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IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE NON DEVE ATTENDERE LA CONCLUSIONE DI QUELLO PENALE

SE ANCHE I PROFESSORI DI DIRITTO PUBBLICO ALIMENTANO LA CULTURA DELL’IMPUNITÀ PER I DIPENDENTI DISONESTI, È DIFFICILE POI PRETENDERE CHE I VERTICI DELLE AMMINISTRAZIONI SI RIAPPROPRINO DELLE LORO PREROGATIVE E LE ESERCITINO CON IL NECESSARIO RIGORE (E CHE PURE I GIUDICI FACCIANO LA LORO PARTE)

Lettera al Direttore del quotidiano la Stampa, pubblicata il 25 ottobre 2015, in riferimento all’intervista a Federico Tedeschini pubblicata dallo stesso quotidiano il giorno prima – Segue una chiosa  – In argomento v. anche l’editoriale telegrafico del 24 ottobre Nullafacenti in riviera: la reazione del sindaco troppo tardiva [1].

Caro Direttore,
leggo con stupore sulla Stampa di oggi (ieri per chi legge – n.d.r.) l’intervista nella quale Federico Tedeschini, avvocato e docente universitario di diritto pubblico, contraddicendo il Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, sostiene che il licenziamento può essere intimato a un pubblico dipendente solo dopo la sentenza di condanna penale definitiva, quindi all’esito del terzo grado del giudizio. Prima di allora – sostiene Tedeschini – il dipendente, anche se colto con le mani nel sacco, potrebbe essere soltanto sospeso cautelarmente. Se le cose stessero davvero così, non ci sarebbe rimedio contro il malaffare nel settore pubblico: il dipendente nullafacente o disonesto potrebbe dormire sonni tranquilli, sapendo che, mal che vada, anche dopo essere stato scoperto continuerebbe per anni e anni a prendere metà dello stipendio, con la prospettiva di prendere anche l’altra metà se mai il reato si estinguerà per prescrizione o patteggiamento. Per fortuna le cose non stanno affatto così. Nel Testo Unico per l’impiego pubblico (d.lgs. n. 165/2001) è stato inserito nel 2009 il seguente

Articolo 55-ter. Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale
1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. […]

La norma prosegue prevedendo la riapertura del procedimento disciplinare per la correzione del suo esito, sia esso favorevole o no al dipendente, nel caso in cui l’esito stesso sia contraddetto dalla sentenza penale definitiva. La legge questo stabilisce perché – come giustamente sottolineato da Raffaele Cantone – l’efficacia del provvedimento disciplinare dipende molto dalla sua immediatezza rispetto alla scoperta della mancanza. D’altra parte, non occorre che la mancanza grave di un dipendente pubblico sia rilevante sul piano penale, perché ne risulti giustificato il licenziamento. Per esempio, l’assenza ingiustificata sistematica o la negligenza grave e ripetuta possono essere punite con il licenziamento anche se non si accompagnano con la truffa della falsa registrazione della presenza o con un altro comportamento fraudolento.
Pietro Ichino

MA ANCHE IL GIUDICE DEL LAVORO NON CONOSCE LA NORMA
Sulla stessa pagina de la Stampa sulla quale compare questa mia lettera compare anche un trafiletto che qui sotto riporto integralmente.
Reintegrato al lavoro il croupier che rubava
La notizia è dello scorso aprile ma, ieri, è stata rilanciata con un certo disagio a Sanremo: un croupier del Casinò (di proprietà del Comune ma gestito da una società privata, sia pure controllata dal pubblico) è stato reintegrato dal giudice del lavoro nonostante una condanna a 4 anni perché sorpreso a rubare. Secondo il giudice, infatti, nonostante la condanna il licenziamento sarebbe dovuto scattare solo al terzo grado del processo e non, come nel caso, al primo grado. Una decisione che ha comunque stupito.
Evidentemente questo giudice ignorava l’articolo 55-ter del Testo Unico per il pubblico impiego, riportato sopra. Qualcuno gliene chiederà conto? Se lo ignorano i giudici, non ci si può stupire che lo ignorino anche i dirigenti pubblici.

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