DECRETO SULLO SCIOPERO NEI MUSEI: LA REPLICA IN SENATO

CHI APPLICA ALLA QUESTIONE DEL CONFLITTO SINDACALE NEL SETTORE DEI BENI CULTURALI SOLTANTO IL PARADIGMA “PADRONE/OPERAIO” MOSTRA DI NON AVER COMPRESO LA NECESSITÀ DEL BILANCIAMENTO TRA DIRITTI DI RILIEVO COSTITUZIONALE DI CUI SONO PER LO PIÙ TITOLARI GLI STESSI SOGGETTI

Replica alla discussione generale sul disegno di legge n. 2110/2015, di conversione in legge del decreto-legge n. 146/2015, recante misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della nazione – In argomento v. anche il testo della mia relazione sullo stesso disegno di legge.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.

Ha facoltà di parlare il relatore.

ICHINO, relatore. Signora Presidente, vorrei solo dare alcune brevi e sintetiche risposte ad alcune notazioni emerse in questa discussione.

La prima è rivolta alla senatrice De Petris, che ha ritenuto di contraddire l’affermazione da me proposta in sede di relazione, circa il fatto che già la legge n. 146 del 1990 avrebbe ben potuto interpretarsi e applicarsi nel senso di ricomprendere i servizi di cui oggi qui parliamo nel campo di applicazione della legge stessa. L’articolo 1 di quella legge, nel definire il suo campo di applicazione, indica «i servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali». È evidente che il servizio che rende possibili l’accesso e la visita a questi beni è anche un servizio di vigilanza. Quindi, non sarebbe stata affatto una forzatura se, già in sede di applicazione della legge vigente, si fosse ritenuto applicabile l’intero apparato che quella legge dispone per il contemperamento tra interesse pubblico e interesse dei lavoratori alla libertà di sciopero.

Vengo a un’altra obiezione critica, emersa in numerosi interventi, che ha visto convergere, in una straordinaria armonia bipartisan, gli interventi dei senatori Uras, Barozzino, Petraglia, da una parte, con quelli di Malan e Bertacco, dall’altra, e con quelli, ancora, dei senatori Puglia e Montevecchi: tutti riferiti alla pretesa strumentalizzazione che sarebbe stata fatta da parte del Governo dell’episodio dell’assemblea sindacale all’anfiteatro Flavio, al Colosseo. Vorrei chiarire che in quell’episodio del 18 settembre scorso ciò che è venuto in evidenza come qualcosa che mancava nel nostro sistema è stato il diritto di centinaia, se non migliaia, di persone in coda in piena estate, sotto il sole, a essere informate con congruo anticipo e con precisione del fatto che quel giorno il servizio sarebbe stato chiuso. Applicare la legge n. 146 ai beni culturali significa innanzitutto affermare questo principio elementare di civiltà, garantire questo diritto all’informazione. Chi ritiene che la garanzia del diritto di sciopero debba spingersi al punto di travolgere questo interesse pubblico collettivo, questo interesse di immagine del Paese, mostra di non aver capito che cosa sia e quanto sia importante il bilanciamento tra interessi e diritti di rilievo costituzionale.

Questa era la questione che il Governo ha ritenuto di dover affrontare con urgenza, perché era in corso la grande manifestazione mondiale di Expo a Milano (nel settembre scorso c’erano ancora due mesi di atteso svolgimento di quella manifestazione) e si annunciava la nuova grande manifestazione di interesse planetario del Giubileo proclamato dal sommo Pontefice. Quindi c’era, eccome, l’urgenza di lanciare al mondo intero il messaggio per cui episodi come la chiusura senza preavviso agli utenti e senza informazione precisa degli Uffizi, degli scavi di Pompei e dell’anfiteatro Flavio non si sarebbe ripetuta. In questo non c’è alcun attacco ai diritti dei lavoratori, ma c’è soltanto la necessità di informare il mondo che il nostro Paese sa essere davvero ospitale; ha a cuore non solo il diritto di sciopero e di assemblea, ma anche l’interesse di chi viene in visita da noi a essere rispettato nella sua legittima aspettativa, il suo diritto a non vedere vanificato il proprio investimento sulla cultura e l’arte del nostro Paese.

Dopo di che, sul tema dell’assemblea sindacale c’è molto altro da dire, ma lo diremo nella sede opportuna, cioè in occasione della discussione sui disegni di legge sulla materia, che sono già all’esame delle Commissioni 1a e 11a; mi limito qui ad osservare che non sta scritto da nessuna parte che l’assemblea sindacale debba poter essere convocata in qualsiasi momento, prescindendosi totalmente dall’interesse contrapposto alla funzionalità dell’azienda, del servizio. Questo vale al di là dei servizi pubblici: così come le modalità di esercizio del diritto alle ferie devono essere contemperate, a norma dell’articolo 2109 del codice civile, con le esigenze organizzative dell’impresa, non c’è ragione per cui non lo debbano essere anche le modalità di esercizio del diritto all’assemblea sindacale.

Infine, richiamo quanto ha osservato molto opportunamente il senatore Martini nel suo intervento, richiamato anche nell’intervento del senatore Mazzoni e adesso in quello della senatrice Parente, circa il fatto che applicare a questa materia del conflitto sindacale nel settore dei servizi pubblici il paradigma della contrapposizione antagonistica “padrone-lavoratore”, come è stato fatto dai senatori Uras, Petraglia, Barozzino, Malan, Bertacco e Montevecchi, significa applicare quel paradigma totalmente a sproposito. In primo luogo perché, nel campo specifico, l’interesse del «padrone» privato semplicemente entra in gioco, dal momento che la legge non si applica ai siti, ai musei e alle pinacoteche di proprietà privata. Questo campo è stato delimitato in modo preciso dall’emendamento approvato alla Camera: viene quindi meno il conflitto tra salario e profitto cui quegli interventi hanno fatto riferimento. Ma soprattutto perché, in questa materia, quella dei servizi pubblici essenziali, più che in qualsiasi altra, è evidente come il considerare il diritto sindacale come unico criterio di valutazione di un provvedimento legislativo o amministrativo significa ignorare un diritto dei lavoratori stessi quando, invece che presentarsi in veste di prestatori di lavoro, si presentano in veste di utenti, di persone che usufruiscono di un servizio essenziale.

Applicare quel paradigma in questo modo significa non capire come il mondo oggi funziona, non capire che il diritto dei lavoratori dev’essere contemperato con quello degli utenti e dei consumatori, i quali sono per il 95 per cento lavoratori o ex lavoratori. Ignorare quel contemperamento significa privare i lavoratori stessi di loro diritti fondamentali, costituzionalmente rilevanti.

Concludo ricordando quello che disse Giuseppe Di Vittorio alla Costituente sul diritto di sciopero, che veniva istituito nel nostro ordinamento con l’articolo 40: «L’impronta con la quale il diritto di sciopero rinasce nella legislazione italiana dopo tanti anni di divieto e la solennità con la quale rinasce, il senso di misura e il senso di fiducia sono tali che possiamo augurarci che questo senso di misura e di fiducia presieda all’esercizio del diritto di sciopero negli anni futuri, che sia sempre presente a tutti la necessaria proporzione tra gli interessi in gioco».

Questa mi sembra la migliore risposta a chi ci sta accusando di calpestare o di limitare un principio costituzionale. (Applausi dal Gruppo PD).

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