DIALOGO TRA GIUSLAVORISTI SULLA RIFORMA DEL LAVORO

ACCORDO SUL PUNTO CHE È TROPPO PRESTO PER CONCLUSIONI SICURE CIRCA GLI EFFETTI OCCUPAZIONALI DELLA RIFORMA – DISSENSO, INVECE, TRA L’APPROCCIO TRADIZIONALE, CHE GUARDA SOPRATTUTTO AL CONTENUTO FORMALE DELLA NORMA, E L’APPROCCIO DI LAW & ECONOMICS, CHE GUARDA SOPRATTUTTO AI SUOI EFFETTI CONCRETI

Lettera di Valerio Speziale, professore ordinario di diritto del lavoro nell’Università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti e Pescara, pervenuta il 23 maggio 2016, a seguito della pubblicazione su questo sito di  mia nota tecnica e di una relazione svolta a Boario Terme lo stesso 23 maggio sull’andamento dei dati occupazionali dopo i provvedimenti governativi sul mercato del lavoro del 2015 – Data la lunghezza della lettera, per rendere meglio comprensibile il dialogo con il mittente ho intercalato le mie chiose al testo, evidenziandole con il carattere corsivo, il colore blu e il paragrafo rientrato, secondo quello che può considerarsi ormai l’editing tradizionale di questo sito per questo genere di interlocuzioni – Questo scambio ha avuto un seguito, la settimana successiva .

Speziale2Caro Pietro,
come sempre leggo con molto interesse quello che tu scrivi nel blog.
Sei da tempo impegnato nella dimostrazione degli effetti benefici della riforma del lavoro (in particolare del contratto a tutele crescenti) a prescindere dall’incentivo economico introdotto dalla legge di stabilità con decorrenza dal 1 gennaio 2015, per cercare di “isolare” l’incremento occupazionale che sarebbe ascrivibile soltanto alla flessibilizzazione nella materia dei licenziamenti.

Fin dalla mia prima nota dell’aprile 2015 su questo argomento e dall’ultimo capitolo del libro Il lavoro ritrovato (maggio 2015) ho chiarito che, sulla base dei primi dati di cui disponiamo, non avrebbe alcun senso pretendere di “dimostrare” un nesso causale tra questa o quella misura adottata dal Governo e questo o quell’effetto occupazionale: tutt’al più si può individuare alcuni indizi di un nesso causale, sui quali formulare delle ipotesi in proposito. Fino a questo momento non ho mai proposto ai miei lettori più che questo.

Comprendo la tua posizione: sei stato uno dei fautori principali della tesi secondo cui la riduzione delle tutele in materia di licenziamento avrebbe determinato benefici incrementi nel livello dell’occupazione, anche se sei perfettamente consapevole che la letteratura economica in materia (con l’avallo di istituzioni economiche quali l’OCSE e FMI) afferma che non esiste alcuna dimostrazione scientifica di tale benefica correlazione. Tu stesso, con l’onestà che ti contraddistingue, lo hai ammesso in un saggio molto approfondito di commento alla riforma introdotta dalla Fornero e che costituiva la rielaborazione della tua relazione tenuta a Pescara.

pietro.ichinoQuello che mi attribuisci non è esatto. Ciò che ho sempre affermato è che un aumento del contenuto assicurativo del rapporto (qual è quello prodotto da una limitazione della facoltà di recesso del datore di lavoro) può produrre l’effetto di un aumento complessivo del costo del lavoro e quindi un effetto depressivo sulla domanda di manodopera, ma può anche non produrlo in tutti i casi in cui la maggiore copertura assicurativa è compensata da un “premio assicurativo” più alto, pagato dai lavoratori interessati con una riduzione delle loro retribuzioni. Questo spiega perché, viceversa, una riduzione del contenuto assicurativo del rapporto, sotto forma di riduzione dei vincoli al licenziamento, possa tradursi non in un aumento della domanda di manodopera complessiva, bensì in una riduzione del premio assicurativo e quindi in un aumento delle retribuzioni. Per altro verso, aumento della domanda di manodopera può manifestarsi – come effetto indiretto, e differito nel tempo, della riduzione delle limitazioni della facoltà di licenziamento – se la riforma favorisce un aumento degli investimenti esteri favorito dall’allineamento dell’ordinamento lavoristico agli standard prevalenti nel panorama internazionale.

In questo tuo tentativo, peraltro, mi sembra che operi una serie di accostamenti e valutazioni non fondate. In primo luogo i periodi temporali di riferimento (dicembre 2014-marzo 2015 e dicembre 2015-marzo 2016 – ma lo stesso si potrebbe dire per dicembre 2013-marzo 2014) non sono corretti. L’incentivo per la stabilità è partito con decorrenza primo gennaio 2015, mentre il d.lgs. 23/2015 è entrato in vigore il 7 marzo 2015. Dunque, per paragonare i dati in modo corretto, dovresti prendere in considerazione i primi due mesi del 2015 (o anche un periodo anteriore) e poi paragonarli con un periodo successivo (ad es. marzo ed aprile 2015), per verificare quale effetto aggiuntivo potrebbe (e spiegherò subito il condizionale) avere la nuova disciplina in materia di licenziamenti. D’altra parte non si vede come si possano mettere a confronto periodi in cui l’incentivo economico era profondamente diverso (sgravio quasi integrale fino al limite di 8.020 euro circa in precedenza, solo il 40% fino a circa 3.250 euro successivamente). Ad esempio, nel dicembre 2015 l’incentivo era ancora quello precedente, mentre nel gennaio 2016 era quello nuovo sensibilmente più ridotto.
Mi sembra, dunque, che la non omogeneità dei dati renda altamente implausibile l’accostamento fatto.

Quando una disposizione prevede che da una certa data si applichi un incentivo economcio alle assunzioni, si verifica sempre il cosiddetto “effetto risucchio”, per cui le imprese attendono l’attivazione dell’incentivo per effettuare assunzioni che si sarebbero altrimenti prodotte nel periodo immediatamente precedente. Per lo stesso motivo, quando l’incentivo sta per cessare le imprese sono indotte ad anticipare assunzioni che si sarebbero altrimenti collocate nel periodo immediatamente successivo. Questo spiega perché, se vogliamo avere qualche indizio circa gli effetti della riforma della disciplina dei licenziamenti (entrata in vigore nel marzo 2015) non possiamo confrontare il numero di assunzioni a tempo indeterminato verificatesi nel mese di gennaio 2015, che ha”risucchiato” assunzioni dai mesi precedenti per via dell’entrata in vigore dell’incentivo economico, con quelle verificatesi nel gennaio 2016, che al contrario ha subito il “risucchio” di assunzioni nel periodo immediatamente precedente, per via della cessazione dell’incentivo economico fissata alla fine del 2015. Molto più significativo è il confronto fra un trimestre o un quadrimestre collocato a cavallo della fine del 2015 e un trimestre o quadrimestre a cavallo della fine del 2014: questo confronto mostra inequivocabilmente un aumento del flusso delle assunzioni stabili. Fermo restando che – ripeto – da un confronto di questo genere possiamo trarre soltanto degli indizi: fondare su questo confronto la dimostrazione di un nesso causale sarebbe comunque gravemente scorretto.

Ma non basta. Nelle tue conclusioni, con un classico sillogismo, affermi che l’incremento dei contratti di lavoro stabili avvenuto nel dicembre 2014-marzo 2015 (pari al 16,7 per cento) in relazione al periodo 1° dicembre 2015-31 marzo 2016 “è quasi interamente imputabile alla riforma della disciplina del rapporto e non all’incentivo economico”.
Ora, a parte quanto già detto (nel dicembre 2014 non vi era incentivo economico, che aveva un certo importo nel periodo gennaio-marzo 2015 – uguale anche nel dicembre 2015 – e un valore assai più ridotto da gennaio a marzo 2016), nella tua valutazione non consideri quanto degli incrementi occupazionali sia dovuto a fattori del tutto indipendenti dalla tipologia del contratto, quali, ad esempio, la crescita del PIL, il basso costo delle materie prime (ad es. petrolio) che incide sul livello di produzione ecc. È evidente, infatti, che gli elementi sopra indicati, nella misura in cui delineano un quadro di crescita (seppur modesto) con l’uscita dalla recessione, stimolino le imprese non solo all’aumento dell’occupazione, ma anche all’incremento dei contratti stabili (che sono una variabile anche delle aspettative di crescita dell’economia).
È quindi arbitrario, in assenza di fattori che consentano di “depurare” l’aumento dei contratti stabili dovuti a fattori estranei alla nuova disciplina in materia di licenziamenti, attribuire l’incremento dei contratti stabili esclusivamente agli effetti del d.lgs. n. 23/2015.

Concordo su questo punto: stiamo sempre parlando di indizi e non di prove circa il nesso causale tra l’una o l’altra misura adottata dal Governo (incentivo economico, riforma della disciplina del rapporto). La dimostrazione della sussistenza del nesso causale richiede una analisi complessa su dati disaggregati riferiti a un periodo assai più esteso, dei quali per ora nessuno di noi dispone. Fermo restando, dunque, che stiamo discutendo soltanto di indizi, mi sembra però ragionevole sottolineare – in risposta a coloro che dai nuovi dati diffusi dall’Inps hanno ritenuto di trarre indicazione nel senso di un “fallimento della riforma” – che l’aumento del 16,7 per cento delle assunzioni a tempo indeterminato si è verificato tra:
– il quadrimestre dicembre 2014-marzo 2015, durante il quale l’incentivo economico al 100 per cento ha operato per tre quarti del periodo, mentre la riforma della nuova disciplina dei licenziamenti ha operato soltanto per un sesto del periodo e la restante parte della riforma del rapporto di lavoro non ha operato per nulla, e
– il quadrimestre dicembre 2015-marzo 2016, lungo tutto l’arco del quale ha operato per intero la riforma dei licenziamenti e del rapporto di lavoro, mentre l’incentivo economico al 100 per cento ha operato soltanto per un mese su quattro.

In verità, per poter avere una valutazione più approfondita delle conseguenze della riforma è necessario attendere più tempo e soprattutto aspettare che vi sia l’esaurimento degli incentivi economici, che condizionano in modo rilevante l’incremento del lavoro stabile (a meno che non sia possibile costruire un modello econometrico che “isoli” l’effetto delle tutele crescenti dai vantaggi legati alla riduzione del costo del lavoro).

Effettivamente gli economisti stanno già lavorando su questo punto, proponendosi di isolare l’effetto dell’incentivo economico e quello della riforma dalle altre variabili che possono avere influito sulle variazioni quantitative e qualitative dell’occupazione. Concordo, comunque, sul punto che per una valutazione più attendibile degli effetti della riforma occorre attendere più tempo: ricordo solo che la mia nota del 23 maggio scorso è stata pubblicata in risposta ai detrattori della riforma, i quali, invece, pretendevano di trarre dagli ultimi dati mensili forniti dall’Inps un’indicazione inequivoca nel senso del fallimento della riforma stessa.

A me sembra che, in base ad un’analisi riferita a un arco temporale più lungo di quanto da te preso in considerazione si possa dire che:
a. nel corso del 2015 i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti di 913.000 unità rispetto al 2014 (con un incremento pari al 54%) (Osservatorio sul Precariato Inps del gennaio 2016);
b.l’esonero contributivo triennale, introdotto dalla legge 2015, risulta avere un effetto determinante sull’incremento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Su 2,5 milioni di attivazioni di posizioni di lavoro a tempo indeterminato (sommando le instaurazioni di nuovi rapporti e le trasformazioni di rapporti a termine), oltre 1,5 milioni, pari al 62% del totale, risultano beneficiari dell’esonero contributivo triennale” (Osservatorio sul precariato Inps, cit.);
c. in base a questi dati non è possibile individuare, del restante 38% dei nuovi contratti stabili, quante di queste tipologie contrattuali sono riconducibili alla nuova disciplina del contratto a tutele crescenti o agli altri fattori di crescita dell’economia che, come già spiegato, stimolano assunzione a tempo indeterminato;

Però attenzione: nulla consente di escludere che, se non ci fosse stata anche la riforma della disciplina dei licenziamenti, i nuovi contratti a tutele crescenti stipulati con attivazione della decontribuzione sarebbero stati meno di 1,5 milioni, e quelli stipulati senza attivazione della decontribuzione meno di 900mila.

d. nei primi tre mesi del 2016 vi è stato un notevole calo delle assunzioni stabili che, secondo l’Osservatorio Inps, sono direttamente riconducibili alla riduzione degli incentivi economici;

Questo è del tutto ovvio: il raddoppio delle assunzioni a tempo indeterminato verificatosi nel mese di dicembre 2015 non poteva non produrre un rimbalzo negativo nei mesi immediatamente successivi. Ma questo non dice nulla circa gli effetti della riforma dei licenziamenti e della disciplina del rapporto di lavoro.

e. nel 2015 vi è stato un incremento delle assunzioni rispetto al 2014 pari al 13%; tuttavia il riferimento è ai contratti stipulati e non necessariamente a nuovi posti di lavoro, visto che lo stesso lavoratore potrebbe, nell’anno di riferimento, stipulare contratti (anche se la differenza tra nuovi rapporti e nuove assunzioni non dovrebbe essere poi così elevata);

È vero: il numero dei contratti può dipendere anche dalla ripetizione di numerosi contratti a termine in riferimento allo stesso posto di lavoro. Sta di fatto, però, che nel corso del 2015, a fronte di un aumento complessivo del 47 per cento delle assunzioni stabili, si è registrata una riduzione – sia pur minima – delle assunzioni a termine e un crollo delle assunzioni per collaborazioni autonome continuative.

f. non è dato sapere quanto di questo incremento è legato ai benefici economici, alla nuova disciplina del lavoro o agli altri fattori (ad es. crescita del PIL, ecc.).
Mi sembra dunque che la situazione sia un po’ differente da quella descritta. E che in ogni caso occorrerà attendere più tempo per poter esprimere valutazioni più approfondite (fermo restando che il problema di “depurare” gli aumenti dei contratti stabili dovuti alla crescita del Pil e agli altri fattori economici da quelli legati alla nuova disciplina sui licenziamenti rimane sempre).

Infatti proprio questo è attualmente materia di studio da parte da diversi team di economisti. Una delle operazioni che consentono loro di isolare l’impatto della riforma della disciplina del rapporto dagli altri fattori consiste nel confrontare l’aumento generale delle assunzioni e conversioni a tempo indeterminato con l’aumento delle conversioni in rapporto a tempo indeterminato di rapporti di apprendistato (dove l’incentivo economico non si applica; qui nel corso del 2015 si è verificato un aumento del 23 per cento, sicuramente non riferibile all’incentivo economico, a  fronte di un aumento generale del 47 per cento). Un’altra operazione consiste nel confrontare ciò che è accaduto nelle imprese che si collocano subito sotto la soglia dei sedici dipendenti (per le quali la riforma dei licenziamenti ha portato un mutamento trascurabile) con ciò che è accaduto in quelle che si collocano subito sopra quella soglia. In ogni caso, però, occorrono anche ulteriori operazioni volte a escludere il possibile impatto di altri fattori congiunturali. Vedremo a che cosa condurranno queste ricerche.

Piuttosto, mi permetto di sottoporre alla tua attenzione i dati messi in evidenza dal Rapporto sulla programmazione di bilancio 2016 effettuato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Ebbene il Rapporto, prendendo in considerazione soltanto le modifiche introdotte dal contratto a tutele crescenti, le nuove regole per gli altri contratti di lavoro e le modifiche delle mansioni (oltre che della conciliazione vita/lavoro), enuncia un modello econometrico che mette in evidenza i seguenti risultati:
Misurati al 2020, gli effetti delle citate innovazioni legislative si traducono in variazioni positive (rispetto allo scenario baseline di assenza di riforme del lavoro) di 0,6 punti percentuali del Pil, 0,4 degli investimenti, 1,0 per l’occupazione, 0,6 per i consumi e una riduzione del deficit pari a 0,2 punti percentuali di Pil. Questi effetti sono descritti in graduale rafforzamento del tempo, sino a contare nel lungo periodo (oltre il 2030) +1,3 punti per il Pil, +1,0 degli investimenti, +2,0 per l’occupazione, +1,4 per i consumi e -0,6 punti del prodotto per il deficit”.
Osservo che, rispetto all’occupazione, il dato è esattamente lo stesso anche nel lunghissimo periodo (0,20% di incremento occupazionale annuo, sia rispetto al cinque anni, sia rispetto al 10 e più anni) con risultati incredibilmente modesti, se si considera la profondità ed innovatività delle riforme e lo squilibrio tra potenziali incrementi dell’occupazione e drastica riduzione dei diritti dei lavoratori.

L’effetto diretto principale perseguito con la riforma non consiste tanto nell’aumento dell’occupazione (che potrà derivarne semmai indirettamente, come ho detto sopra) quanto nella maggiore facilità di accesso delle nuove generazioni al contratto a tempo indeterminato e nel superamento del dualismo fra stabilmente protetti e stabilmente non protetti nel tessuto produttivo. Le assunzioni a tempo indeterminato erano due terzi del flusso totale nell’ultimo anno precedente a quello del varo dello Statuto dei Lavoratori (essendo il terzo restante costituito da contratti a termine e di apprendistato); nell’ultimo anno precedente a quello della riforma di cui stiamo discutendo le assunzioni stabili erano scese a un sesto del flusso totale: se riusciremo a riportarle intorno al 40-50 per cento questo cambierà faccia al nostro tessuto produttivo, migliorando la qualità e la produttività del lavoro, nonché la condizione di chi dal lavoro retribuito trae il necessario per vivere. Proviamo a chiedere a quel milione in più (rispetto al 2014) di italiani che nel corso dell’ultimo anno sono riusciti a farsi assumere a tempo indeterminato se per loro era la stessa cosa essere assunti a termine o come collaboratori autonomi.

La cosa più interessante è che un analogo studio effettuato dalla Commissione Europea, che prende in considerazione solo il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, sottolinea effetti molto più modesti di quelli descritti. Lo stesso Rapporto poi, in un’altra sezione, sottolinea le incertezze e le lacune connesse a questi modelli la cui utilizzazione può ad esempio portare “a trascurare il lato della domanda, le conseguenze che quest’ultimo può avere tramite effetti di isteresi sul PIL potenziale, gli effetti di eventuali mutamenti nel sistema delle preferenze dei consumatori in conseguenza delle riforme, della diversità dei comportamenti e dei fenomeni di tipo distributivo“. In questa parte il Rapporto non fa altro che richiamare molte considerazioni espresse nella letteratura economica (la difficoltà di “isolare” gli effetti delle riforme del lavoro da altri fattori, di cui ho già parlato in precedenza).

Questa,  infatti, è una operazione che non può neppure essere tentata ex ante: può essere compiuta soltanto ex post.

A me sembra, dunque, che occorrerebbe una cautela molto maggiore nel valutare i presunti effetti postivi delle riforme in materia di lavoro su varie variabili macroeconomiche. E, comunque, mi pare che proprio le incertezze connesse a tali modelli richiederebbero ben altre investigazioni e analisi rispetto a quelle da te effettuate, che si fondano su valutazioni che, oltre a prestarsi alle critiche già da me espresse, sono quantomeno limitate nei presupposti di indagine.

Torno a ricordare che a) sono intervenuto su questo argomento sempre soltanto in risposta a chi dai dati via via resi disponibili traeva conclusioni circa il “fallimento della riforma”; b) per tutto l’ultimo anno non ho perso occasione per sottolineare che i dati sui flussi delle nuove assunzioni possono per ora, tutt’al più, fornire indizi e nulla di più circa il rapporto di causa/effetto tra i provvedimenti del Governo e le variazioni via via registrate.

Chiudo queste sin troppo lunghe riflessioni con un’ultima osservazione. L’analisi è tutta condotta sugli effetti economici delle riforme. Ma non si dovrebbero valutare anche le conseguenze giuridiche di queste innovazioni? Ad esempio, la minore tutela in materia di licenziamento e gli effetti che essa produce sulla agibilità di molti diritti (il lavoratore non rivendica quanto a lui dovuto perché teme di poter essere licenziato senza particolari difficoltà, non si iscrive al sindacato per la medesima ragione ecc.) non dovrebbero essere presi in considerazione per valutare i benefici della riforma? O tutto deve essere ricondotto solo ai (modesti, direi), effetti sull’occupazione, quasi che la posizione dei lavoratori ed i loro diritti siano una variabile trascurabile rispetto a tutto il resto?

In questa domanda, a mio modo di vedere, si manifesta un vizio radicato della nostra cultura sindacale e giuslavoristica tradizionale: quello di considerare che il benessere del lavoratore, la sua sicurezza, libertà e dignità, dipendano esclusivamente dalla possibilità che gli si dà di rivolgersi al giudice per far valere un proprio diritto; di considerare sempre soltanto l’aspetto positivo dell’elevato contenuto assicurativo del contratto di lavoro e non il suo costo (il “premio assicurativo”) in termini di effetto depressivo sulle retribuzioni; di non considerare mai il rapporto tra il numero di coloro che possono accedere alle protezioni e il numero di quelli che ne restano esclusi (la job property, per sua natura, non è suscettibile di essere estesa a tutti: essa crea necessariamente un’area di peripheral workers destinati a portare tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno); di non considerare mai l’impatto della disciplina del rapporto sulla produttività del lavoro, come se questa fosse irrilevante per il benessere del lavoratore (mentre è proprio dalla produttività del lavoro che dipende l’entità del reddito che dal lavoro si può trarre). Sta di fatto, comunque, che per il reddito e il benessere del lavoratore conta molto di più il potersi muovere facilmente in un tessuto produttivo fluido, alla ricerca della posizione nella quale il suo lavoro è meglio valorizzato, che non l’ingessatura del primo rapporto stabile a cui gli capiti di accedere (il “posto fisso purchessia”); per la sua sicurezza economica, in un tessuto produttivo in evoluzione sempre più rapida, molto più di quella ingessatura conta un trattamento di disoccupazione veramente universale, robusto e di durata adeguata. Per non dire del fatto che dell’articolo 18 St. lav. godevano solo metà dei lavoratori interessati, mentre del nuovo trattamento di disoccupazione, rafforzato nell’entità e nella durata, ora godono veramente tutti, compresi i lavoratori domestici e gli apprendisti. E l’obiettivo è che tra breve tutti godano anche del servizio di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, reso da una agenzia liberamente scelta tra quelle accreditate e retribuito con l'”assegno di ricollocazione”.

Mi scuso di averti annoiato. Se vuoi potremmo discutere di queste cose sul tuo blog, anche se non so se hai voglia di ospitarmi e se le molte cose che ho detto sono compatibili con i limiti di spazio del tuo format. Grazie comunque per l’attenzione.
Valerio

Caro Valerio, grazie a te per questa occasione di dialogo che la tua lettera offre. E se intendi replicare alle mie chiose, non esitare a farlo: il blog è qui essenzialmente per questo e sono certo che i suoi lettori siano molto interessati ai tuoi argomenti.
Pietro

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