LA SFIDA DEI NUOVI SERVIZI PER IL MERCATO DEL LAVORO

I VANTAGGI E I RISCHI DELL’ANTICIPAZIONE, MEDIANTE L’ANPAL, DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE CHE RICENTRALIZZA LA GOVERNANCE DELLE POLITICHE ATTIVE, IL NUOVO RUOLO DELLA RETE DEI CENTRI PER L’IMPIEGO, LA SCOMMESSA SULLA COOPERAZIONE TRA SERVIZIO PUBBLICO E AGENZIE PRIVATE SPECIALIZZATE

Intervista a cura di Maria Laura Braccini, destinata a essere inserita nella sua tesi di laurea in diritto del lavoro sui nuovi servizi per l’impiego, febbraio 2016 – In argomento v. anche I centri per l’impiego sapranno attivare il contratto di ricollocazione?.

Qual è secondo Lei la filosofia che ha guidato e guida il Jobs Act, con particolare riferimento al D.Lgs 150/2015? In altri termini, qual è l’obiettivo che si propone? Qual è il disegno di competenze che traccia nei confronti dei Servizi Pubblici per il lavoro?
Innanzitutto vi è l’affermazione del principio di cooperazione tra servizio pubblico e operatori privati specializzati nel campo dei servizi del lavoro e il lancio del contratto di ricollocazione. Ogni centro per l’impiego può e deve essere il luogo dove chiunque cerchi un lavoro trova l’informazione sui programmi di assistenza e, soprattutto, sui servizi di orientamento, formazione e riqualificazione disponibili, e magari anche qualche informazione su aziende che cercano. L’immagine è quella di una grande sala con molti videoterminali disponibili per il pubblico, programmati per essere consultati e utilizzati facilmente; e con impiegati che aiutano i più sprovveduti ad usarli e mettono in contatto le persone con gli operatori specializzati: quello che nei Paesi anglosassoni chiamano lo one stop shop. Una sorta di indispensabile cerniera tra l’utente e il servizio vero e proprio di collocamento, o di assistenza intensiva nella riqualificazione e ricerca, che deve essere svolto da chi lo sa fare, un Centro per l’Impiego che sappia e voglia svolgere il ruolo di garante e al tempo stesso il ruolo di controllore, che in quel contratto gli compete, sui comportamenti delle altre due parti: l’agenzia e la persona assistita.

Perché secondo Lei si sta riaffrontando il dibattito sulla riforma del titolo V per il probabile ritorno delle competenze in materia di politiche attive a livello centrale? Si attesta il fallimento delle politiche regionali e locali?
La scelta nasce dal bilancio pesantemente negativo di un quindicennio di competenza regionale esclusiva in questo campo. Ma non si deve pensare che l’efficienza del servizio dipenda dalla sua centralizzazione piuttosto che dal suo decentramento: l’efficienza dipende dalla qualità e quantità delle risorse, ma anche dalla responsabilizzazione dei dirigenti per i risultati, che significa rischiare davvero di perdere l’incarico se i risultati non vengono. E dalla conseguente riappropriazione ed esercizio da parte loro delle prerogative manageriali nell’organizzazione e direzione della struttura.
Il Governo ha già stipulato alcune prime convenzioni per riassegnare ad altrettante Regioni la competenza in questo campo; ma senza linee-guida e senza obiettivi precisi e misurabili. A che cosa serve avere ri-accentrato le competenze, se poi le si ri-decentra senza un progetto organico di rilancio?

Lei vede dei potenziali rischi nell’affrontare una riforma del lavoro che ancora risente della mancanza di chiarezza sul tema delle competenze sulle politiche attive? In altri termini, come si ovvia al rischio di avere un Paese a due velocità, con Regioni molto virtuose e altre che faticano a stare al passo?
Al nord nel sistema dei Centri per l’Impiego qualche cosa funziona: per esempio a Bolzano e Trento, per alcuni aspetti anche a Milano, in alcuni centri dell’Emilia e del Veneto; da due anni si è messo in moto qualche cosa di importante anche nel Lazio; ma, certo, nella grande maggioranza dei casi si può parlare di un servizio di collocamento pubblico di fatto inesistente. La situazione complessiva è molto grave. La possibilità di rimettere in piedi il sistema dipende in gran parte dalla visione strategica del futuro vertice della nuova Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, l’ANPAL, e dalla sua capacità di realizzarla. Certo, non sono di buon auspicio le prime convenzioni che il ministero del Lavoro sta stipulando con alcune Regioni, che lasciano totalmente le cose come stanno non vincolando la delega ad alcun obiettivo preciso, specifico e misurabile di efficienza ed efficacia del servizio.

Nell’ottica della riforma dei Servizi prevista dal Jobs Act, quale ruolo vede nei Centri per l’Impiego? Li vede inseriti in un modello di tipo competitivo con le APL oppure li vede come entità pubblica che funge da “gate” di ingresso per l’utenza, la sua profilazione e poi il rimando al privato?
Nella prospettiva di una stretta e generalizzata cooperazione tra servizi pubblici e privati al mercato del lavoro, i Centri per l’Impiego dovranno svolgere una funzione indispensabile di one stop shop, ovvero di punto di smistamento e “cerniera” tra utenti e operatori dei servizi, nonché di informazione e controllo sui comportamenti degli stessi soggetti; oggi questa infrastruttura è per lo più abbandonata a se stessa: con l’eliminazione dei consigli e giunte provinciali, da cui fino a ieri dipendeva, essa non ha più alcuna direzione. E la cooperazione pubblico-privato non è cosa semplicissima da attivare: su questo terreno è la Lombardia che ha accumulato maggiore esperienza, anche se su iniziative meno ambiziose rispetto al contratto di ricollocazione. Nel decreto n. 150/2015, comunque, il principio della cooperazione tra servizio pubblico e operatori privati accreditati come asse portante del nuovo sistema è enunciato molto chiaramente.

Lo strumento dell’assegno di ricollocazione è basato sul risultato ed è modulato sulla base del profiling dell’utente. Quali meccanismi sono stati previsti o si  possono prevedere al fine di evitare fenomeni di “creaming” cioè di scrematura dell’utenza, per evitare che si vada a lavorare prevalentemente sui profili maggiormente ricollocabili? Sarebbe secondo Lei necessario prevedere “quote” di tipologia di utenza da affidare a ciascuna agenzia?
Il contratto di ricollocazione se non produce il risultato non costa all’Erario, perché in questo caso il voucher non può essere incassato dall’operatore ed il suo importo è direttamente proporzionato alla difficoltà della ricollocazione. Se invece produce il risultato, si finanzia da solo: che costi allo Stato duemila o quattromila euro, a seconda della difficoltà della ricollocazione nel caso specifico, sarà sempre una somma inferiore rispetto a quanto complessivamente lo Stato risparmia in trattamento di disoccupazione e guadagna in tasse e contributi attivati dal nuovo contratto di lavoro. Per questo dico che la polemica sul finanziamento dei contratti di ricollocazione è fuori luogo.

È noto come i Servizi Pubblici per l’Impiego (seppur in maniera non  omogenea sul territorio nazionale) trascurino in gran parte i Servizi verso la domanda (datori di lavoro), a fronte di un forte impegno sul lato offerta.  Sono stati previsti secondo Lei idonei meccanismi di fronteggiamento di tale disparità nel dispositivo normativo del Job Act? Oppure tale funzione è demandata del tutto ai privati?
I Centri per l’Impiego pubblici, come già detto, hanno funzione di One Stop Shop per i disoccupati, cioè quella di cerniera tra questi ultimi e gli operatori specializzati accreditati, capaci di fornire i servizi efficaci attraverso il contratto di ricollocazione. I servizi verso la domanda sono perciò essenzialmente di competenza di questi ultimi.

Il disegno dei servizi essenziali tratteggiato dal D.Lgs 150/15 è piuttosto corposo e implica sicuramente un appesantimento delle funzioni e dei servizi da erogarsi da parte dei CPI. Ritiene che il livello di servizio delineato possa essere assolto dai Servizi Pubblici con le risorse attuali? Oppure che conduca verso una lievitazione della spesa pubblica del comparto?
La quantificazione del fabbisogno per i servizi al mercato del lavoro proposta da alcuni critici verso la riforma mostra come il problema sia facilmente risolvibile sul piano finanziario: con un sistema di pagamento a risultato, qual è quello previsto dal d.lgs. n. 150/2015 in riferimento al contratto di ricollocazione, il costo del servizio erogato sarebbe ampiamente coperto dal risparmio sui trattamenti di disoccupazione e dal gettito contributivo e fiscale prodotto dai nuovi rapporti di lavoro attivati. D’altra parte, investire su di una struttura pubblica che è per lo più del tutto incapace di svolgere in proprio il servizio utile per la ricollocazione sarebbe come versare acqua in un secchio bucato. Il problema, dunque, non è di natura finanziaria, ma di natura amministrativa e organizzativa. Non dobbiamo moltiplicare gli organici dei Centri per l’Impiego pubblici, ma metterli in condizione di svolgere la funzione dello One Stop Shop per i disoccupati, cioè quella di cerniera tra questi ultimi e gli operatori specializzati accreditati, capaci di fornire i servizi efficaci attraverso il contratto di ricollocazione. Per questo occorre un piano credibile di riorganizzazione e rilancio della rete di questi terminali territoriali, che oggi sono allo sbando. E va onestamente riconosciuto che il piano avrebbe dovuto essere pronto prima del varo del decreto n. 150/2015: qui si registra un ritardo, che va urgentemente superato.

La rete dei diversi attori del MDL diventa prerequisito al fine di cercare di garantire i livelli di servizio richiesti. Come si possono secondo lei integrare e attivare le reti degli attori del Mdl quali le APL, le Università, le scuole, le Camere di Commercio, le organizzazioni sindacali, le organizzazioni datoriali ecc…? Vede in loro dei ruoli trasversali su tutti i target oppure specifici verso alcuni?
È un coordinamento tra soggetti diversi; su questo terreno non c’è dubbio che siamo in ritardo. E qui la legge non basta: occorre saperlo e volerlo fare per davvero. La nuova Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, che dovrà coordinare il sistema dei servizi per l’impiego, sarà operativa presumibilmente soltanto a 2016 inoltrato. L’interpellanza presentata al Ministro del Lavoro il 3 novembre 2015 è mirata proprio ad attirare l’attenzione del Governo sulla necessità di un impegno maggiore per la riorganizzazione e il rilancio della rete dei servizi per l’impiego. Desta qualche preoccupazione la notizia della stipulazione tra il Governo e le Regioni Toscana ed Emilia Romagna di convenzioni nelle quali la gestione della rete è affidata alle Regioni stesse, ma senza alcuna fissazione di obiettivi precisi, specifici e misurabili di copertura degli organici necessari, efficienza ed efficacia dell’attività dei CpI. Non si può dimenticare che già oggi, a norma del decreto legislativo n. 150/2015,  tutte le persone disoccupate che fruiscono del trattamento NASpI da più di quattro mesi avrebbero diritto al servizio di assistenza intensiva reso dall’operatore accreditato da esse stesse scelto, retribuito con l’assegno di ricollocazione: occorre operare con grande urgenza perché questo diritto sia effettivamente esercitabile (attualmente non lo è).  Sarà anche questo materia del dibattito in Senato, quando il Governo verrà a rispondere all’interpellanza.

In molti paesi europei i Servizi Pubblici per l’Impiego detengono competenze in materia sia di politiche attive che passive, fungendo da centro unico di gestione dell’utenza, legando così in maniera stringente i due ambiti e permettendo una forte condizionalità fra politiche passive e politiche attive. Nel Jobs Act è stato rafforzato il ruolo dell’Inps, quale Ente competente in materia di politiche passive, con meccanismi di comunicazione fra lo stesso e i Servizi per il lavoro erogatori delle politiche attive. Lei vede dei potenziali rischi di debolezza del sistema in questo assetto? In altre parole, viene fattivamente garantita la condizionalità?
I rischi ci sono, ma non dipendono tanto dall’impianto della nuova normativa, quanto dal difetto di know-how, di capacità di implementazione delle strutture amministrative di cui disponiamo.

Molti Paesi hanno dei sistemi di monitoraggio e valutazione delle performance piuttosto articolati e stringenti. Cosa ne pensa del sistema di monitoraggio di cui all’art. 10 (ISfol) e 16 (Anpal)  del Job Act? E’ sufficiente a stimolare il raggiungimento dei risultati oppure dovrebbero essere inseriti ulteriori meccanismi di condizionalità/premialità? Se si, quali?
La rilevazione dei dati e la valutazione circa l’efficacia di ciascuna misura di politica attiva sono previste nel cosiddetto “decreto Anpal”, che attribuisce all’Isfol il compito del monitoraggio. Ma, come dicevo prima, qui la legge non basta: occorre acquisire un know-how che oggi ci manca.

L’Anpal coordinerà anche gli enti di formazione, la cui efficienza ed efficacia sono state fin qui discutibili. Cambieranno anche qui molte cose, se davvero si incomincerà – come il decreto prevede – a rilevare in modo sistematico il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Questo deve consentire di realizzare una mappa di quel che funziona e quel che non funziona nel nostro sistema della formazione professionale. E di riqualificare drasticamente la spesa pubblica in questo settore. Certo, per farlo occorre essere disposti a mettere davvero, e non soltanto in teoria, l’intero sistema fortemente sotto stress.

Sempre a livello di monitoraggio dei risultati, lei vede opportuno un livello di monitoraggio stringente e legato alla performance quale quello lombardo, dove anche parte delle risorse finanziarie vengono redistribuite secondo livelli di premialità e di conseguimento di specifici obiettivi? È applicabile secondo lei in modo uniforme nel nostro paese?
Non mi pare che il sistema lombardo si caratterizzi per un monitoraggio stringente dei risultati, almeno per quel che riguarda i servizi di formazione professionale e quelli di orientamento scolastico e professionale. Dall’esperienza della Dote Unica Lavoro, invece credo che l’intero Paese possa trarre materiali utili e indicazioni utili.

Molti Paesi europei raggiungono livelli di performance sicuramente più elevati del nostro, anche a fronte di un impegno finanziario complessivo (espresso anche in termini di risorse umane) molto più elevato. La riforma attuale non prevede nuovi o maggiori investimenti nel settore, ma solo il potenziamento del ruolo dei privati remunerati prevalentemente a risultato. Pensa che sia sufficiente a garantire il successo del riassetto organizzativo? Se no, quali ulteriori meccanismi dovrebbero essere introdotti?
La realtà è che noi oggi spendiamo – malissimo – più di 20 miliardi l’anno in politiche passive di sostegno del reddito di persone che hanno perso il lavoro, slegate da qualsiasi politica attiva mirata alla ricollocazione. Se fossimo capaci di operare l’indispensabile collegamento tra politiche passive e attive, queste ultime si ripagherebbero da sé con il risparmio che ne deriverebbe sulla spesa per i sussidi erogati. Il problema dunque, come si è già detto, non è di natura finanziaria, ma di natura amministrativa e organizzativa. Non dobbiamo moltiplicare gli organici dei Centri per l’Impiego pubblici, ma metterli in condizione di svolgere la funzione – che sono in grado di svolgere – dello One Stop Shop per i disoccupati.

Se lei potesse cambiare qualcosa nell’assetto organizzativo tracciato dal Jobs Act, cosa cambierebbe o implementerebbe?
Il rischio vero che intravedo è che venga a mancare un progetto operativo nazionale per la riorganizzazione, il potenziamento, la riqualificazione della rete nazionale dei Centri per l’Impiego, che oggi versano in uno stato di abbandono. Ben venga la disponibilità delle Regioni più capaci, su questo terreno, anche se i Centri per l’Impiego oggi stanno malissimo anche in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Se la disponibilità di queste Regioni non è incanalata nell’alveo di un vero e proprio “piano industriale” unitario che miri a voltar pagina rispetto a sei decenni di inefficienza diffusa e radicata, rischiamo che le cose non migliorino affatto, neanche dove le cose vanno un po’ meglio della media nazionale. Occorrerebbe innanzitutto una ricognizione ben fatta dello stato attuale dei Centri per l’Impiego e della rete di società controllate dalle Province, indispensabile per individuare e tagliare in modo rigoroso gli sprechi, che si annidano soprattutto in queste seconde, ma al tempo stesso di individuare le carenze di personale e di risorse. Su questa base si potrà disegnare il necessario piano di investimento per il rilancio di questa funzione pubblica essenziale. La fase dell’attuazione delle misure più difficili, quelle appunto relative ai servizi per l’impiego, non è ancora incominciata: su quella è presto per fare bilanci.

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