MUTAMENTO DI MANSIONI E MOTIVO OGGETTIVO DI LICENZIAMENTO DOPO LA RIFORMA

È VERO CHE LA NUOVA DISCIPLINA DELLO JUS VARIANDI OFFRE AL GIUDICE L’OCCASIONE PER RAFFORZARE LA REGOLA DEL REPÈCHAGE IN MATERIA DI LICENZIAMENTO; MA IN ULTIMA ANALISI IL SOLO FILTRO DELLA SCELTA IMPRENDITORIALE È PUR SEMPRE COSTITUITO DAL SEVERANCE COST

Lettera pervenuta il 1° dicembre 2015, in riferimento alla mia scheda tecnica originata da una lettera precedenteSegue la mia risposta.

Buongiorno Professore, seguo con interesse la Sua newsletter e l’ultima mi offre lo spunto per chiederLe se può trattare brevemente in uno dei prossimi numeri, con la straordinaria chiarezza che La contraddistingue, il tema della relazione tra la nuova norma in materia di mutamento di mansioni e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Ai primi convegni cui ho partecipato e che hanno trattato l’argomento si sta facendo strada con forza l’idea – anche tra i giudici – che la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori sia (ancor più di prima) un obbligo che l’imprenditore ha prima di procedere al licenziamento per g.m.o., nel senso che prima di irrogare al dipendente il licenziamento deve essere verificata l’esistenza di una posizione inferiore a cui assegnarlo [ c.d. repêchagen.d.r.] anche se, per poterla ricoprire, il lavoratore necessita di formazione (mentre prima il repêchage non operava se una formazione – con relativi costi – era necessaria).
Addirittura c’è chi profila la necessità che, ai fini dell’applicazione dei criteri di correttezza e buona fede per identificare il soggetto da licenziare tra più lavoratori che sono fungibili (o lo sarebbero dopo la formazione!) e alla relativa valutazione di carichi di famiglia e anzianità, si debba avere riguardo anche ai dipendenti inquadrati in un livello inferiore rispetto a quello la cui posizione dovrebbe essere soppressa o risulta in esubero.
Mi paiono esiti forzati, per i quali una facoltà apparentemente volta a dare flessibilità all’impresa si tradurrebbe in un onere che complicherebbe enormemente l’identificazione del soggetto da licenziare in caso di necessità (oltretutto con aggravamento del contenzioso dati gli ampi margini di opinabilità che queste valutazioni già ora comportano). Parlo ovviamente da legale che assiste prevalentemente le aziende, ma che cerca anche di capire la ratio e lo scopo della norma per trarne le necessarie conseguenze, e che spesso ha a che fare con imprese straniere che fanno un’enorme fatica a capire i meccanismi così complicati.
E poi mi chiedo: come si potrebbe “procedimentalizzare” il tutto, in particolare l’ipotetica offerta delle mansioni inferiori rispetto al licenziamento? Se il lavoratore non accetta, lo si deve licenziare per ragioni disciplinari?
La ringrazio per gli eventuali spunti di riflessione e Le porgo i più cordiali saluti.
M. B.
Padova

In un libro di dodici anni or sono ho sostenuto l’incostituzionalità dell’orientamento giurisprudenziale (consolidatosi nella seconda metà degli anni ’90) secondo cui il giudice può annullare un licenziamento motivato con soppressione del posto se ravvisa la possibilità di utile spostamento del lavoratore a una diversa posizione in azienda: il c.d. repêchage. Mi sembra infatti evidente – e numerosi autorevoli giuslavoristi confermano – che una sentenza che imponga all’imprenditore di trasferire un dipendente da un posto a un altro contraddice il principio costituzionale della insindacabilità delle scelte organizzative dell’imprenditore.
La realtà è che la regola stessa del controllo giudiziale circa il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, come è normalmente applicata nei nostri tribunali, contraddice quel principio costituzionale: anche questo mi sono proposto di dimostrare nel libro citato sopra, dove ho sostenuto che la soluzione legislativa più logica, in questa materia, è affidare a un costo di licenziamento (il
severance cost teorizzato da Blanchard e Tirole in un loro saggio del 2004) la funzione di filtro delle scelte che comportano il licenziamento del dipendente: se la datrice di lavoro si attende dalla prosecuzione del rapporto una perdita superiore al severance cost, procede al licenziamento; se invece si attende una perdita inferiore, se ne astiene (salvo il caso di motivi illeciti, che spetta sempre al giudice accertare, anche sulla base di presunzioni). Nella riforma della materia del 2012, la c.d. legge Fornero, e in quella del 2015, c.d. Jobs Act, il legislatore ha in qualche modo fatto propria questa impostazione. Non del tutto, perché non ha soppresso la valutazione del giudice circa il giustificato motivo oggettivo di licenziamento; ma in larga parte sì, perché ha stabilito che, in tutti i casi in cui la decisione giudiziale sul licenziamento sia negativa in forza di una valutazione discrezionale del giudice circa la sufficiente gravità del motivo addotto dall’imprenditore, la condanna di quest’ultimo possa avere per oggetto soltanto un indennizzo e non la reintegrazione. Il che significa che, in ultima analisi, è pur sempre il severance cost a costituire il vero filtro della scelta dell’imprenditore di sciogliere il rapporto.
Questo ragionamento vale non solo in riferimento alla nuova disciplina della materia dettata dal decreto n. 23/2015, ma anche in riferimento a quella previgente, contenuta nella legge Fornero del 2012: tanto è vero che la maggior parte dei licenziamenti per motivo oggettivo disciplinati da quella legge si chiude con l’accordo transatttivo e il pagamento dell’indennizzo pattuito.
Dunque è ben vero che molti giudici hanno colto l’occasione offerta dalla riforma dello
jus variandi per rafforzare la regola del repêchage, come esposto dall’autore di questa lettera; ma è anche vero che, di fatto, anche là dove si applica la disciplina del 2012, il vero filtro delle scelte imprenditoriali ora è comunque il severance cost.    (p.i.)

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