IL PICCOLO: INTERVISTA SUI TEMI CALDI DEL LAVORO

SE VOGLIAMO CHE AUMENTI LA DOMANDA DI LAVORO NON C’È ALTERNATIVA ALLA STRATEGIA VOLTA A RENDERE IL NOSTRO PAESE PIÙ ATTRATTIVO PER GLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI: IL CHE IMPLICA LO SVILUPPO DI UNA CULTURA DIFFUSA PIÙ FAVOREVOLE ALLA GLOBALIZZAZIONE E IN PARTICOLARE ALLE IMPRESE MULTINAZIONALI

Intervista a cura di Piercarlo Fiumanò pubblicata sull’inserto mensile NordEst Economia del Piccolo di Trieste – In tema di effetti della riforma del lavoro v. anche gli altri interventi e documenti raccolti nel Portale della riforma del lavoro; sui referendum promossi dalla Cgil v. ultimamente l’articolo di Franco Debenedetti Un’idea di lavoro molto lontana dall’Europa e gli ulteriori interventi cui dalla stessa pagina si può accedere mediante l’apposito link
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Nel 2008, anno della grande crisi, il tasso di disoccupazione in Italia era al 6,7%. Ora siamo al 12%, con 3 milioni di disoccupati. Quali sono le cause strutturali che continuano a penalizzare il mercato del lavoro?
L’Italia oggi, e ormai da anni, soffre di un difetto di domanda di lavoro. Perché questa domanda cresca occorre che aumenti quella che gli economisti chiamano “domanda aggregata”, che è la somma dei consumi e degli investimenti. La debolezza dei consumi, in Italia, dipende dalla paura diffusa riguardo al futuro: dobbiamo ridare sicurezza e fiducia agli italiani. Sul fronte degli investimenti, invece, l’Italia è troppo chiusa a quelli provenienti dall’estero: il nostro flusso in entrata è pari a circa un quarto rispetto alla media dei Paesi UE. Se riuscissimo a riallinearci alla media, questo vorrebbe dire un flusso aggiuntivo di investimenti stranieri pari a 50 o 60 miliardi ogni anno.

Il Jobs Act doveva garantire contratti più stabili rispetto al passato. Secondo i dati Eurostat fra il 2014 e il 2016 in Italia sono stati creati 485mila posti di lavoro e di questi 392mila stabili. Missione compiuta oppure sono necessari correttivi?
Nell’ultimo biennio si è verificato un aumento molto rilevante della quota delle assunzioni a tempo indeterminato sul flusso totale. Ed è aumentata anche la quota del lavoro stabile nello stock degli occupati. Questo è, certo, in larga parte dovuto anche all’incentivo economico; ma senza la riforma della disciplina del rapporto l’aumento sarebbe stato probabilmente molto inferiore. Mi colpisce il fatto che questo risultato molto positivo venga tanto svalutato: capisco che lo si possa svalutare da destra, ma non riesco a capirlo da sinistra.

Secondo la Commissione Europea, mentre la disoccupazione cresce, l’occupazione cala, dopo due anni, a causa della fine dagli incentivi fiscali per le nuove assunzioni. Come intervenire?
La Commissione non dice questo: il tasso di occupazione non cala affatto, bensì continua a crescere, anche se meno rapidamente nel 2016 rispetto al 2015. Si riduce soltanto il tasso di crescita, che è una cosa ben diversa. Quanto alla crescita della disoccupazione, nell’ultima rilevazione mensile, in una situazione in cui aumenta anche il tasso di occupazione, il dato si spiega con il ridursi degli inattivi, cioè di coloro che non solo non hanno un lavoro, ma neppure lo cercano. Questo significa che aumenta il numero di persone fiduciose di poter trovare un’occupazione rimettendosi a cercarla: se è così, paradossalmente, anche questo aumento costituisce un fatto positivo.

La Corte Costituzionale, nelle motivazioni circa l’ammissibilità del referendum proposto dalla Cgil, scrive che nella disciplina che regola i voucher manca qualsiasi riferimento alla occasionalità della prestazione lavorativa. Il governo dovrebbe proporre altre modifiche dopo le norme sulla tracciabilità?
Nel mese di gennaio 2017 si è già registrata una riduzione dell’acquisto di buoni-lavoro intorno al 25% rispetto al 2016, che è probabilmente l’effetto della correzione della disciplina contenuta nel decreto correttivo, dell’autunno scorso. Se il dato si confermerà su base annua, a fine anno si registrerà una riduzione dai 130 del 2016 a circa 100 milioni di voucher venduti. Segno che la correzione ha inciso. A quella correzione mi parrebbe utile aggiungere ora il divieto di utilizzazione dei voucher nel settore edilizio e da parte delle imprese di maggiori dimensioni, consentendo a queste di ricorrere più ampiamente, per il lavoro non continuativo, al contratto di lavoro intermittente.
Ci sono state responsabilità delle imprese nell’abusare dello strumento?
Sì, ma non nella misura che la Cgil sostiene. I 130 milioni circa di ore di lavoro accessorio che si sono registrate nel 2016 non costituiscono certo “l’evidenza dell’abuso”, in un Paese in cui le ore di lavoro complessivamente svolte ogni anno si contano in decine di miliardi. E quando veramente di lavoro accessorio si tratta, sopprimere i voucher significa impedire che quelle occasioni di lavoro e di reddito possano essere valorizzate in forma regolare. Per questo motivo, eliminare lo strumento per impedire gli abusi mi sembra gravemente sbagliato: come buttare via un grosso bambino con poca acqua sporca.

Si andrà in pensione sempre più tardi. La quota di occupati ultracinquantenni è cresciuta del 5% mentre il precariato giovanile resta un’emergenza. Oltre al fattore demografico c’è anche una tensione costante fra generazioni. Che ne pensa?
Noi non possiamo pensare di risolvere il problema della disoccupazione giovanile tornando ad abbassare l’età della pensione. I Paesi con il tasso più alto di occupazione degli anziani sono anche quelli nei quali è più alto il tasso di occupazione dei giovani. Perché in quei Paesi la spesa sociale non consiste nel prepensionare i cinquantenni o i sessantenni, ma nel finanziare servizi per le persone, le famiglie o le comunità locali che ne hanno davvero bisogno; e l’attivazione di quei servizi crea domanda di lavoro rivolta soprattutto ai giovani.

Perchè l’Italia cresce poco?
Perché è appesantita da un debito enorme che assorbe troppe risorse distogliendole dagli investimenti; poi è appesantita da un sistema di amministrazioni pubbliche complessivamente meno efficienti rispetto al resto d’Europa, da un costo dell’energia più alto e da un mercato del lavoro privo dei servizi necessari per promuovere il passaggio dei lavoratori dalle imprese marginali a quelle più forti. Una conseguenza di questi quattro difetti è, tra l’altro, la scarsa attrattività del Paese per gli investimenti stranieri, di cui abbiamo parlato prima.

Nell’era del nuovo protezionismo come rilanciare la politica industriale e la forza competitiva delle nostre imprese?
Correggendo i quattro grandi difetti di cui ho appena parlato.

L’italianità va difesa in una fase in cui molte nostre aziende sono nel mirino di gruppi stranieri?
L’Italia non ha bisogno di imprese “italiane”, ma delle imprese che sanno valorizzare meglio il lavoro degli italiani, da qualsiasi parte del mondo vengano. La diffidenza bi-partisan diffusa nel nostro Paese nei confronti delle multinazionali straniere è una forma di provincialismo, che affligge anche la nostra politica e che ha fatto molto danno alla nostra economia. Abbiamo 20.000 multinazionali italiane che operano anche all’estero, e solo 13.500 multinazionali straniere che operano in Italia: dobbiamo puntare ad avere 20.000 anche di queste ultime, cioè a pareggiare il conto con quelle italiane operanti all’estero.

Rispetto all’industria avanza il terziario avanzato e l’industria dei servizi legati alle nuove tecnologie: dalle consegne a domicilio alla sharing economy. Con quale impatto sul mercato del lavoro? E come governare questi cambiamenti?
L’aumento della quota dei lavoratori occupati nel settore dei servizi è un fenomeno che caratterizza tutte le economie mature, spingendole verso il modello dell’economia “post-industriale”. Questo mutamento, che non è in sé negativo: basti pensare anche solo al fatto che porta con sé una tendenza epocale alla riduzione degli infortuni sul lavoro; richiede però che il mercato del lavoro sia innervato di servizi nuovi e molto più sofisticati rispetto al passato, e in particolare che si investa molto di più sui servizi di orientamento scolastico e professionale. Senza i quali i ragazzi che escono dal sistema scolastico sono sempre più in difficoltà nel mercato del lavoro. Compiono le scelte decisive per la loro vita futura ignorando totalmente ciò che li attende in un mondo dedicato prevalentemente alla produzione di servizi tecnologicamente molto evoluti.

Che cosa pensa della crescente richiesta di flessibilità sul lavoro in particolare a Nordest dove ci sono grandi gruppi come Electrolux nei quali la variabile lavoro è sempre più dipendente dalla produzione e dalle congiunture del mercato. Come disciplinare questa materia?
Questa materia deve essere riservata il più possibile alla contrattazione collettiva, e soprattutto a quella aziendale, che sola può conoscere e soddisfare le esigenze di ciascuna impresa e dei suoi dipendenti, conoscendole da vicino.

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