QUALI PROTEZIONI PER I LAVORATORI AUTONOMI

PERCHÉ I LIBERI PROFESSIONISTI NON POSSONO RIVENDICARE STANDARD MINIMI DI RETRIBUZIONE E DEVONO COSTRUIRE LA PROPRIA SICUREZZA ECONOMICA E PROFESSIONALE AL DI FUORI DEL RAPPPORTO CON IL CLIENTE

Lettera pervenuta il 16 febbraio 2016 – Segue la mia risposta.

Caro Ichino, mi rivolgo a te come mio rappresentante in Parlamento ma anche come Collega avvocato. Il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Moscherin, ha recentemente illustrato un progetto di legge tendente a ripristinare tariffe minime per le nostre prestazioni professionali, in considerazione del “dato dell’articolo 36 della Costituzione, che riconosce il diritto del lavoratore all’equa retribuzione” e della “legislazione attualmente vigente in materia di equo compenso e di clausole abusive”. Mi piacerebbe che tu facessi tua questa iniziativa legislativa, o almeno prendessi pubblicamente posizione a suo sostegno, per arginare lo svilimento della nostra professione conseguente all’imposizione delle famigerate convenzioni tariffarie da parte delle grandi imprese. Possiamo contarci? Cordialmente
Avvocato L. P.

Ahimè no, per più di un motivo. Innanzitutto perché l’articolo 36 della Costituzione, per giurisprudenza costante della Corte costituzionale, non si applica al lavoro autonomo. In secondo luogo perché l’abolizione delle tariffe stabilite dagli Ordini dei liberi professionisti costituisce adempimento di un obbligo imposto dall’ordinamento europeo, nel quale questi sono considerati – ai fini della disciplina della concorrenza – come imprese. In secondo luogo perché, quand’anche si potesse prescindere dall’ordinamento europeo, occorrerebbe spiegare quale sia la distorsione del mercato delle prestazioni professionali alla quale le tariffe minime e massime dovrebbero porre rimedio: se la distorsione non c’è, fissare uno standard retributivo minimo o è inutile, perché lo standard corrisponde al punto di equilibrio spontaneo tra domanda e offerta del servizio o addirittura si pone al di sotto di esso, oppure è dannoso, perché lo standard si colloca al di sopra del punto di equilibrio, generando una riduzione indebita della domanda. Qualcuno obietta che le tariffe imposte ai liberi professionisti dal libero mercato sono incompatibili con la buona qualità del servizio; ma anche se così fosse vorrebbe dire che quella migliore qualità destinata a perdersi costa più di quel che vale per i clienti. Per altro verso, l’assenza di standard minimi non impedisce affatto che i professionisti migliori chiedano onorari più alti, facendo valere la migliore qualità delle loro prestazioni. Il lavoratore autonomo si distingue tipicamente da quello dipendente proprio perché non “dipende” da un unico committente, ma sta quotidianamente nel mercato, lo conosce (cioè non soffre di asimmetrie informative rispetto al cliente: semmai, al contrario, è quest’ultimo che ne soffre nel rapporto con il professionista) ed è in grado di trarre beneficio dalla concorrenza tra i propri clienti attuali e potenziali: è dalla pluralità di questi che il professionista tipicamente trae la propria forza contrattuale ed è su di essa che – a  differenza di quanto tipicamente accade al lavoratore dipendente – si costruisce la sua sicurezza economica e professionale. La protezione che l’ordinamento statale può e deve offrire al lavoratore autonomo deve invece consistere principalmente nell’agevolazione dell’avvio dell’attività sul piano fiscale e nella predisposizione di quelle assicurazioni (pensionistica e contro le malattie più gravi) che, senza un intervento legislativo e una gestione di tipo universalistico, funzionerebbero peggio: queste sono alcune delle materie di un disegno di legge che il Governo ha presentato nei giorni scorsi al Senato.     (p.i.)

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