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A TESTA BASSA CONTRO LA RIFORMA DEL LAVORO: LA STORIA SI RIPETE

GIÀ NEGLI ANNI ’90 CONTRO LA LIBERALIZZAZIONE DEI SERVIZI AL MERCATO DEL LAVORO, POI NEGLI ANNI 2000 CONTRO LA LEGGE BIAGI, UNA PARTE DELLA SINISTRA POLITICA E SINDACALE SI È SCAGLIATA A TESTA BASSA, SALVO POI DIMENTICARE DEL TUTTO QUELLE BATTAGLIE DOPO AVERLE DEFINITIVAMENTE PERSE – OGGI LA STORIA SI RIPETE

Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 10 gennaio 2017 – In argomento v. anche Referendum sul Jobs Act: un’arma impropria [1], pubblicato su lavoce.info il 22 dicembre 2016, e i numerosi altri interventi e documenti reperibili nella sezione [2]Lavoro [2] di questo sito  

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LEGGI TREU E BIAGIVent’anni fa Il nostro Paese è arrivato, ultimo in Europa, con due leggi del ’97 varate da un governo di centrosinistra, a liberarsi dal totem del monopolio statale dei servizi di collocamento e dal tabù che vietava drasticamente il servizio di fornitura di lavoro regolare tramite agenzia. Le forze politiche e sindacali che si proponevano di impedire a ogni costo quella riforma gridarono alla “liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro” e al “caporalato legalizzato”; ma oggi, a due decenni di distanza, non c’è uno solo dei feroci oppositori di allora che si azzardi a proporre il ritorno al monopolio statale del collocamento; e sono gli stessi oppositori di allora, nella loro battaglia odierna contro i buoni-lavoro, a indicare come alternativa virtuosa proprio il lavoro temporaneo tramite agenzia che allora demonizzarono.

Sei anni dopo, nel 2003, la nostra legislazione ha fatto un ulteriore passo in perfetta continuità sostanziale rispetto a quello compiuto nel ’97, con una legge – varata questa volta da un governo di centrodestra – che mirava tra l’altro a combattere il lavoro nero introducendo nel nostro ordinamento per le prestazioni di lavoro accessorio i buoni-lavoro, già ampiamente sperimentati con successo nel decennio precedente in Francia, in Belgio e in Olanda; e a conciliare la tutela dei lavoratori con l’interesse alla massima occupazione nel settore dell’appalto di servizi, attribuendo alla contrattazione collettiva maggiori poteri in questo campo. Contro quella legge, demonizzata allora anch’essa come “liberalizzazione selvaggia” del mercato del lavoro, venne scatenata una campagna furibonda; ma i suoi contenuti sono passati sostanzialmente indenni attraverso tre lustri nei quali ai governi di centrodestra si sono alternati diversi governi di centrosinistra.

Due anni fa, con la riforma del 2015, è stato compiuto un terzo passo, sempre in sostanziale continuità con quelli del ’97 e del 2003, nella direzione dell’allineamento del nostro ordinamento ai migliori modelli del centro e nord-Europa; un passo che ha contribuito in modo decisivo a ridare al nostro Paese attrattività per gli investitori e credibilità agli occhi dei nostri partner europei. Senonché, prima ancora che di questa riforma possano osservarsi e misurarsi gli effetti si assiste allo stesso copione di quindici e di venti anni fa. L’iniziativa referendaria di cui la Corte costituzionale è chiamata domani a decidere l’ammissibilità, in perfetta sintonia con un progetto di riforma del nostro diritto del lavoro di iniziativa popolare promosso anch’esso dalla Cgil, mira non soltanto a riportare il nostro ordinamento del lavoro indietro di un quarto di secolo, ma addirittura a introdurre elementi di ingessatura dei rapporti di lavoro sconosciuti anche negli anni ’70: in particolare, il “sì” al quesito in materia di licenziamenti, oltre a ripristinare il vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua versione più hard, ne abbasserebbe la soglia di applicazione da 15 a 5 dipendenti.

La speranza è che la Corte costituzionale disinneschi, dove possibile, la bomba di cui l’iniziativa referendaria ha acceso la miccia. Il quesito sui licenziamenti è vistosamente inammissibile, per la pluralità dei suoi contenuti e soprattutto per la parte di esso che mira non ad abrogare, ma sostanzialmente a introdurre nell’ordinamento la nuova norma circa l’estensione del campo di applicazione dell’articolo 18. Il quesito sui buoni-lavoro presenta un aspetto di irragionevolezza altrettanto evidente: tutti, compresi i sindacati di settore della Cgil, sanno che c’è una infinità di prestazioni occasionali per le quali non è ragionevole esigere dal datore di lavoro di aprire una posizione Inps e dotarsi di un libro-paga e matricola; eliminare i buoni-lavoro equivale a condannare tutte queste forme di lavoro a tornare nel sommerso. I 121 milioni di voucher utilizzati nel 2016 equivarrebbero, se si fosse trattato di rapporti a tempo pieno, a circa 60.000 posti di lavoro, in un Paese in cui le ore di lavoro si misurano in miliardi e la forza-lavoro è costituita da 23 milioni di persone: chi può ragionevolmente sostenere che quei 121 milioni di voucher offrono di per sé l’evidenza dell’abuso? Abusi, certo, ce ne sono stati; ma tutto sommato marginali rispetto al fenomeno nel suo complesso; individuiamoli e correggiamo la legge in modo da prevenirli. Eliminare i voucher, invece, significherebbe privare di ogni tutela il lavoro occasionale, in spregio all’articolo 35 della Costituzione, che protegge il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”.

Quanto al quesito sulla disciplina degli appalti, esso mira alla soppressione di una norma contenuta nella legge Biagi del 2003 che attribuisce al sindacato la facoltà – la facoltà, si badi bene, non l’obbligo! – di contrattare “metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti”, sostituendo una disciplina negoziata a una rigida norma legislativa che regola la materia. Un sindacato che propone questo è un sindacato che nega la propria funzione. Stupisce che a farlo sia la confederazione sindacale guidata in passato da Giuseppe Di Vittorio, da Luciano Lama e da Bruno Trentin. E ancor più che in essa non si levi neppure una voce di dissenso.