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DIALOGO CON FERRUCCIO DE BORTOLI SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE

“L’EVENTUALE AZZERAMENTO DELLA RIFORMA APRIRÀ UNA SITUAZIONE INSOSTENIBILE CON L’ENTRATA IN VIGORE DELL’ITALICUM E LA PERMANENZA DI DUE CAMERE CON SISTEMI DIVERSI DI ELEZIONE? SÌ HAI RAGIONE. MA CREDO CHE QUESTA RESPONSABILITÀ NON POSSA ESSERE MESSA A CARICO DI CHI VOTA NO”

Dialogo con Ferruccio De Bortoli, per molti anni direttore del Corriere della Sera e oggi presidente di Vidas, 5 maggio 2016.
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Otto e mezzo, 27 aprile 2016

Otto e mezzo, 27 aprile 2016

Caro Ferruccio, assistevo alla trasmissione di Lilli Gruber l’altra sera, quando hai manifestato pubblicamente l’orientamento a votare NO al referendum di autunno sulla riforma costituzionale. Poiché ti conosco abbastanza per essere certo che questo tuo orientamento non sia dettato da alcun pregiudizio fazioso, ma soltanto da una serena valutazione dell’interesse complessivo del nostro Paese, ti chiedo se sei disposto a esplicitare per i frequentatori del mio sito le ragioni del tuo giudizio negativo, particolarmente in riferimento alle questioni che qui sotto ti propongo (individuate soprattutto sulla base della mia esperienza parlamentare maturata nell’VIII legislatura e nelle ultime due).

Caro Pietro, rispondo volentieri alle tue domande. Con una premessa di metodo. Io credo che dovremmo impegnarci tutti, favorevoli o contrari, per far sì che il dibattito sulle riforme costituzionali, da qui a ottobre, non degeneri. Che cosa intendo dire? Chi vota no non è un oscurantista che condanna il Paese ad essere irriformabile. Né un guastatore antipatriottico. Non lo fa soltanto per ottenere la caduta di Renzi. E chi vota sì, come te, esprime una posizione meditata frutto di un ragionamento sul merito, risultato di una rispettabilissima battaglia delle idee. Non lo fa solo per appoggiare il governo o perché teme alternative avventurose per il Paese. Se questa premessa è confermata, ben venga il dibattito. Converrai con me che l’eccessiva personalizzazione del referendum di ottobre, voluta con comprensibile ma spregiudicato calcolo elettorale dal premier, non giova a questa prospettiva dialettica. L’ingaggio del “costituzionalista” Jim Messina, guru della comunicazione non promette bene. La luce del progresso contro le tenebre della conservazione, contro i “dotti professori”, nostalgici di 63 governi che nulla hanno fatto (sic) per il Paese.

P.I. All’inizio di questa legislatura, nella primavera del 2013, ho vissuto con angoscia la situazione di paralisi delle istituzioni che si era determinata, con il Parlamento incapace di esprimere il Governo e persino di eleggere il Presidente della Repubblica, con la sentenza della Corte costituzionale che ci consegnava una legge elettorale perfettamente proporzionale tale da produrre all’infinito il ripetersi di quella situazione di stallo, con i rapporti tra Stato e Regioni in una situazione letteralmente caotica, con l’economia del Paese da anni affamata di 114318348-5dd64f05-23b9-45fa-9404-20a0c43baa1briforme urgenti e di nuovo sull’orlo di un tracollo dagli esiti catastrofici. In quel momento mi pareva impensabile che nel giro di due anni quello stesso Parlamento potesse produrre un Governo capace di programmare e poi condurre in porto una riforma elettorale tale da mettere il Paese al riparo dal ripetersi di quella situazione di stallo e addirittura una riforma costituzionale coerente con quello stesso obiettivo. Non pensi che abbia ragione Giorgio Napolitano quando ammonisce che l’eventuale successo del NO nel referendum dell’autunno 2016 sarebbe destinato a riportare il nostro Paese alla situazione pericolosissima del 2013, con l’aggravante di un azzeramento di due anni di sforzo riformatore, che rischierebbe di certificare l’irriformabilità delle nostre istituzioni?

F.D.B. So che hai vissuto con angoscia – e lo hai scritto da parlamentare più volte sul Corriere – l’inconcludenza dell’attività delle Camere. Abbiamo sostenuto insieme la necessità di rafforzare l’esecutivo, di rendere più agevole l’iter delle leggi e di operare una semplificazione delle istituzioni. Ma la soluzione ideale, converrai, non è quella di operare una concentrazione anomala di potere nelle mani di una singola persona o di un ristretto numero di fedelissimi, svuotando di significato persino il consiglio dei ministri, trasformando le Camere, umiliate dai troppi voti di fiducia, in un segretariato e occupando a piacimento ogni posto di potere. L’avesse fatto Berlusconi saresti insorto. E giustamente. Quello che è accaduto nel 2013, lo stallo parlamentarnews_img1_69117_senato-italicum-600x336e, l’impossibilità di formare un governo ed eleggere un nuovo capo dello Stato, è anche, e soprattutto, frutto dell’incapacità dei partiti di parlare al Paese, del loro fallimento elettorale. Non colpa delle norme, comunque inadeguate. Il successo dei Cinquestelle è stato favorito da un reale malessere del Paese. E il lato debole, il difetto d’origine dell’Italicum finisce per essere, paradossalmente questo: la paura che al ballottaggio trionfi una forza antisistema.

P.I.  Questa riforma costituzionale ha certamente diversi difetti. Però, innanzitutto, è indispensabile affinché la riforma elettorale produca il suo effetto di uscita del sistema politico dalla situazione di stallo (se, all’esito del successo del NO, ci ritrovassimo con il vecchio Senato elettivo, dalla cui fiducia il Governo continuerebbe a dipendere, quel Senato dovrebbe essere eletto col sistema proporzionale della vecchia legge e renderebbe quindi di nuovo ingovernabile il Paese). Grillo e BersaniIn secondo luogo questa riforma costituzionale è politicamente e – per così dire – meccanicamente indispensabile per l’ulteriore cammino delle riforme, anche eventualmente costituzionali: se essa entra in vigore i suoi difetti potranno essere progressivamente corretti; ma se essa viene bocciata, e con essa si dissolve la maggioranza che la ha voluta e approvata, non mi sembra che possa ragionevolmente prevedersi la nascita di un Governo capace di ricominciare da capo su questo terreno. Ti ripropongo dunque la prima domanda formulata in modo più puntuale: non pensi che ci troviamo di fronte all’alternativa tra approvare una riforma costituzionale suscettibile di correzioni future, o bocciarla col risultato di tenerci il vecchio assetto costituzionale, di cui si sancirebbe di fatto l’impossibilità di una correzione incisiva entro un tempo ragionevole?

F.D.B. Mi chiedi se il mancato completamento delle riforme costituzionali non apra una situazione insostenibile con l’entrata in vigore dell’Italicum e la permanenza di due rami del Parlamento con differenti sistemi di elezione. Sì hai ragione. Ma credo che questo tipo di responsabilità non possa essere messa a carico di chi vota no e sia opportuno sottolineare ancora una volta, l’insidia di riforme costituzionali fatte senza un largo consenso.  La maggioranza non può accusare l’opposizione se non riesce a completare le riforme. È una responsabilità totalmente sua. In democrazia, piaccia o no, succede così.

costituzione-italiana-428x480P.I.  Quanto ai contenuti specifici della riforma, ipotizzo che tu concordi sulla valutazione positiva di queste scelte: 1. quella fondamentale di togliere al Senato la funzione di esprimere la fiducia al Governo, affidandogli invece la funzione di controllo dell’attuazione delle leggi e del funzionamento delle amministrazioni (analisi degli effetti delle politiche pubbliche) e le funzioni legislative in materia di *rapporti con l’UE e attuazione delle politiche comunitarie, *leggi concernenti le autonomie locali e coordinamento tra Stato e Regioni (funzione oggi svolta in modo molto imperfetto dalla Conferenza Stato-Regioni), *partecipazione alla funzione legislativa soltanto su alcune materie ben delimitate o in alcune occasioni particolari; 2. quella di ridurre gli eccessi del potere legislativo e amministrativo attribuito alle Regioni dalla riforma del 2001, eliminando le materie soggette a competenza legislativa congiunta statale e regionale; 3. quella di alleggerire le istituzioni, riducendo il numero dei senatori, sopprimendo l’inutile CNEL e completando l’opera di soppressione delle Province come sedi di organi collegiali elettivi. Probabilmente, certo, ciascuna di queste tre cose avrebbe potuto essere fatta meglio; ma non pensi che, in riferimento a ciascuno di questi tre “capitoli” della riforma, nell’alternativa fra confermarlo riservandosi di perfezionarlo nei prossimi anni con le correzioni che l’esperienza consiglierà, e azzerarlo lasciando le cose come stanno oggi, la prima opzione sia tutto sommato migliore della seconda? In relazione a quale o quali di questi tre punti tu riterresti meglio azzerare la scelta compiuta e rimanere nella situazione attuale?

F.D.B. Su alcuni contenuti della riforma Boschi, soprattutto il fatto che il nuovo Senato non esprima più la fiducia al Governo, sono del tutto d’accordo con te. Il ritorno di molti, ma non del tutto specificati, poteri regionali allo Stato è sacrosanto, ma non dimenticarti, caro Pietro, che la sciagurata riforma costituzionale del titolo V fu fatta, all’inizio del secolo, dal partito di cui tu fai parte, nel disperato tentativo di impedire la vittoria del centrodestra, che poi regolarmente avvenne. Anche all’epoca si disse che non era la migliore delle riforme, ma che andava votata per tentare di bloccare il Cavaliere. Anche in quella occasione lo spartiacque era tra modernisti e conservatori. Il gigantesco contenzioso tra Stato e Regioni, che ha ingolfato e paralizzato la Corte Costituzionale, è anche frutto di quella scelta “obbligata”.

P.I.  Immagino che tra le ragioni principali del tuo orientamento al NO vi sia la preoccupazione di un rafforzamento del “modello renziano” di Governo, con il suo decisionismo e la sua tendenza all’accentramento. Ma la riforma costituzionale su cui voteremo in autunno si limita a politica_indecisa_che_fare-580x573rendere il Governo un po’ più stabile (col farne dipendere la sopravvivenza dalla fiducia della sola Camera dei Deputati), un po’ più capace di attuare i programmi enunciati (attribuendo una corsia preferenziale in Parlamento ai suoi disegni di legge, anche al fine di limitare il numero dei decreti-legge, e limitando a materie o situazioni particolari il caso in cui una stessa legge deve essere approvata pure dal Senato), quindi a renderlo un po’ più responsabile dell’eventuale non attuazione. La riforma non riduce o comprime le funzioni di alcuno degli strumenti di controllo fondamentali: né quelle del Presidente della Repubblica, né quelle della Corte costituzionale, né quelle del potere giudiziario, né quelle del referendum popolare abrogativo. Viceversa, aumentando dal 50 attuale al 60 per cento dei parlamentari il quorum di ultima istanza necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, la riforma rende indispensabile un accordo tra la maggioranza e almeno una parte dell’opposizione per l’elezione stessa anche dopo dieci o venti scrutini a vuoto; e riducendo notevolmente il quorum dei votanti necessario per la validità del referendum abrogativo, rende più effettivo questo elemento di controllo popolare sul potere legislativo (anche se riproporziona il numero delle firme necessarie per l’indizione rispetto all’aumento della popolazione italiana rispetto al 1946). Così stando le cose, dove vedi – se lo vedi – un rischio di derive autoritarie? Non pensi che, invece, questo rischio possa essere aumentato proprio dal protrarsi dell’inconcludenza tipica del nostro vecchio procedimento legislativo, e ancor più dal riprodursi una nuova situazione di pericolosissimo stallo istituzionale?

F.D.B. Io non temo una deriva autoritaria. Constato soltanto atteggiamenti autoritari, volgari, di disprezzo delle istituzioni, che non mi piacciono (e credo non piacciano neanche a te), anche se ritengo che questo Governo abbia molti meriti in diversi campi. Per quanto riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica non ti sfuggirà che dal settimo scrutinio è sufficiente  “la maggioranza dei tre quinti dei votanti” quindi meno della maggioranza assoluta dell’assemblea, se si moltiplicano le uscite dall’aula.

1442430027688_rainews_20150916205738379P.I.  Sulla questione particolare dell’elezione dei membri del nuovo Senato, osservo, per un verso, che in nessun Paese europeo i membri della Camera alta – là dove essa esiste – sono eletti direttamente a suffragio universale; per altro verso, il sistema delineato dalla riforma costituzionale implica addirittura una doppia elezione dei senatori: quella a suffragio universale a Sindaco di una grande città, o a consigliere regionale, poi quella di seconda istanza da parte del corpo elettorale costituito dagli eletti nei consigli delle autonomie locali. Il modello è simile a quello francese. Lo si potrà modificare in futuro in considerazione di come avrà funzionato; ma quale senso avrebbe prevedere una elezione del Senato a suffragio universale, se si concorda sul punto che questo ramo del Parlamento non deve più votare la fiducia al Governo, mentre deve essere espressione diretta delle autonomie locali?

Il Bundesrat tedesco

Il Bundesrat tedesco, composto esclusivamente da rappresentanti designati dai Länder

F.D.B. Accolgo la tua tesi sull’elettività del Senato, ma credo che l’omologo francese e il Bundesrat funzionino diversamente. Soprattutto la seconda camera tedesca. Ti domando se il nuovo Senato non finisca per essere una retrovia degli enti locali nella quale confluiranno, non più eletti direttamente, le seconde file delle Regioni che già non brillano per la qualità dei loro esponenti. Un bravo sindaco si occuperà, se è serio, più della propria città. Non del nuovo Senato. Guardati i consigli metropolitani, e come e da chi sono composti. Temo che il nuovo Senato non brillerà per competenza, rifletterà l’immagine, pessima, degli enti locali di cui sarà modesta espressione. Il bicameralismo andava superato. Ma perché allora non avere una Camera sola? Perché non avere più coraggio? Ma tu accetteresti di farne parte? Ti sentiresti orgoglioso di esserne membro? Non credo.

Gaetano_Salvemini

Gaetano Salvemini

P.I.  Di fronte a tutte le riforme istituzionali è sempre accaduto che molti – anche tra i più culturalmente provveduti – abbiano manifestato scetticismo e persino sarcasmo. È accaduto anche per la “Costituzione più bella del mondo”: Gaetano Salvemini, per fare solo un esempio, all’indomani della sua approvazione la qualificò come “un’alluvione di scempiaggine”, affermando che “i soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare… questo mostro di bestialità”; ma certo non avrebbe preferito che quella Costituzione venisse bocciata e si ricominciasse daccapo. Non pensi che sia giusto esercitare, nei confronti dell’ordinamento esistente, almeno lo stesso spirito critico che si esercita nei confronti delle ipotesi di suo cambiamento?

F.D.B. Tu ti domandi, e mi domandi, se non sia giusto esercitare nei confronti dell’ordinamento esistente lo stesso spirito critico che i firmatari del documento dei 56 esprimono verso le ipotesi di cambiamento. Non ho mai amato la retorica della “Costituzione più bella del mondo”, peraltro praticata generosamente quando si trattava di fermare il Caimano anche da alcuni sostenitori del sì al prossimo referendum. Però che tristezza quegli articoli in cui per obiettare alle tesi del no si fa la media dell’età dei firmatari, li si fa passare come vestali impolverate della conservazione. Quanto implicito disprezzo verso figure autorevoli, presidenti emeriti della Corte Costituzionale. Non è un inaccettabile sfregio anche alle istituzioni che hanno rappresentato? Perché non vi siete ribellati a questa sottile bastonatura del dissenso?

downloadCaro Pietro, termino con una domanda finale che pongo al valente giurista. L’Italicum trasformerà ancora di più la Camera in un’assemblea di nominati dai capipartito, grazie ai capilista bloccati e alla candidature plurime. Il Senato non sarà più elettivo. Si rafforzano, com’è giusto, i poteri dell’esecutivo. La forma di governo surrettiziamente cambia. I contrappesi, referendum propositivo (peraltro solo promesso) e legge d’iniziativa popolare, appaiono modesti. Quasi posticci. Mi domando se, al termine del processo riformatore, saremo ancora una democrazia rappresentativa. Il problema più serio della nostra fragile democrazia è convincere i votanti, sempre di meno, che la loro opinione conta, che sono ancora cittadini. Se gli italiani si convincono che il loro voto è del tutto inutile, o si asterranno o sceglieranno le forze antisistema per esprimere il loro dissenso, la loro rabbia. Il populismo troverà nuovo alimento. Gli eletti, che conservano il mandato generale, deriveranno la loro legittimità da chi li ha nominati. Non dagli elettori. La spinta al trasformismo sarà ancora più forte. Forse irresistibile. Spero di sbagliarmi, caro Pietro, ma preferisco votare no.

P.I.  Su questa tua visione del futuro davvero non concordo. E pur registrando con grande piacere i consensi molto significativi da te espressi su ciascuna delle questioni che ti ho proposto, non concordo con queste tue critiche al risultato della riforma istituzionale e di quella elettorale:
images (1)– sulla “Camera dei nominati”: il sistema elettorale più diffuso nel mondo è quello basato sul collegio uninominale, cioè quello nel quale più di ogni altro il candidato è “nominato” dal partito, e gli elettori possono solo votare quello o votare il candidato di un altro partito, prendere o lasciare: per questo aspetto non vedo una differenza rilevante rispetto all’elezione del capolista nel piccolo collegio previsto dall’Italicum per la scelta dei deputati; a me, francamente, preoccupa di più il ritorno alle preferenze per i secondi eletti nello stesso collegio (compromesso che il PD ha dovuto subire);
– sul “Senato non eletto”: i senatori saranno eletti eccome! [1] Ho osservato sopra che i passaggi elettorali per loro saranno addirittura due, dovendo essi passare sia per l’elezione al consiglio regionale o al seggio di sindaco di grande città, poi per l’elezione da parte del grande “collegio degli eletti” delle autonomie locali, come in Francia;
– sui contrappesi al potere del Governo: i contrappesi non saranno costituiti soltanto dal referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, ma anche e in primo luogo dalla Corte costituzionale, i cui poteri e competenze sono aumentati dalla riforma, e dal Presidente della Repubblica (i 60 voti favorevoli ogni cento espressi in Parlamento, necessari per eleggere il Capo dello Stato, significano che alla minoranza basterà non assentarsi dall’Aula per imporre alla maggioranza una scelta condivisa).
sergio-staino-622x348Quanto, infine, alla percezione da parte degli italiani del voto politico come inutile, a me sembra che questa sfiducia sia venuta rafforzandosi proprio in conseguenza dell’inconcludenza della politica, dell’impossibilità strutturale per quasi tutti gli ultimi 70 anni di dar vita a un Governo che enunciasse un programma di legislatura e poi disponesse effettivamente di una legislatura, o anche di mezza, per attuarlo. A ben vedere, questo è il risultato di una scelta consapevolmente compiuta dai costituenti nel 1946-7, a causa delle paure soverchianti e simmetriche di una dittatura di destra e di una dittatura di sinistra. Ma oggi il rischio più grave per la democrazia non è quello del ritorno di una dittatura, bensì quello dell’impossibilità per qualsiasi Governo di realizzare un qualsiasi programma: rischio che all’inizio di questa legislatura era diventato quasi una certezza.
Anch’io avrei preferito che questa riforma potesse essere approvata in Parlamento con un consenso più ampio: questo era il disegno iniziale delineato nel “patto del Nazzareno”. Ma il voltafaccia improvviso di Forza Italia e l’indisponibilità totale dei Cinquestelle non hanno lasciato altra scelta se non quella di andare avanti con una maggioranza più ridotta. Se ora il referendum annullasse anche il risultato di questi due anni di lavoro compiuto in condizioni difficilissime, ritorneremmo alla situazione di tre anni fa; ma questa volta – temo – sarebbe ancora più difficile uscirne.

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