L’INCENTIVO ECONOMICO ALLE ASSUNZIONI STABILI È SERVITO O NO?

I 600.000 OCCUPATI IN PIÙ IN DUE ANNI, DI CUI DUE TERZI STABILI, SONO ANCHE UN EFFETTO DELLA COMBINAZIONE TRA SHOCK ECONOMICO E SHOCK NORMATIVO – È PRESTO PER DIRE QUANTO DELL’UNO E QUANTO DELL’ALTRO, MA È DIFFICILE NEGARE CHE QUESTE MISURE ABBIANO CONTRIBUITO A SBLOCCARE LA CRESCITA

Testo integrale del colloquio raccolto da Daniele Guarneri in funzione di un servizio pubblicato su Tempi,  1° ottobre 2016, sotto il titolo: Il Jobs Act funziona o l’aiutino non basta? dove le mie opinioni vengono messe a confronto con quelle di Michele Tiraboschi – In argomento v. pure Ancora polemica (poco seria) sugli effetti del Jobs Act

.

Professor Ichino, dopo i dati Istat Renzi aveva twittato che “il Jobs Act funziona”. Poi sono arrivati i numeri del ministero del Lavoro che si basano sulle cosiddette “Comunicazioni obbligatorie” che hanno smontato l’entusiasmo del premier. Infine i dati Inps che confermano che il Jobs Act sta smettendo di funzionare. Ci aiuta a capire perché i dati Istat erano per Renzi la conferma della buona riuscita del Jobs Act, mentre gli altri l’hanno smontato?
L’argomento del Governo si fonda su due dati molto semplici e apparentemente risolutivi: al di là delle oscillazioni mensili, dal febbraio 2014 al luglio 2016 il numero degli occupati è aumentato di 585mila unità. Di queste, 408mila a tempo indeterminato e 196mila a termine. Poiché nello stesso periodo gli occupati autonomi sono diminuiti di 19mila, l’aumento dei dipendenti è stato di (585mila + 19mila =) 604mila unità, di cui più di due terzi stabili. Però – e non lo dico da oggi: lo ho spiegato anche nel libro sulla riforma pubblicato l’anno scorso (Il lavoro ritrovato, Mondadori – n.d.r.), prima che incominciasse il balletto dei dati – tutte queste cifre dicono poco circa l’efficacia della riforma.

jobs actQuindi sbagliano sia il premier a cantar vittoria sia gli oppositori a sostenere che la riforma è fallita?
Il livello complessivo dell’occupazione dipende dalla somma di consumi e investimenti, sulla quale la nuova legge non può avere avuto un rilevante effetto istantaneo. Può avere avuto un effetto istantaneo il forte incentivo economico, questo sì; e di questo il Governo può andar fiero, perché l’economia italiana aveva assoluto bisogno di questa scossa tonificante. Quanto al fatto che dei nuovi occupati due terzi siano a tempo indeterminato, occorrerà ancora tempo per sapere con precisione quanto abbia influito l’incentivo economico e quanto la nuova disciplina del rapporto.

Ma la riforma non doveva servire proprio a favorire l’occupazione, e in particolare occupazione stabile?
Certo. Ma, ripeto, gli effetti della riforma non possono essere istantanei: essi si producono attraverso un mutamento dell’atteggiamento degli investitori nei confronti del nostro sistema-Paese, un mutamento del mandato che i consigli di amministrazione delle grandi aziende danno ai propri responsabili del personale circa le assunzioni stabili, e anche un mutamento della cultura del lavoro diffusa.

Allora lei riconosce che il boom delle assunzioni a tempo indeterminato registratosi nel 2015 non è un effetto della riforma, ma soltanto della decontribuzione?
Non ho detto questo; al contrario sono convinto che quell’aumento non ci sarebbe stato nella stessa misura se l’incentivo economico non fosse stato combinato con le nuove norme. Però nessuno studioso serio può azzardarsi a stabilire, sulla base dei dati disponibili oggi, quanta parte di quel boom sia imputabile all’incentivo e quanta parte alla nuova normativa.

Sta di fatto che, appena l’incentivo economico è stato dimezzato, le assunzioni a tempo indeterminato sono crollate. Dunque la decontribuzione può essere considerata definitivamente un esperimento sbagliato, da archiviare come fallito?
Innanzitutto le assunzioni a tempo indeterminato non sono “crollate”: è solo cessato l’aumento impetuoso che si era registrato l’anno scorso, con un picco fortissimo a dicembre. È accaduto, in sostanza, che il mese di dicembre 2015 ha, per così dire, risucchiato, anticipandole, molte assunzioni a tempo indeterminato che si sarebbero altrimenti distribuite nell’arco dei mesi successivi. Ma quel che è accaduto, nel suo complesso, non può certo essere considerato come un risultato negativo.

jobs act 2Però quell’incentivo è costato alle casse dello Stato circa 15 miliardi. Non era meglio usarli in un altro modo?
Incominciamo col dire che quel costo è ripartito in tre anni. Deve comunque essere chiaro a tutti che quell’incentivo economico è stato usato dal Governo come un medico applica un defibrillatore su di un organismo infartuato, per evitarne la morte, riattivarne le normali funzioni vitali. Se l’intervento d’urgenza ha l’effetto di rimettere in piedi una persona che stava per morire, la congruità della spesa per quell’intervento non la si misura soltanto sui primi giorni di convalescenza. La decontribuzione ha certamente dato una mano robusta a rimettere in moto la crescita economica del Paese, anche se questa è ancora troppo debole. E, in combinazione con la riforma, ha favorito la creazione di quasi mezzo milione di posti di lavoro stabili aggiuntivi, che non sono mica spariti nel 2016: sono ancora tutti lì e continueranno a produrre ricchezza e reddito per i loro titolari, speriamo ancora a lungo.

Gli oppositori dicono, invece, che alla fine del triennio dell’incentivo tutti questi assunti col contratto a tutele crescenti verranno licenziati.
Questa è davvero una grossa sciocchezza: quale interesse avrebbero gli imprenditori a sostituire dei dipendenti sperimentati positivamente per tre anni, dovendo sostituirli con altri dipendenti per i quali il costo contributivo sarà esattamente lo stesso? Potrà anche accadere che, cessato il vantaggio contributivo, un rapporto di lavoro poco produttivo venga sciolto, perché il suo bilancio va in rosso; ma tutto induce a pensare che questo accadrà soltanto marginalmente. D’altra parte, anche quando questo accadrà, si dovrà parlare di tre anni di lavoro regolare di una persona, che altrimenti non ci sarebbero stati. Chi ha il coraggio di sostenere che sarebbe stato meglio che quella persona per quei tre anni se ne fosse stata a casa?

Gli ultimi dati Inps sulle nuove assunzioni fanno dire a molti che non si può rimettere in moto il mercato del lavoro attraverso le leggi, non si vince la disoccupazione attraverso norme statali. È corretto?
Guardi, la legge non ha il potere di creare da sola il lavoro: questo è vero. Ma ha il potere di impedirlo, di costruire diaframmi tra la domanda e l’offerta aumentando i costi di transazione, di deprimere il tasso di occupazione. Dunque una riforma legislativa che, invece, semplifichi e favorisca l’incontro fra domanda e offerta, riduca i costi di transazione, può, eccome, avere un effetto positivo sia sulla quantità, sia sulla qualità dell’occupazione, e sulla migliore allocazione delle risorse umane. Occorre però anche capire che la riforma di cui stiamo parlando è destinata a operare non soltanto meccanicamente, attraverso la modifica delle regole giuridiche, ma anche attraverso un mutamento culturale, che richiede qualche tempo.

Quale mutamento?
Un mutamento che deve concretarsi innanzitutto nei comportamenti degli imprenditori, non più appesantiti da costi di transazione elevati – che arricchiscono solo i consulenti e per il resto sono solo sabbia nell’ingranaggio – o spaventati da un regime di inamovibilità dei propri dipendenti a tempo indeterminato. Ma deve concretarsi anche nei comportamenti dei lavoratori, non più spaventati dalla possibilità di dover frequentare il mercato e invece sempre più interessati alla ricerca dell’azienda più capace di valorizzare le loro competenze: più capaci di usare il mercato del lavoro. E qui avrà molto peso la parte della riforma che è ancora tutta da implementare: quella di competenza dell’ANPAL, la nuova agenzia nazionale per le politiche attive che proprio ora muove i primi passi.

jobs act 3Alberto Brambilla del Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali, in una intervista a Tempi mi spiegava che al posto della decontribuzione si doveva puntare sul credito di imposta in modo da valorizzare solo quelle aziende che sono in utile e devono essere aiutate per fare il salto di qualità che richiede il mercato. È d’accordo?
Le scelte alternative plausibili erano diverse: un’altra interessante era quella di Luca Ricolfi di limitare l’incentivo alle assunzioni a carattere incrementale. La scelta compiuta dal Governo, però, ha un pregio fondamentale: la semplicità di funzionamento e quindi la comprensibilità immediata. Quanto più gli incentivi temporanei sono regolati in modo complicato, tanto minore è la loro efficacia pratica: perché, ora che tutti gli imprenditori hanno capito come funzionano, è già cessato il loro periodo di applicazione. La storia delle politiche del lavoro in Italia è molto ricca di esempi di questo genere.

All’interno della prossima legge di Bilancio ci pare di capire che si punti molto sul welfare e poco sull’aiuto alle aziende. Il governo Renzi sembra scommettere di più su questi aiuti (80 euro alle persone con un reddito basso, 500 euro a insegnanti, pensioni anticipate eccetera) rispetto ad altro. Perché? È corretto, visto che comunque le risorse sono veramente poche?
Lo scopo di queste misure è di stimolare selettivamente i consumi: soprattutto i consumi di servizi alla persona, che generano domanda di manodopera in Italia. Dall’aumento di questi consumi deriva immediatamente un beneficio anche per le aziende interessate.

Tornando un attimo ai dati Inps, una curiosità: i contratti di apprendistato sono in aumento. Sembra un dato anomalo rispetto a tutti i segni meno presenti nel rapporto. Perché secondo lei?
Nel 2015 l’apprendistato la decontribuzione integrale per i nuovi rapporti a tempo indeterminato ha azzerato la convenienza dell’apprendistato per le imprese sul piano contributivo. Non stupisce che nel 2016, riducendosi la decontribuzione al 40 per cento, i contratti di apprendistato tornino ad aumentare. Per altro verso, nel 2015 è aumentato del 26 per cento rispetto al 2014 il numero dei casi di trasformazione di contratti di apprendistato, al termine del periodo di apprendimento, in contratti di lavoro ordinario a tempo indeterminato: questo è un dato che dovrebbe far riflettere, perché in questi casi la decontribuzione non si applicava. Quel 26 per cento di aumento degli apprendisti assunti in pianta stabile può dunque considerarsi come un indizio del fatto che all’aumento generale dei contratti a tempo indeterminato ha contribuito non soltanto la decontribuzione – che qui non operava – ma anche la riforma della disciplina del rapporto e dei licenziamenti.

.

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab