MARAN: LE RAGIONI DELLA RIFORMA DEL SENATO

PERCHÉ È IMPORTANTE CHE L’ITALIA SI DOTI DI UN PARLAMENTO PIÙ AGILE, CHE NON SI RINUNCI ALL’IDEA DEL SENATO COME CAMERA DELLE AUTONOMIE, E CHE NON LA SI CORROMPA CON SOLUZIONI CHE DETERMINEREBBERO SOVRAPPOSIZIONI INDEBITE RISPETTO ALLE FUNZIONI DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

Intervento del senatore Alessandro Maran. vicepresidente del gruppo Pd, nella discussione generale sul disegno di legge del Governo per la riforma costituzionale, nella sessione antimeridiana del Senato del 18 settembre 2015.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (PD). Signora Presidente, colleghi, molti degli oppositori del progetto in discussione hanno fatto ricorso sin dall’inizio ad argomenti propagandistici sproporzionati, parlando di deriva autoritaria e di P2. L’ultima trovata è la “democratura” che fa il paio con la storiella dell’uomo solo al comando. In tal modo, si vuole far intendere che il Presidente del Consiglio sia una sorta di mix fra Craxi e Berlusconi o addirittura la reincarnazione del duce, per come governa, per come guida il suo partito e per il solo fatto che è al tempo stesso segretario del PD e Presidente del Consiglio (come in tutta Europa, a dire il vero; come sempre, però, chissà perché, da noi è diverso). Perché se può evita i rinvii, perché impone che ad un certo punto le decisioni vengano prese, perché scandisce l’agenda del Parlamento con una tempistica diversa dalle vecchie movenze della politica italiana. Sono tutte cose che, oltre tutto, non sempre gli riescono. Non c’è però da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario parafascista. Sono a confronto due concezioni della democrazia: una è assembleare ed è fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento, l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana, quella del dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza; la seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati. Non è un caso, infatti, che nessuna democrazia parlamentare abbia una seconda Camera chiamata a svolgere funzioni di contrappeso e non è un caso che in quasi settanta anni di bicameralismo perfetto, come hanno sottolineato in parecchi tra i costituzionalisti anche nelle settimane scorse, nessuno ha mai sostenuto la tesi del contrappeso. Al massimo si è detto che una seconda Camera, eletta allo stesso modo e titolare delle stesse funzioni della prima, poteva consentire qualche ripensamento delle decisioni legislative, cosa ben diversa dal contrappeso, senza mai per questo mutare il giudizio unanime negativo dei costituzionalisti sull’inutile doppione, frutto di uno dei pochissimi compromessi al ribasso dei nostri costituenti. Ovviamente capiamo tutti il tema dei contrappesi – e ci torno tra un po’ – ma non riesco a comprendere la ricerca di strumenti di garanzia in una seconda Camera eletta direttamente. La strampalata idea che trasformare il Senato in modo molto simile al Bundesrat austriaco distruggerebbe un essenziale contrappeso politico e con esso le fondamentali garanzie e, in ultimo, la stessa Costituzione è una sciocchezza. Basterebbe ricordare che in nessuna delle democrazie parlamentari più significative la seconda Camera è eletta direttamente. La maggioranza dei Paesi dell’Unione non hanno una seconda Camera e, tra i 13 che hanno una seconda Camera, solo in cinque i suoi membri sono eletti direttamente dai cittadini e, tra questi cinque Paesi, solo in Italia, in Polonia e in Romania la seconda Camera ha dei poteri rilevanti e solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera dei deputati. Solo la Spagna elegge il Senato per una percentuale variabile in via diretta – anche in Spagna una parte dei membri sono designati dalle comunità autonome – ma è da tempo in atto in quel Paese una discussione per il superamento della quota con elezione diretta sulla base di un argomento che potrebbe applicarsi anche al nostro Senato, qualora fosse eletto direttamente e che il professor Barbera ha riassunto nel corso dell’audizione in questo modo: o la rappresentanza diretta esprime un orientamento in sintonia con quella della Camera dei deputati – e allora non ha alcuna funzione e nessun significato – o non è così. Allora, si presenterebbero problemi di omogeneità e di incisività dell’azione parlamentare, come accadeva con il Bundesrat tedesco quando la maggioranza non era coincidente con quella del Bundestag. È stata questa la ragione della riforma voluta nel 2006 da democristiani e socialdemocratici che ne hanno ridotto le competenze, proprio per evitare le pratiche consociative e le paralisi legislative.

Se togliamo di mezzo le difese impossibili dello status quo, una Camera regionale si può fare in molti modi. Ricordo di aver proposto nel corso della prima lettura, senza grande successo, una serie di emendamenti per introdurre il Bundesrat tedesco, compreso il voto di pacchetto, ma l’importante è che non si rinunci al principio di un Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali evitando di riprodurre doppioni inutili o dannosi. Si obietta che il rafforzamento del Governo, derivante dal premio di maggioranza grazie alla riforma elettorale, esige la ricerca di adeguati contrappesi, ma anche questo a me sembra un luogo comune. Le garanzie democratiche non vanno cercate nella paralisi del Governo votato dai cittadini, ma nei contrappesi veri di cui il nostro sistema è ricco come pochi: ruolo dell’opposizione – su cui poi tornerò -, Corte costituzionale, magistratura, Regioni, associazionismo, stampa, Unione europea, Presidente della Repubblica e – se poi vogliamo – buone leggi sui conflitti di interessi, sulle lobby, sulle autorità indipendenti. Sono tutte cose che non si fanno senza una politica robusta. Il Senato elettivo non c’entra niente; può solo privare l’Italia della preziosa presenza delle istituzioni territoriali al centro del sistema. Ricordo che, proprio la mancanza di un luogo parlamentare di mediazione, è il principale punto critico della riforma del Titolo V voluto dal centro sinistra nel 2001.

Senza contare il fatto che il principale problema in Italia non è l’assenza dei contrappesi, ma la debolezza del peso decisionale del Governo e del Parlamento. Ricordo che proprio il professor Barbera, nel corso della sua audizione, ha fatto l’esempio del Regno Unito, un Paese che ha combattuto il fascismo quando noi indossavamo il fez e una delle principali democrazie nel mondo. Il Regno Unito è un Paese in cui il premio di maggioranza può avere come effetto addirittura la scomparsa di intere formazioni politiche (i liberali in più occasioni, ad esempio) e che comunque sovrastima la forza politica che riesce a raggiungere il 38‑40 per cento dei voti. Ricordo che Tony Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35 per cento dei voti e che con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55 per cento dei seggi. E la Camera dei Lord non è un’istituzione eletta dal popolo. La stessa cosa accade in Francia, dove, con il 29 per cento dei voti ottenuti al primo turno, il Partito socialista di Hollande ha conquistato il 53 per cento dei seggi nell’Assemblea nazionale. E il Senato francese non è eletto dai cittadini.

Nel Regno Unito, patria del costituzionalismo liberaldemocratico, il Primo Ministro decide l’ordine del giorno di Westminster per più di tre quarti del tempo e il Cancelliere dello scacchiere può porre il veto su qualunque emendamento di spesa. Il Capo dello Stato, a differenza di quello italiano, ha soltanto funzioni simboliche. Non esiste una Corte costituzionale come quella italiana e i magistrati non hanno le garanzie che assicura loro la Costituzione italiana (sono in pratica funzionari del Governo, come la stessa polizia). Non esistono i referendum di tipo abrogativo e non vigono nemmeno le parti dei trattati europei che delineano la Carta dei diritti, perché non sono stati sottoscritti. In questo Paese, dove sono i contrappesi? Non sono nella Camera dei Lord, ma piuttosto nei poteri che vengono riconosciuti ai singoli parlamentari e alle opposizioni. Cito Churchill: «Non i Lord, ma l’opposizione a Westminster garantisce la libertà inglese». Basterebbe dare un’occhiata alla biografia politica di Tony Blair e alle pagine che dedica all’angoscia e al terrore che il Primo ministro inglese prova alla vigilia del question time, quando deve affrontare il Parlamento senza conoscere le domande e gli argomenti che gli verranno posti e senza avere le risposte già preparate.

È un tema, quello dell’opposizione in Parlamento, che non è estraneo al testo in esame, perché tale testo valorizza i referendum abrogativi, rendendo più agevole il raggiungimento del quorum, garantisce l’esame dei progetti di iniziativa popolare, assicurando termini certi per la loro discussione, e fa riferimento, per la prima volta in un testo costituzionale, allo statuto delle opposizioni. Peraltro tale progetto rafforza il ruolo di garanzia del Capo dello Stato, elevando soglie e scrutini per l’elezione e rendendone più difficile l’elezione da parte della sola maggioranza espressa dalle elezioni. Potremmo dire anzi che c’è il rischio opposto, cioè non tanto quello di un colpo di mano della maggioranza, quanto piuttosto quello di arrivare all’elezione del Capo dello Stato solo dopo lunghissime e numerose votazioni.

Insomma, sono più di vent’anni, dai due referendum del 1991 del 1993, che abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa, per affermare un modello di democrazia governante; ed è da allora che è iniziata una transizione infinita, una vera e propria guerra tra un modello di democrazia competitiva e un modello di democrazia consociativa. A ciascuno di questi modelli corrispondono assetti istituzionali diversi, concezioni diverse ed anche pratiche diverse della politica. Ma queste prima o poi si dovranno allineare e adeguare, altrimenti il sistema resterà privo di coerenza, resterà inevitabilmente sconnesso e non potrà esercitare la sua funzione come dovrebbe.

Con l’iniziativa del Governo Renzi, dopo i fallimenti del passato (che bisognerebbe elencare), ha preso corpo il tentativo di realizzare questo adeguamento, in modo da rendere finalmente possibile il funzionamento di una democrazia competitiva. La legge elettorale, che introduce un maggioritario ben strutturato (ricordo che, con il ballottaggio, consentiamo agli elettori di decidere con il voto a chi affidare il compito di governare), e ora la riforma costituzionale, con la liquidazione del bicameralismo perfetto, rendono possibile la democrazia competitiva.

Questa riforma coronerebbe lo sforzo trentennale, condotto invano da ogni sorta di maggioranza. Capisco il tentativo degli oppositori di impedire a questo modello di democrazia dell’alternanza e di “democrazia competitiva” di acquisire una coerenza completa. Capisco anche che una parte della sinistra voglia salvaguardare il vecchio modello, al quale è legata la possibilità stessa di una sinistra antagonista e ideologica, alla quale non interessa essere “sinistra dì governo”. Non c’è però da avere, in Italia, alcun “timore del tiranno”, né ora né con la riforma.

Ricordo che non oggi, ma parecchio tempo fa, proprio Costantino Mortati, uno dei padri nobili della Costituzione, ha messo in luce le diverse incongruenze che attraversano la Parte II della Costituzione, elencandone cinque. Una prima contraddizione esiste fra efficienza delle istituzioni di governo e vincoli garantisti, dovuti soprattutto al timore che «le maggioranze detentrici del potere ne usino per rivolgerlo contro gli avversari». C’è una seconda contraddizione fra il potere formale attribuito agli organi dello Stato e il «potere reale» assunto dai partiti politici, «venuti ad assorbire di fatto i poteri di decisione propri del Parlamento». Una terza contraddizione c’è fra i poteri attribuiti agli organi dello Stato e le resistenze e le pressioni dei contrapposti interessi sociali organizzati, che, impedendo decisioni e dunque anche l’assunzione di responsabilità politica, favoriscono forme di «neo feudalesimo». Una quarta esiste fra l’indispensabile decentramento regionale e l’altrettanto necessario «bisogno di accentramento di una direzione unitaria», proprio dello Stato contemporaneo. Infine, Mortati segnalava una contraddizione fra l’adozione della rappresentanza proporzionale, peraltro non imposta dalla Costituzione, e il processo di «razionalizzazione» della forma di governo parlamentare, che esige stabilità e incisività dell’azione di governo. Sono tutte cose che vediamo squadernate sotto i nostri occhi.

Mortati si mostrava giustamente più fiducioso sulla possibilità di fare coesistere, invece, i principi che informano la Parte I della Costituzione, nonostante i diversi motivi ispiratori, ovvero «il cristiano, il liberale, il socialista». Quei principi si sono progressivamente radicati nell’ordinamento, e oggi sono molto più radicati nella coscienza degli italiani di quanto non lo fossero in quei primi decenni in cui la Carta costituzionale aveva iniziato il suo cammino. Di fronte a principi costituzionali sempre più solidi e radicati, le istituzioni continuano ad evidenziare quelle contraddizioni e quei motivi di fragilità prima elencati, che si sono anzi aggravati. Le istituzioni di governo disegnate dal Costituente hanno permesso al nostro Paese di attraversare il baratro e il possibile precipizio della guerra fredda, ma oggi rappresentano un freno alla capacità dell’Italia di stare in Europa e nel mondo globalizzato. Proprio perché i principi costituzionali si sono ormai radicati fortemente nella coscienza degli italiani, è possibile tentare di chiudere le pagine lasciate aperte dal Costituente, ridando maggiore vigore alle istituzioni della Repubblica e superando finalmente veti e conservatorismi, che pesano da decenni sui tentativi di riforma delle istituzioni. Colleghi, non sprechiamo questa occasione! (Applausi dal Gruppo PD).

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