REPLICA A BOMBASSEI SULLA RESPONSABILITA’ DELLE IMPRESE E LE PROSPETTIVE DI SUCCESSO DEL PROGETTO

PER LA TRANSIZIONE A UN REGIME DI FLEXSECURITY E’ INDISPENSABILE UNA FASE INIZIALE DI SPERIMENTAZIONE DA PARTE DELLE IMPRESE MIGLIORI, CHE CONSENTA DI METTERE A PUNTO IL MODELLO ORGANIZZATIVO E PROMUOVERE LA CULTURA DEL MERCATO DEL LAVORO, CHE OGGI NEL NOSTRO PAESE FA GRAVEMENTE DIFETTO

Intervento pubblicato su il Riformista il 27 maggio 2009

Caro Direttore,

sul Riformista di ieri il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei, discutendo del progetto di riforma dei licenziamenti che va sotto il nome di “transizione a un regime di flexsecurity, pone una questione importante: perché dovrebbero essere le imprese a farsi carico, attraverso apposite agenzie, dei servizi di riqualificazione e ricollocamento del lavoratore che perde il posto a causa di un licenziamento? Non rientrano forse tali servizi nella competenza pubblica e in particolare delle Regioni?

            Rispondo, innanzitutto, che nel panorama internazionale si trovano molte esperienze positive di servizi di formazione e riqualificazione professionale gestiti dalle imprese di un determinato settore, in joint venture oppure no con le rispettive controparti sindacali e finanziati mediante un contributo commisurato al monte-salari: si pensi per esempio all’esperienza britannica degli Industrial Training Boards, a quella francese delle iniziative di settore finanziate con la taxe d’apprentissage, oppure ancora all’esperienza nostrana di Formatemp nel settore delle imprese fornitrici di lavoro temporaneo, o degli enti bilaterali di formazione nel settore edilizio. Per un verso, l’affidamento di queste iniziative a un management espresso dalle imprese stesse può costituire garanzia di maggiore efficienza ed efficacia, soprattutto quando si attivi un forte incentivo economico, come quello previsto nel progetto (più rapido è il ricollocamento del lavoratore, minore è il costo del trattamento complementare di disoccupazione che occorre erogargli). Per altro verso, nel nostro sistema istituzionale oggi è doveroso che gran parte, se non la totalità, del costo delle iniziative di, orientamento, riqualificazione e assistenza nel mercato del lavoro sia rimborsata dalle Regioni, che hanno piena competenza in proposito, dove possibile con il contributo del Fondo Sociale Europeo.

            Diverso è il discorso relativo al costo che il progetto accolla alle imprese per il trattamento complementare di disoccupazione dovuto al lavoratore che perde il posto. Questo, per la sua stessa natura di trattamento complementare, è logico e giusto che sia sostenuto dalle imprese. Ma, se le attività di orientamento, riqualificazione e ricollocazione del lavoratore saranno efficienti ‑ come è lecito attendersi da un servizio gestito dalle stesse imprese interessate, con adeguati poteri di controllo sulla disponibilità e cooperazione effettiva di ciascun lavoratore coinvolto ‑ il loro costo sarà davvero molto ridotto. Nel settore industriale, infatti, dove i lavoratori licenziati già oggi percepiscono per i primi 12 mesi il trattamento speciale di disoccupazione pari all’80 per cento dell’ultima retribuzione, per arrivare al 90 per cento previsto dal progetto basterà il 10 per cento a carico dell’impresa che licenzia. Negli altri settori, dove il trattamento di disoccupazione ordinario ammonta al 60 per cento per otto mesi, per arrivare al 90 basterà il 30 per cento a carico dell’impresa. Se le imprese interessate sapranno mettere in campo un servizio di riqualificazione e ricollocazione efficiente, capace di contenere i periodi di disoccupazione entro una media di sei mesi, il costo del trattamento complementare sarà ridotto entro un limite davvero modesto. D’altra parte, sarà proprio il rischio che il periodo di disoccupazione si protragga oltre i sei mesi o l’anno a costituire un efficacissimo incentivo a far funzionare bene i servizi di riqualificazione e ricollocazione.

            Resta la questione della rinuncia, che il progetto chiede alle imprese, ad assumere i nuovi dipendenti con contratti a termine (al di fuori dei casi classici delle punte stagionali, o delle sostituzioni temporanee) o simulando collaborazioni autonome. Ma questa rinuncia è richiesta loro a fronte di una drastica riduzione del costo del licenziamento del lavoratore nella fase iniziale del rapporto di lavoro: costo zero per il periodo di prova, che può arrivare fino a sei mesi; indennità di licenziamento di una mensilità di retribuzione, fungibile con il preavviso, per il lavoratore con un anno di anzianità; indennità di licenziamento più trattamento complementare di disoccupazione della durata massima di un solo anno per il lavoratore con due anni di anzianità; e così via.

            Viceversa, non considera Bombassei l’alto costo effettivo (ancorché non evidenziato nei bilanci) che le aziende oggi sopportano in conseguenza della difficoltà di aggiustamento dei propri organici in relazione agli shock tecnologici, economici, o di mercato? E non considera l’alto costo effettivo delle diffuse posizioni di rendita che il regime attuale genera nel tessuto produttivo? E il sacrificio sistematico del merito sull’altare dell’inamovibilità?

            Quanto all’interrogativo che il Vicepresidente di Confindustria pone circa la geometria e geografia delle strutture di servizio delle quali il progetto prevede l’attivazione, la risposta è molto semplice: decidono le imprese stesse con la controparte sindacale con cui stipulano il “contratto di transizione”: sarà dunque il sistema stesso di relazioni industriali a stabilire, in via sperimentale, le dimensioni e i confini geografici o merceologici dell’aggregazione. Questo consentirà il confronto (e, in qualche misura, anche la competizione) tra modelli diversi di agenzia: il che, nella fase sperimentale, è molto utile per individuare la forma migliore che il servizio deve assumere, nella prospettiva della fase successiva di generalizzazione della riforma.
             Circa i tempi del disegno complessivo della riforma, il numero due di Confindustria obietta che l’esperimento richiederà decenni prima che il nuovo regime soppianti completamente il vecchio. Ora, è fuori di dubbio che una riforma di questa portata richieda di collocarsi in un’ottica di periodo medio-lungo: non è certo pensabile di superare d’un balzo gli enormi difetti che caratterizzano il nostro mercato del lavoro (difetto di qualità dei servizi, difetto di collegamento tra sostegno del reddito e controllo del comportamento attivo del lavoratore nel mercato, difetto di risorse pubbliche per l’ampliamento e rafforzamento del sostegno del reddito, difetto delle civic attitudes e della “cultura materiale” che  caratterizza i Paesi nord-europei dove il modello della flexsecurity si è affermato con successo). Va però anche detto che il disegno di legge consente che fin d’ora nascano nuove imprese governate interamente secondo il nuovo regime. Non appena, poi, nel giro di pochi anni, la sperimentazione avrà consentito di delineare la forma migliore della flexsecurity applicabile nel nostro Paese, sarà politicamente e tecnicamente possibile imprimere un’accelerazione al processo di generalizzazione del campo di applicazione della riforma: cadranno, infatti, a quel punto, le resistenze di carattere puramente ideologico e sarà possibile ragionare pragmaticamente sulla basedi una visione realistica e non mitologica delle opportunità che un mercato del lavoro dotato di buoni servizi può effettivamente offrire alla generalità dei lavoratori.

             Alberto Bombassei si preoccupa, infine, della difficoltà di trovare una controparte sindacale disponibile a stipulare il “contratto di transizione”. Il disegno di legge non pone vincoli in proposito, salvo il requisito che si tratti di un sindacato vero e non di un sindacato di comodo. Si osservi, in proposito, che per la stipulazione di un “contratto di transizione” valido non occorre una verifica di rappresentatività maggioritaria rispetto ai dipendenti già in forza nell’azienda, dal momento che il contratto non tocca le posizioni di questi ultimi.
            Sta di fatto, comunque, che proprio in queste settimane tutte le confederazioni sindacali maggiori – Cgil, Cisl, Uil e Ugl – stanno studiando con molta attenzione il progetto. I rispettivi dirigenti percepiscono, infatti, che il progetto stesso offre loro un modo molto efficace per abbattere il muro che oggi divide il sindacato dalle nuove generazioni di lavoratori: quelle che portano il peso maggiore del dualismo del nostro attuale mercato del lavoro. Se la parte più lungimirante degli imprenditori e la parte più lungimirante del movimento sindacale si faranno reciprocamente da “sponda”, si creeranno sicuramente ampie zone del nostro tessuto produttivo dove l’esperimento potrà decollare nelle condizioni migliori.

 

 

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