguiti, sia al livello centrale sia a quello di contea e di singolo Job Centre.

Il confronto con lo schema di decreto sui servizi per l’impiego approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 giugno scorso è impressionante: qui pagine e pagine sull’organigramma dirigenziale e impiegatizio dell’Anpal, la nuova Agenzia per le Politiche Attive, il cui personale verrà per la quasi totalità attinto dagli organici del ministero, di Italia Lavoro e dell’Isfol; ma non una riga sui criteri di valutazione complessiva del suo operato, né sul sistema di determinazione di obiettivi precisi e specifici a cui ciascun incarico dirigenziale, incominciando da quello del vertice, debba essere rigorosamente vincolato e subordinato.

I vecchi Centri per l’Impiego, già incardinati nelle Province, vengono ora incardinati nelle Regioni, le quali devono provvedere ai relativi costi per due terzi con i propri mezzi. Contemporaneamente, però, la Camera ha emendato la legge di riforma costituzionale assegnando allo Stato la competenza esclusiva in materia di politiche attive del lavoro e servizi per l’impiego: se la nuova disposizione costituzionale tra un anno entrerà in vigore, dunque, dovremo attenderci un ri-trasferimento dell’intero sistema dei Centri per l’Impiego al ministero del Lavoro?

La mia convinzione è che il passaggio decisivo per il superamento delle gravi e diffuse inefficienze del servizio di collocamento pubblico non consista nella scelta tra decentramento o ricentralizzazione del servizio stesso, bensì: a) nell’istituzione di un sistema di fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni e di obiettivi minimi da conseguire; b) nell’istituzione di un sistema di valutazione del rispetto dei livelli essenziali e del raggiungimento degli obiettivi da parte delle strutture periferiche; nella possibilità di surrogazione, in via sussidiaria, dell’amministrazione centrale a quella periferica che si riveli inadempiente. Questi dovrebbero, a mio modo di vedere, essere i compiti essenziali della nuova agenzia centrale istituita dal nuovo decreto, che invece proprio su questi tre punti mi sembra presenti qualche difetto di chiarezza e di incisività.

Ma il difetto più grave del provvedimento sta in questo: nulla dei nuovi strumenti e metodi per le politiche attive è stato sperimentato sul campo, nonostante che i fondi per farlo fossero stati stanziati e alcune leggi degli anni recenti lo prevedessero. Oltremanica si pratica il try and go: prima si prova, poi, se l’esperimento dà buoni risultati, si generalizza con la legge; da noi si pratica il go and try: si istituisce la nuova struttura, le si indicano i nuovi compiti e si spera che riesca a svolgerli.

6. I passi avanti (ancora insufficienti) verso il Codice semplificato – Torniamo al decreto n. 81/2015: nei suoi 57 articoli si osserva uno sforzo inedito, da parte del legislatore delegato, di riscrivere numerosi capitoli della disciplina del rapporto di lavoro in modo ordinato e facilmente leggibile da chiunque, abrogando esplicitamente (articolo 55) un numero assai maggiore di norme previgenti. Non è ancora la semplicità, chiarezza e fruibilità immediata da parte dell’uomo della strada che è stata raggiunta nei progetti di Codice semplificato, e che si ritrova nel decreto n. 23/2015 sulla nuova disciplina dei licenziamenti; ma in qualche modo ci si avvicina.

Poi, però, si passa ai decreti contenenti le nuove norme sui congedi parentali, o quelle sul collocamento obbligatorio, e si ripiomba nel genere letterario della legge illeggibile anche per gli esperti della materia, tutta scritta mediante richiami di articoli, commi e alinea di leggi precedenti di cui viene sostituita qualche parola. Solo per capire che cosa la nuova norma vuol dire occorre il volumone delle leggi già in vigore, e non è facile neppure con quello alla mano. Questo è proprio il linguaggio funzionale al monopolio della scrittura del testo legislativo da parte dell’alta burocrazia ministeriale: ministri, sottosegretari e parlamentari riescono a capirne, se va bene, il 10 per cento; e l’uomo della strada ancora meno. Naturalmente di questi testi si ignorano per lo più i veri estensori materiali: se contengono errori nessuno ne risponde. E nessuno può chiedere loro come possano pensare che in questi 11 articoli per la maggior parte illeggibili, contenuti in 10 pagine formato A4 fitte fitte, aggiunti alla già corposa legge sul collocamento obbligatorio del 1999, si possa concretare davvero la “razionalizzazione e semplificazione” promessa nella rubrica del Titolo I in cui sono contenuti. Non potremo chiedere loro conto dell’avere ignorato le linee guida dettate dal Decalogue for Smart Regulation europeo, e in particolare la direttiva di ricondurre la norma legislativa primaria al suo ruolo di enunciazione di regole e principi, lasciando alla norma regolamentare secondaria o alla contrattazione collettiva le disposizioni di attuazione e adattamento ai casi particolari. Non potremo chiedere loro neppure come si concilii con la delega legislativa per il testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, contenuta nella legge n. 183/2014, il fatto che ora entra in vigore il decreto sul “riordino”, con le norme su otto capitoli della materia, ma la nuova disciplina dei congedi parentali sta in un altro decreto, mentre quella sulle dimissioni e quella sui controlli a distanza sono destinate a venire in un terzo decreto ancora. È così che si riordina la legislazione del lavoro? È così che si semplifica la vita alle decine di milioni di cittadini che queste norme devono applicare ogni giorno?

Il fatto è che, a gennaio e febbraio, nel fuoco della polemica al calor bianco sul nodo cruciale della disciplina dei licenziamenti, il Governo (inteso come potere politico) aveva ben chiaro l’obiettivo essenziale da raggiungere ed era determinatissimo a raggiungerlo: pur ascoltando tutti, ha tenuto saldamente in mano la penna con cui veniva scritto il decreto sulla disciplina dei licenziamenti, col risultato di un testo legislativo esemplare per concisione, leggibilità, chiarezza e univocità del contenuto. In questa seconda fase la stessa cosa è avvenuta soltanto per alcune materie. Non per tutte le altre; col risultato che, per gran parte delle nuove norme, la penna è tornata esclusivamente in mano a coloro che nella necessità della semplificazione legislativa non credono affatto, anzi di fatto la avversano. Anche perché essa significa la fine del loro monopolio della scrittura dei testi legislativi, quindi la fine del loro “potere legislativo di fatto”.

7. La partita è ancora aperta – Il ritardo non è irreparabile. I quattro ultimi decreti attuativi sono ancora in fase di esame da parte dei due rami del Parlamento; e la legge-delega consente la correzione e revisione dei decreti entro un anno. Siamo dunque ancora in tempo sia per un chiarimento circa il ruolo della nuova agenzia centrale per i servizi per l’impiego, sia per una riscrittura in forma leggibile delle norme sui congedi parentali e di quelle sul collocamento obbligatorio, sia infine per l’accorpamento di queste nuove disposizioni e di quelle in materia di dimissioni e di controlli a distanza con quelle contenute nel decreto che ora porta il n. 81/2015.

Non saranno i 60 articoli brevi e facilmente traducibili in inglese dell’ultimo progetto del Codice semplificato, saranno forse 150, o 200, ma saranno comunque un grosso passo avanti nella direzione giusta. Si può ancora fare. Purché sia chiaro che, come ho appena sottolineato, il problema non è di natura soltanto tecnica, bensì squisitamente politica.

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