QUANDO LA LEGITTIMA DIFESA DELLA SOCIETÀ CIVILE DIVENTA FEROCE

PERCHÉ LA BATTAGLIA CONTRO L’ERGASTOLO OSTATIVO ABBIA SUCCESSO È NECESSARIO INDICARE IN CONCRETO DOVE E PERCHÉ LA MISURA È INCONGRUA RISPETTO ALL’ESIGENZA DI LEGITTIMA DIFESA CONTRO LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, OPPURE QUANDO E COME QUESTA ESIGENZA È DA TEMPO VENUTA MENO DEL TUTTO

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 15 marzo 2016 – In argomento v. anche lo scambio di lettere con i detenuti delle carceri di Padova e di Parma, tra l’ottobre 2015 e il febbraio 2016, agevolmente reperibili nella sezione Giustizia di questo sito
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Dopo il libro del magistrato Elvio Fassone, Fine pena: ora, recensito su queste pagine da Corrado Stajano a fine gennaio, sul tema dell’ergastolo ostativo ne esce ora un altro, questa volta scritto da un condannato a quella pena, Carmelo Musumeci, insieme al costituzionalista Andrea Pugiotto (Gli ergastolani senza scampo, Editoriale Scientifica, 2016, pp. 216, € 16.40). La parte scritta dall’ergastolano consiste nella descrizione esistenziale di un giorno di pena, minuto per minuto, in cinque capitoli: alba, mattino, pomeriggio, sera, notte. Di un solo giorno, perché ne basta uno per dar conto degli altri diecimila precedenti o successivi. Con una avvertenza iniziale che dice tutto: chi è all’ergastolo ostativo può pensare soltanto al passato o al presente; non al futuro, perché per lui non c’è un futuro che non sia identico al presente. Nella seconda parte, Andrea Pugiotto illustra l’istituto giuridico dell’ergastolo ostativo, ne disseziona con grande finezza la ratio e ne spiega i profili di contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, a norma del quale la pena non può essere disumana e deve tendere alla rieducazione del condannato. Si coniuga così per la prima volta, che io sappia, e molto efficacemente, l’opera dello studioso che sta fuori del sistema penitenziario con la testimonianza personale di chi è dentro, l'”ergastolano senza scampo”.

Chi lo ha incontrato sa che, dopo un quarto di secolo di carcere duro, Carmelo Musumeci è ora una persona colta, pienamente recuperata alla convivenza civile, il cui destino di non uscire mai più di prigione stride violentemente con quanto detta la Costituzione. Anche in questo caso, come nel racconto di Fassone, siamo di fronte al pieno raggiungimento dell’obiettivo posto dalla Costituzione: il recupero del condannato. E anche qui, se la pena consegue questo obiettivo, essa non può al tempo stesso recidere ferocemente ogni speranza di ricucitura del rapporto tra il condannato stesso e i suoi simili che hanno la ventura di essere rimasti “fuori”. Tra i due racconti c’è però una differenza: mentre nel libro di Fassone la narrazione parte dall’inizio della vicenda, cioè dai crimini per i quali il magistrato ha irrogato l’ergastolo, conducendo il lettore lungo il percorso della conversione del condannato, il racconto di Musumeci sulla prima parte della vicenda tace. E invece, almeno in un libro come questo, darne conto è indispensabile.

Parlarne è indispensabile perché significa andare al nocciolo della vicenda, a quella rinascita della persona che segna il raggiungimento di entrambe le finalità della pena previste dalla Costituzione: il recupero del reo ai valori della convivenza civile e la protezione di altre persone contro il ripetersi del suo comportamento criminale. Certo, residua una terza finalità della pena: la deterrenza, cioè il disincentivo efficace e proporzionato contro i possibili comportamenti criminali di altri individui. Ma è evidente l’impossibilità logica che l’esecuzione di una pena resti immutabile nel suo contenuto e nel suo rigore quando ben due delle sue tre funzioni siano state pienamente adempiute. Dunque, per l’efficacia della giusta battaglia di Carmelo Musumeci e di Andrea Pugiotto in difesa del “diritto a un futuro” dell’ergastolano redento, è essenziale dar conto non soltanto del suo tempo presente, ma anche del suo passato: precisamente dar conto di come nel corso dell’esecuzione della pena si è prodotta la sua redenzione. Anche perché il darne conto comporta il riconoscimento – necessario affinché la battaglia sia vincente – di una funzione positiva che la pena ha svolto, almeno in quella fase passata.

Parlarne è indispensabile anche perché non si può dimenticare che una parte della durezza della pena – la parte prevista dal tristemente famoso articolo 41-bis della legge penitenziaria – non ha una funzione punitiva, ma costituisce una misura di sicurezza: quando a essa ci si oppone occorre dunque sempre spiegare quando e come sia venuta meno l’esigenza di sicurezza per la quale quella misura è stata adottata. Quando il detenuto in regime di 41-bis denuncia la lastra di vetro che impedisce a sua moglie e ai figli di accarezzarlo, il pensiero non può non andare ad altri coniugi e altri figli, ai quali accarezzare il proprio congiunto è impedito da una lastra di marmo: il 41-bis è lì per evitare in modo efficace che altre lastre di marmo si aggiungano, a separare altre persone dal mondo a cui hanno appartenuto. Non si può dimenticare che alla durezza di queste misure si è arrivati negli anni ’80 per interrompere la serie tragica degli assassini compiuti dalle Brigate Rosse e in un secondo tempo quella degli assassini compiuti dalle organizzazioni mafiose.

Insomma: Carmelo Musumeci e andrea Pugiotto hanno pienamente ragione quando ci ricordano che nella maggior parte dei 700 casi in cui il 41-bis oggi si applica, per il modo e il tempo in cui si applica, quel regime è con tutta evidenza incongruo rispetto all’esigenza di sicurezza che dovrebbe giustificarlo. Ai molti, gravi eccessi e colpevoli inerzie nell’esecuzione della pena opporsi è sacrosanto. Ma perché la battaglia sia vincente, essa non può essere indiscriminata. È indispensabile spiegare dove, come e perché si tratta di eccessi e di inerzie: cioè dove e come la misura è incongrua rispetto all’esigenza di legittima difesa della società civile, indicare il tempo e il modo in cui questa esigenza – come nel caso di Carmelo Musumeci è accaduto da molti anni – è venuta meno del tutto. Altrimenti prevarranno ancora a lungo i fautori del “chiuderli in cella e gettare la chiave”.

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