LA PRESSE: UN PRIMO COMMENTO A CALDO ALLA SENTENZA DELLA CONSULTA SUI REFERENDUM

LA CORTE COSTITUZIONALE HA COMPIUTO LA SCELTA PIÙ CORRETTA SUL PIANO GIURIDICO-FORMALE, CHE SI RIVELA ANCHE LA PIÙ UTILE E OPPORTUNA NEL DELICATO PASSAGGIO POLITICO ED ECONOMICO CHE IL PAESE STA ATTRAVERSANDO

Intervista a cura di Laura Carcano, pubblicata dall’Agenzia di stampa La Presse – In argomento v. i numerosi altri interventi e documenti raccolti nella sezione Lavoro di questo sito    .
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Corte costituzionaleLa Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’articolo 18 promosso dalla Cgil, dichiarando inammissibile il quesito che proponeva la cancellazione delle norme del Jobs act in materia di licenziamenti illegittimi che prevedono il pagamento di un indennizzo invece del reintegro sul posto di lavoro. Via libera della Consulta, invece, ai referendum su voucher e responsabilità solidale in materia di appalti. A spiegare che significato abbia per i riformisti italiani  l’esito di questo pronunciamento della consulta è Pietro Ichino, senatore del Pd che intervistato da La Presse.
Giuslavorista, ex sindacalista Fiom fino al ‘73, poi della Camera del Lavoro di Milano fino al ‘79, docente universitario di diritto del lavoro e senatore della Repubblica,  Ichino è stato eletto nelle liste di Scelta civica nel 2013, per poi tornare a febbraio 2015 con tutto il gruppo di SC del Senato nel PD, il partito che ha fondato e nelle cui fila era stato eletto senatore nella precedente legislatura. Teorico della flexsecurity, il modello che si propone di coniugare sicurezza e flessibilità nel mercato del lavoro, già nel 1996 Ichino ha pubblicato un libro, Il lavoro e il mercato, nel quale erano esposti i contenuti essenziali della riforma che è stata varata dal governo Renzi nel 2015. “In  ogni caso il mio periodo di servizio civile in Parlamento si concluderà al termine di questa XVII legislatura”, scrive Ichino nella biografia sul suo sito web.

A botta calda si aspettava che la Consulta dicesse No al referendum della Cgil sull’ Articolo 18?
Confidavo che questo sarebbe stato l’esito. Fin dalla presentazione di questi tre quesiti referendari promossi dalla Cgil non soltanto io, ma numerosi altri giuslavoristi e costituzionalisti avevano rilevato l’evidente inammissibilità di quello sui licenziamenti, per il suo carattere non unitario e per il fatto che era mirato a introdurre una norma nuova, mai esistita nel nostro ordinamento: quella sull’applicabilità del vecchio articolo 18 anche alle aziende con meno di 15 dipendenti fino a un minimo di 5. Viceversa, sugli altri due quesiti si poteva esprimere, e anch’io lo ho espresso. il dissenso più netto; ma non era seriamente sostenibile la loro inammissibilità.  

Dalla Lega arriva subito l’accusa  che la pronuncia della  Consulta sia una sentenza politica gradita a poteri forti. Che cosa risponde?
La Lega ne dice tante… Piuttosto mi chiedo come si concilii questa posizione espressa oggi dalla Lega con quella che la stessa Lega esprimeva nel 2001-2002, quando il suo ministro del Lavoro Roberto Maroni proponeva il superamento dell’articolo 18.

Questa pronuncia della Corte costituzionale va interpretata politicamente come qualcosa che rafforza il governo Gentiloni, in continuità con l’esperienza dell’esecutivo Renzi?
Escluderei in modo nettissimo che questo sia stato l’intendimento da cui la Corte è stata animata. Comunque, credo che le sorti del governo Gentiloni non dipendano se non molto marginalmente dal fatto che a giugno siano previsti questi due referendum. Se si celebreranno, il governo farà bene ad affrontare la prova a testa alta. E sono convionto che avrà molte probabilità di superarla positivamente.

Che significato ha questo referendum abrogativo per i riformisti italiani, dopo il no che ha vinto nel referendum sulle riforme costituzionali?
Un’occasione per mostrare che l’Italia non è così refrattaria alle riforme, come qualcuno potrebbe pensare dopo il risultato del referendum costituzionale.

Lei criticò il quesito proposto dalla Cgil come non unitario e perché portava  all’estensione dell’articolo 18 anche alle piccole medie imprese, nelle quali – lei sostiene – “questa ingessatura non è mai stata giudicata praticabile”. Quali erano i limiti del quesito della Cgil che comunque ha raccolto oltre 3 milioni di firme.
Le firme sono soltanto un milione: diventano tre solo se si moltiplica il dato per i tre quesiti referendari. Quanto al quesito in materia di licenziamenti, ho osservato che secondo la giurisprudenza costante della Corte costituzionale il quesito referendario dovrebbe avere un contenuto unitario; qui, invece, di contenuti ce ne sono addirittura tre: uno sulla disciplina applicabile ai rapporti costituiti prima del marzo 2015, uno su quella applicabile ai nuovi rapporti e uno sulla estensione dell’articolo 18 ripristinato anche a tutte le aziende con più di 15 dipendenti. Quest’ultimo quesito, poi non ha carattere abrogativo, ma propositivo. La riforma costituzionale che istituiva il referendum propositivo è stata bocciata il 4 dicembre.

Questo pronunciamento della Corte costituzionale lei lo considera anche una sua vittoria?
No, lo considero soltanto una conferma che… non sempre il diritto è soltanto un’opinione.

Col quesito della Cgil  sui  voucher   si solleva  il problema degli abusi di questo strumento nel 25% dei casi. E su questo punto dalla Consulta è arrivato il via libera. Come commenta?
Se anche gli abusi di questo strumento ammontassero al 25 per cento dei casi, mi parrebbe una follia ricacciare il restante 75 per cento nell’economia sommersa soltanto per reprimere quegli abusi. Gli abusi si possono e devono individuare e combattere con misure adeguate; ma sarebbe assurdo buttar via un grosso bimbo per liberarsi di poca acqua sporca.

Lei professor Ichino è considerato il mentore della riforma del mercato del lavoro con il contratto a  tutele crescenti, dalla ideazione fino alla stesura dei testi dei primi due decreti legislativi.  È una paternità che lei si riconosce anche rispetto al risultato finale dlela riforma così come è stata approvata in via definitiva?
Vent’anni fa, nel 1996, nel libro Il lavoro e il mercato proposi una riforma profonda del nostro diritto del lavoro, sia sul versante dei licenziamenti, sia sul versante del sostegno ai disoccupati nel mercato, quindi del trattamento economico e dei servizi di assistenza intensiva, i cui contenuti corrispondono sostanzialmente a quelli della riforma del 2015. Poi ho dedicato tutti i vent’anni successivi a sostenere e diffondere le tesi sostenute in quel libro. Fu per portare quelle idee dentro il PD che Walter Veltroni mi candidò al Senato nel 2008. Detto questo, va anche detto che alla redazione di questa riforma hanno contribuito molti altri miei colleghi.

Come valuta gli effetti concreti di applicazione della riforma del jobs act  in vigore dal marzo 2015, anche alla luce dei dati sul lavoro in Italia?
Oltre alla ripresa della crescita del tasso di occupazione generale, di cui ho detto prima, il fatto che due terzi degli 800mila nuovi posti di lavoro creati in due anni siano a tempo indeterminato. Negli ultimi anni fino al 2014 le assunzioni a tempo indeterminato erano state un sesto rispetto al flusso generale delle assunzioni. Inoltre, via via che i contratti a tutele crescenti andranno diffondendosi, aumenterà la mobilità del lavoro, quindi migliorerà l’allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo, con un conseguente aumento della produttività media del lavoro, che a sua volta porterà a un aumento dei redditi da lavoro.

La Cgil è il sindacato che è stato di riferimento per l’area politica per cui lei è stato senatore. Come giudica la scelta di promuovere questo referendum da parte della Cgil?
Mi stupisce, soprattutto, il fatto che in seno alla Cgil non si sia levata neppure una voce di dissenso. La Cgil in cui ho lavorato io per un decennio, negli anni ’70, ma anche quella degli anni ’80, era una organizzazione molto più pluralista, più aperta alla discussione critica.

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