CONTRATTAZIONE E RAPPRESENTANZA: LA RISPOSTA DEL GRUPPO “FRECCIAROSSA” AL MIO COMMENTO

DIBATTITO SULL’ASSETTO MIGLIORE DEI RAPPORTI E DELLA RIPARTIZIONE DI COMPETENZE TRA CONTRATTI DI DIVERSO LIVELLO, NONCHÉ SUI CRITERI DI DETERMINAZIONE DELLA RAPPRESENTATIVITÀ DELLE ASSOCIAZIONI SINDACALI, IN VISTA DELL’INTERVENTO PREANNUNCIATO DAL GOVERNO

Risposta, pervenuta il 15 gennaio 2016, dei nove giuslavoristi appartenenti al gruppo “Frecciarossa” alle osservazioni da me proposte sul loro progetto di riforma della materia della rappresentanza sindacale e della disciplina della contrattazione collettiva – Segue una mia replica.

Caro Pietro,

Ti ringraziamo per il rilievo che hai dato al nostro lavoro sul progetto di legge in materia di rappresentanza e contrattazione e delle interessanti osservazioni critiche.

Crediamo che il documento di accompagnamento del progetto illustri già alcune ragioni del nostro orientamento sui punti da Te toccati, dunque ci limitiamo qui ad alcune sintetiche osservazioni. Alle quali si può forse premettere che quella che Tu definisci “timidezza” (e prima ancora di valutare il merito dei punti nei quali ritieni di riscontrarla) può essere ricondotta all’esplicito intento di trovare sul progetto un’intesa tra giuristi che hanno sensibilità, esperienze, collocazioni culturali e professionali diverse, e il cui sforzo è stato proprio quello dell’incontro e confronto di soluzioni tecniche partendo talvolta da opzioni opposte. Ma non solo questo. Abbiamo inteso evitare soluzioni più radicali (certo più facili per il tecnico che operi in modo solipsistico), anche perché crediamo e speriamo che la mediazione porti in sé il valore aggiunto di soluzioni che siano non solo politicamente più praticabili, ma anche più efficaci nel momento della loro (eventuale) concreta attuazione.

Veniamo al merito, che si concentra principalmente sul tema delle regole della contrattazione collettiva, e in particolare del ruolo di contrattazione nazionale e aziendale. In questo ambito la Tua critica si muove in relazione a tre aspetti; a) non avere previsto che il contratto collettivo aziendale si possa sostituire integralmente a quello nazionale; b) avere stabilito che il contratto nazionale possa eventualmente porre limiti alle deroghe introdotte dai contratti aziendali; c) avere introdotto una “inderogabilità rafforzata” del contratto collettivo nazionale rispetto a quello decentrato. Quest’ultimo, infatti, potrebbe incontrare i limiti imposti dal ccnl mentre, nella deroga della legge, avrebbe un potere derogatorio privo di vincoli.

In primo luogo va rammentato che la nostra proposta tende a valorizzare il contenuto del Testo Unico del 2014 che non prevede la totale fungibilità tra contratto nazionale ed aziendale e stabilisce un meccanismo di coesistenza tra i due livelli, con possibili forme di coordinamento nell’ambito di un decentramento contrattuale regolato. La Tua diversa proposta verrebbe quindi a costituire una netta cesura con la volontà delle principali organizzazioni sindacali, delle imprese e dei lavoratori: essa costituirebbe una regolazione “imposta” dall’ordinamento statuale in una materia così delicata; regolazione che al contrario, a nostro parere, deve essere per quanto possibile rispettosa degli equilibri e della volontà delle parti sociali.

In considerazione, inoltre, della scarsa diffusione dei contratti collettivi di secondo livello (applicati in generale a circa il 30% delle aziende di maggiori dimensioni e con percentuali, in alcuni settori produttivi, nettamente inferiori), il Tuo progetto consentirebbe la fungibilità soltanto per le imprese più grandi, mentre un numero assai elevato di piccole e medie aziende ne rimarrebbero escluse.

La nostra proposta, comunque, prevede che, qualora il ccnl ponga limiti di materia o di deroga al livello aziendale ed essi non vengano rispettati, l’unico effetto è quello della mancata efficacia erga omnes del contratto collettivo decentrato. Con la conseguenza che l’eventuale violazione dei limiti potrebbe anche non escludere la facoltà del livello aziendale di derogare quello superiore, come affermato anche dalla giurisprudenza. Si esclude, quindi, ogni intervento di legge sull’ efficacia reale, ma pure obbligatoria, nei rapporti tra contratti di diverso livello. Il nostro progetto non intende, infatti, intervenire su questioni che attengono alla struttura della contrattazione collettiva la cui regolamentazione va lasciata, per intero, alle parti sociali.

Infine ci sembra impropria la assimilazione tra la derogabilità del CCNL da parte del contratto aziendale e il rapporto tra quest’ultimo e la legge. Nella ipotesi prevista dall’articolo 19 del nostro testo, la derogabilità rispetto alla legge non ha portata generale, perché i contratti collettivi possono operare nell’ambito di precisi “vincoli di scopo” (creare maggiore occupazione, migliorare la produttività del lavoro ecc.) e soltanto in relazione a materie tassativamente indicate (mutamento di mansioni, contratti di lavoro a termine ecc.), dunque per ipotesi che ha senso immaginare solo con riferimento al livello aziendale. Al contrario nei rapporti tra livelli contrattuali (nazionale ed aziendale) la derogabilità non ha le limitazioni sopra indicate e può riguardare tutte le materie e gli istituti, salvo i limiti che la stessa autonomia collettiva riterrà opportuno introdurre sulla base di libere scelte negoziali.

Si tratta, quindi, di situazioni assai diverse che non possono essere collocate sul medesimo piano.

Le tue osservazioni toccano poi la questione degli indici di rappresentatività.

In proposito critichi la proposta per il fatto che essa fa proprio il meccanismo di misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali (dei lavoratori) che combina il dato dei voti conseguiti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro, con quello dei lavoratori iscritti mediante delega per la trattenuta delle quote sindacali; la Tua proposta è quella di basarsi invece sul solo dato elettorale (e agendo invece sul collegamento tra rappresentanze e associazioni).

La ragione di tale critica, relativa alle difficoltà pratiche sino ad oggi incontrate nella raccolta del dato degli iscritti, è facilmente superabile proprio grazie alle previsioni della proposta di legge, le quali rendono obbligatoria per ogni datore di lavoro sia l’accettazione delle deleghe per le quote sindacali, sia la comunicazione del numero di iscritti con modalità che dovranno essere fissate dal Ministero del Lavoro (al quale Ministero, e non all’Inps, è affidato il compito di rilevare e trattare i dati sulla rappresentatività).

A parte questo aspetto pratico, ci pare che la Tua proposta (rilevare il solo dato elettorale) si scontri con una consolidata tradizione e un radicato consenso dei principali soggetti del sistema delle relazioni sindacali che, come si è precisato, si ritiene utile valorizzare per quanto possibile in qualsiasi disciplina di legge di temi così complessi (evitando atteggiamenti ingegneristici di costruzione a tavolino di modelli astratti, lontani dalla concreta esperienza messa in campo dal sistema).

Ma non basta, perché vi sono anche alcuni importanti dati formali e sostanziali di cui il regolatore ha il dovere di tener conto:

– sul piano formale non si può ignorare che l’art. 39 della Costituzione (norma che la nostra proposta non mira a modificare) toccando il tema della rappresentatività valorizza proprio il dato associativo; l’ordinamento, poi, vi ha opportunamente affiancato quello elettorale nel Testo unico su lavoro pubblico, il quale sembra aver dato buona prova, sotto questo profilo, nel dare emersione alle diverse legittime concezioni della rappresentanza sindacale e del rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori;

– ancora più rilevante, tuttavia, ci pare l’osservazione sostanziale per cui vi sono molte imprese (e addirittura interi settori produttivi) dove l’esperienza delle rappresentanze elettive non ha attecchito o è di fatto difficile, se non impossibile, cosa che vale soprattutto per le imprese di minore dimensione: in tale contesto, basare il rilievo della rappresentatività dei sindacati sul solo voto elettorale significherebbe di fatto far prevalere nel gioco della rappresentanza (anche formalmente) gli interessi dei soli lavoratori delle medie e grandi imprese, rischiando così di accentuare uno di quei “dualismi” sui quali Tu stesso hai tante volte puntato le tue critiche. È noto, per altro, che il criterio misto deleghe/voti è il più diffuso (di recente è stato accolto nell’accordo del settore delle Cooperative e integrato, con altri più discutibili criteri, nell’accordo Confcommercio) ed è l’unico che può vantare una sperimentazione normativa positiva (nel settore pubblico).

Un caro saluto.

Bruno Caruso, Raffaele De Luca Tamajo, Riccardo Del Punta, Marco Marazza, Arturo Maresca, Adalberto Perulli, Roberto Romei, Franco Scarpelli, Valerio Speziale

 

LA MIA RISPOSTA

Ringrazio a mia volta il gruppo dei giuslavoristi “Frecciarossa” per l’attenzione dedicata al mio commento, e a mia volta propongo loro e ai nostri lettori le brevi osservazioni che seguono, le quali ovviamente non hanno alcuna pretesa di chiudere il discorso, anzi semmai di aprirlo ulteriormente, in preparazione delle scelte che il Governo compirà nelle prossime settimane.

1. Un primo punto di dissenso riguarda la scelta del gruppo “Frecciarossa” di rimanere ancorato al modello che si esprime negli accordi interconfederali del 2011 e 2013, riuniti nel “testo unico” del gennaio 2014, che sostanzialmente affidano al contratto collettivo nazionale il compito di determinare una parte rilevante della dinamica salariale, in misura uniforme per tutto il territorio nazionale e con efficacia inderogabile per l’intero settore. Osservo in proposito che: a) la questione posta dal Governo alle Parti sociali nel giugno scorso (e, prima ancora, posta dai vertici della UE e della BCE al nostro Governo) sta proprio nella necessità di superare quel modello, puntando a un assetto nel quale gli aumenti salariali rispetto a un minimo assoluto fissato centralmente siano decisi al livello dell’azienda nella quale si realizza la maggiore produttività del lavoro; b) la Confindustria, che pure è anch’essa firmataria degli accordi del 2011, 2013 e 2014, ha manifestato il proprio intendimento di accogliere la sollecitazione proveniente dal Governo e di modellare di conseguenza i nuovi contratti collettivi di settore; e Federmeccanica ha compiuto l’esercizio progettuale di delineare una soluzione coerente con quella sollecitazione; c) non si tratta dunque di progettare “forzature legislative” ai danni dell’assetto contrattuale voluto dalle parti, bensì di cooperare al necessario delinearsi di un nuovo assetto generale, in difetto del quale la prospettiva è quella della frammentazione del sistema delle relazioni sindacali (la vicenda Fiat e quello che sta accadendo ai tavoli dei rinnovi dei contratti nazionali insegnano).

2. Un secondo punto di dissenso riguarda le conseguenze di un regime nel quale il contratto aziendale potesse derogare senza limiti e quindi addirittura sostituirsi al contratto nazionale (come accade in Germania): il gruppo “Frecciarossa” sostiene che in realtà soltanto le imprese di grandi dimensioni potrebbero avvalersene, mentre il restante 70 per cento dei lavoratori italiani, cioè la parte non coperta dalla contrattazione aziendale, ne resterebbe esclusa. Rispondo che: a) derogabilità del ccnl significa che esso rimane comunque come disciplina applicabile per default, in tutti i casi in cui manchi una disciplina contrattuale stipulata a un livello più vicino al luogo di lavoro; b) l’attivazione di voci retributive e benefici di welfare aziendale legati alla maggiore produttività che nell’impresa stessa concretamente si determina può essere non solo incentivata sul piano fiscale, ma anche resa esigibile da accordi nazionali (in questa direzione si muove, per esempio, la proposta di Federmeccanica; un’altra proposta molto interessante che muoveva in questa direzione venne elaborata e pubblicata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel 2008); c) il sistema attuale, caratterizzato da una dinamica degli standard retributivi determinata centralmente, potrebbe (forse) conservare un significato apprezzabile se coerentemente si imponesse davvero la chiusura delle aziende incapaci di reggere quello standard e la migrazione dei loro dipendenti verso le aziende più forti; noi, invece, per un verso teniamo in vita con la respirazione artificiale imprese vistosamente incapaci di superare l’asticella, per altro verso deliberatamente consentiamo che metà dell’economia del Mezzogiorno operi in deroga a quegli standard, come economia sommersa, così condannando questa parte del Paese a una condizione di arretratezza e di sottosviluppo. Su questo punto richiamo il mio scritto Contrattazione: le quattro ragioni per una svolta.

3. I miei interlocutori fanno presente che, nel loro progetto, non è prevista l’invalidità del contratto aziendale stipulato in deroga rispetto a quello nazionale, bensì soltanto la sua non applicabilità erga omnes: in altre parole, l’imprenditore sarebbe libero, per esempio, di negoziare in azienda una struttura retributiva nella quale la parte fissa sia ridotta rispetto a quanto previsto dal ccnl, e la parte variabile più ampia; ma in questo caso il contratto aziendale si applicherebbe solo agli iscritti ai sindacati stipulanti e non a tutti i dipendenti. Questa, però, mi sembra una prospettiva davvero poco realistica. Per fare un esempio: pensano davvero i giuslavoristi del gruppo “Frecciarossa” che Marchionne a Pomigliano, e un quarto di secolo prima la Nissan a Sunderland (1), avrebbero accettato di basare i loro piani industriali su di un contratto che qualsiasi dipendente non iscritto ai sindacati stipulanti avrebbe potuto in seguito contestare rivendicando l’applicazione di diversi terms and conditions?

4. Sono d’accordo sulla distinzione netta tra il tema della derogabilità del contratto collettivo nazionale e quello della derogabilità della legge. Dissento però dal progetto del gruppo “Frecciarossa” là dove esso prevede che la legge attribuisca al contratto nazionale la facoltà di stabilire i limiti della propria derogabilità ai livelli inferiori. A mio avviso è opportuno che l’ordinamento statale ponga la regola opposta, ovvero quella per cui il contratto aziendale, se stipulato con una coalizione sindacale dotata dei requisiti opportunamente stabiliti, prevale su quello nazionale. Questo non costituirebbe una forzatura rispetto all’autonomia collettiva di sindacati e imprenditori, dal momento che questi resterebbero liberi di esercitare o no, al livello aziendale, lo spazio di autonomia attribuiti loro dalla legge. Come, del resto, è già accaduto in riferimento agli spazi di autonomia che sono stati attribuiti loro dall’articolo 8 del d.-l. n. 138/2011. 

5. In tema di misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali stipulanti, la mia perplessità non riguarda soltanto la difficoltà di rilevazione del dato sul tesseramento (difficoltà che, temo, si manifesterebbe ancor di più a seguito dell’affidamento al ministero della funzione attualmente affidata all’Inps), ma anche il fatto che non si può attribuire per legge lo stesso peso a una tessera quale quella di Cgil, Cisl e Uil, che costa intorno all’uno per cento della retribuzione-base di un impiegato o operaio,  e una tessera che potrebbe domani essere distribuita nummo uno da un sindacato diverso, proprio al fine di guadagnare peso nella rilevazione. L’importanza della questione, comunque, potrebbe essere ridimensionata in considerazione del fatto che, in tutti i casi in cui sono stati rilevati entrambi i dati – quello elettorale e quello associativo -, si è registrata anche una sostanziale congruenza tra di essi.  

Detto questo, la questione è ovviamente apertissima. Dibattiti come questo non possono che giovare alla ricerca della soluzione migliore.    (p.i.)

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(1) Per una descrizione della vicenda dello stabilimento Nissan di Sunderland rinvio al secondo capitolo del mio libro A che cosa serve il sindacato.

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