ABUSI DELLE TUTELE: ALCUNE RISPOSTE A LUIGI OLIVERI

TRA PUBBLICO E PRIVATO LE NORME SONO SOLO MARGINAMENTE DIVERSE: QUELLO CHE CONTA È LA VOLONTÀ DEI DIRIGENTI DI DARE IL BUON ESEMPIO, INNANZITUTTO, MA ANCHE DI MOTIVARE I DIPENDENTI, RESPONSABILIZZARLI A LORO VOLTA SU OBIETTIVI PRECISI, CONTROLLARNE LA PRESTAZIONE E DOVE OCCORRE SANZIONARNE GLI ABUSI

Replica all’articolo con cui Luigi Oliveri (da non confondersi con con l’omonimo Dirigente Coordinatore dell’Area Funzionale Servizi alla Persona e alla Comunità della Provincia di Verona, collaboratore del sito lavoce.info) contesta vivacemente i contenuti della mia intervista pubblicata da la Repubblica l’8 gennaio 2017
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La prima parte dell’articolo di L.O. è dedicata a imputarmi la costituzione, a opera della legge Brunetta del 2009, della CIVIT. In proposito posso solo richiamare tutti i miei interventi di quell’anno e dell’anno successivo, reperibili agevolmente nel Portale della Trasparenza e della Valutazione nelle Amministrazioni Pubbliche, nei quali criticai duramente il modo in cui il ministro della Funazione pubblica Brunetta diede attuazione all’idea, contenuta nel mio disegno di legge, di una autorità per la valutazione e la trasparenza nelle amministrazioni pubbliche. Il fallimento della Civit va imputato al ministro della Funzione pubblica dell’epoca, non certo a me. Chiunque può constatare la piena coincidenza tra quanto sostenni allora in numerosi articoli e interviste e quanto il prof. Pietro Micheli contestò al ministro Brunetta dimettendosi dalla Civit.

La seconda parte dell’articolo di L.O. è dedicata invece a sostenere l’irrimediabile diversità del rapporto di lavoro nel settore pubblico rispetto a quello del settore privato. E si conclude proponendo questa alternativa:

Delle due, dunque, l’una:
1. o si va verso una reale privatizzazione non solo delle regole di gestione del rapporto di lavoro, ma anche dell’agire, della PA, che venga esonerata dall’immenso gravame delle regole pubblicistiche da rispettare e del macigno della responsabilità erariale;
2. oppure, si prende atto che il paragone tra PA e “privato” proprio non regge e continua ad essere buono solo per titolo roboanti ed interviste sui media, un po’ per celia, un po’ per non morire, ma con utilità prossima allo zero.

A questo riguardo ricordo a L.O. che la scelta compiuta dal legislatore italiano all’inizio degli anni ’90, confermata con il Testo unico del 2001, corrisponde sostanzialmente alla prima delle due alternative qui proposte. Il “gravame delle regole pubblicistiche” che L.O. denuncia non è costituito dalla disciplina del rapporto di lavoro, che è per la massima parte la stessa dettata per il rapporto nel settore privato, ma da atti amministrativi e contratti collettivi prodotti da un management che non ha ancora fatto propria la cultura della cosiddetta “privatizzazione” dell’impiego pubblico. Quanto al “macigno della responsabilità erariale”, forse L.O. non si è accorto che esso è stato rimosso dall’articolo 55-sexies dello stesso Testo unico. Lo ripeto per l’ennesima volta: la via maestra per far funzionare meglio le amministrazioni è responsabilizzare i dirigenti in relazione a obiettivi precisi, specifici, misurabili; lo prevede già oggi l’articolo 21 del Testo unico del 2001. E tra questi obiettivi ben può figurare anche quello dell’allineamento, almeno tendenziale, del tasso delle assenze rispetto al settore privato. Le norme sono solo marginamente diverse: quello che conta è la capacità dei dirigenti di dare il buon esempio, innanzitutto, ma anche di motivare i propri dipendenti, responsabilizzarli a loro volta su obiettivi precisi, controllarne la prestazione e dove occorre sanzionarne gli abusi.

Sulle responsabilità della dirigenza nella diffusione degli abusi delle tutele da parte dei dipendenti pubblici ho ricevuto proprio in questi giorni due lettere dalle quali traggo i brani assai significativi che seguono.

DA UN EX-DIRIGENTE DELLA BANCA D’ITALIA
[…] Quando ero in servizio attivo presso la mia azienda, responsabile di una divisione composta da oltre quaranta persone, si provvedeva alla programmazione dei turni di ferie per assicurare la copertura di tutti i servizi. Ebbene, quando capitava un ponte o le festività del Ferragosto, o qualche altra ricorrenza festiva che permetteva di allungare l’assenza, puntualmente mi venivano presentate richieste di permessi sindacali o richieste di donazione di sangue. Un malcostume tutto italiano. Ritengo che in altri Paesi la materia sia regolamentata e gestita dai dirigenti con buonsenso e più responsabilità. La donazione si può praticare anche di sabato e domenica, proprio perché è un atto volontario. […]
R.I.

DA UN LAVORATORE PASSATO DA UN’AZIENDA PRIVATA A UN IMPIEGO COMUNALE
[…] Finché ho lavorato alle dipendenze dell’azienda di import-export, ho sempre sentito il dirigente da cui dipendevo dirci che stare a casa per malattia è un diritto di tutti, ma che ogni volta gli altri devono fare il lavoro del malato: dunque, diceva, “ciascuno sia rispettoso dei diritti degli altri e vedrà anche i propri rispettati”. Nessuno si sognava di approfittare della donazione di sangue per farsi un giorno di vacanza, né delle elezioni per farsene tre come rappresentante di lista; nessuno si inventava la nonna invalida per avere i tre giorni di permesso retribuito della legge 104. Da quando sono diventato dipendente comunale, ne vedo di tutti i colori: tutte queste occasioni di assenza retribuita sono sfruttate al massimo grado. Per primi dai dirigenti. Non c’è da stupirsi, dunque, che gli stessi dirigenti non si sognino neppure di arginare gli abusi da parte dei dipendenti. […]
C.C.

 

 

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