A CHE PUNTO È L’ITALIA SUL FRONTE DEL LAVORO

COME SI PUÒ E DEVE RAFFORZARE LA CRESCITA ECONOMICA E OCCUPAZIONALE, RIDUCENDO IL “CUNEO” CONTRIBUTIVO E APRENDO IL PAESE AGLI INVESTIMENTI DALL’ESTERO – E DOPO I VOUCHER, CHE COSA?

Intervista a cura di Giovanni Francesco Cassano, in corso di pubblicazione sul numero di aprile 2017 del mensile AZ Franchising – In argomento v. anche Ancora disinformazione sugli effetti della riforma del lavoro
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Buon giorno Senatore Ichino. In questi ultimi giorni sono stati pubblicati (Sole 24 Ore del 10 marzo) i dati Istat sulla disoccupazione contenenti informazioni  interessanti sul fronte dell’occupazione stabile nel nostro Paese e sulla riduzione del tasso di disoccupazione. Non sono mancate le critiche su questi dati considerati, ancora, un risultato non in linea con le performance europee.
La distanza tra l’Italia e la media UE è ancora rilevante. Però, se il nostro tasso di occupazione continuerà a crescere come è cresciuto nell’ultimo biennio, nel giro di pochi anni avremo colmato il gap.

Disoccupazione giovanileLei ritiene che, a livello di segmenti di età, vi siano segnali realmente confortanti circa una ripresa economica ed occupazionale sostenuta da altri indicatori importanti?
La ripresa economica c’è. Ancora lenta, ma c’è, e sembra consolidarsi. Quanto alla ripresa occupazionale, anch’essa nell’ultimo biennio si è fatta sentire, ma si è concentrata sulla parte più matura della forza-lavoro, mentre ne ha beneficiato pochissimo il segmento giovanile. Questo è il motivo per cui con la finanziaria 2017 il Governo ha deciso di concentrare solo sui giovani la decontribuzione nella sua versione più robusta. Si può sperare che questa misura produca dei buoni risultati; se invece così non fosse, sarebbe il segno – io dico: la conferma – che il problema della disoccupazione giovanile ha una causa strutturale specifica, che ancora non siamo riusciti neanche a scalfire.

Quale causa strutturale specifica?
La mancanza pressoché totale di un servizio di orientamento scolastico e professionale capillare, moderno ed efficace, del tipo dei career services o guidance services che funzionano nel centro e nord-Europa: dove alla fine di ciascun ciclo scolastico ogni adolescente viene preso in carico da un servizio capace di individuare le sue capacità, le sue aspirazioni, e di informarlo compiutamente sui percorsi possibili per raggiungere uno sbocco occupazionale adatto a quelle capacità e aspirazioni, sui relativi corsi di formazione disponibili e sulle probabilità che ciascun corso offre di uno sbocco occupazionale coerente con la formazione impartita.

Possono essere solo gli investimenti stranieri, in assenza di una ripresa della domanda interna, a sostenere una costante riduzione del tasso di disoccupazione?
La domanda di lavoro è determinata dalla domanda aggregata, che è la somma di consumi e investimenti. Si sente molto parlare di necessità di più robusti investimenti pubblici; ma con quali risorse potrebbe far aumentare gli investimenti pubblici uno Stato che non può stampare moneta, non può aumentare le tasse, anzi deve ridurle, non può aumentare l’indebitamento, anzi deve ridurlo? Così stando le cose, l’unica leva su cui possiamo agire per aumentare la domanda di lavoro oggi, a parte stimolare i consumi interni, è rendere il Paese più attrattivo per gli investitori stranieri.

Qualcuno sostiene che è una partita persa. Secondo lei è ragionevole pensare che ci si possa riuscire?
La media UE è di un afflusso di investimenti diretti esteri pari al 4,5 per cento annuo rispetto al P.I.L.; l’Italia è oggi all’incirca all’1 per cento. Questo significa che abbiamo ragionevolmente un margine di miglioramento pari all’incirca al 3,5 per cento del nostro P.I.L.: che vuol dire la possibilità di circa 50 o 60 miliardi all’anno in più di investimenti, che portano con sé piani industriali capaci di valorizzare il lavoro degli italiani, quindi anche di aumentare il reddito dei lavoratori, a parità di altre condizioni meglio di quanto sanno fare i nostri imprenditori indigeni.

Cuneo sulle buste-pagaSi parla, in questi giorni, di nuovi interventi sul “cuneo” fiscale e contributivo per ridurre il costo del lavoro allineandolo a quello degli altri Paesi della comunità. Quali potrebbero essere tali interventi e con quali prospettive?
L’obiettivo che il Governo si è proposto è quello di allineare in via strutturale il cuneo fiscale e contributivo italiano a quello tedesco, in particolare di portare il contributo pensionistico dall’attuale 31 per cento al 25 della retribuzione lorda. L’idea è di incominciare con alcune categorie di lavoratori oggi fortemente penalizzate sul piano occupazionale, dunque giovani e donne, per poi estendere gradualmente la riduzione alla generalità dei lavoratori dipendenti.

Con quali risorse?
Il costo è all’incirca di un miliardo e mezzo all’anno per ogni punto di riduzione, se riferito alla generalità dei lavoratori dipendenti. Qualche giorno fa il vice-ministro Enrico Morando ha risposto così alla domanda circa le risorse con cui si può far fronte a questo costo: “Con un drastico riequilibrio pro-crescita e pro-labour tra prelievo su lavoro e impresa, da diminuire e non di poco, e prelievo sui consumi. Con un migliore contrasto all’evasione, certo, ma senza considerare tabù il tema delle aliquote Iva e della ridislocazione dei diversi beni e servizi tra aliquota ordinaria e aliquota agevolata del 10 per cento”.

A distanza di due anni dal Jobs Act è possibile fare qualche considerazione circa gli effetti di tale provvedimento sul mercato del lavoro, considerate le critiche?
Credo che all’aumento dell’occupazione registrato nell’ultimo biennio questa riforma abbia contribuito, ma sia molto difficile stabilire quanto di questo aumento ci sarebbe stato comunque, per effetto di una ripresa economica spinta dalla congiuntura positiva continentale e mondiale. La riforma ha sicuramente dato un contributo anche all’aumento impressionante della quota delle assunzioni a tempo indeterminato sul flusso totale delle assunzioni, ma solo le indagini degli economisti ancora in corso ci diranno quanta parte di queste assunzioni stabili si sarebbe comunque determinata anche solo per effetto dell’incentivo economico della decontribuzione con cui la riforma è stata accompagnata. Gli effetti di una riforma organica come questa non si possono misurare con precisione nel breve termine. Però una cosa è certa: essa ha allineato il nostro diritto del lavoro agli standard dei Paesi dell’occidente più avanzato, rendendo più fluido il nostro mercato del lavoro, rafforzando e rendendo veramente universale il trattamento di disoccupazione, e nel contempo più attrattivo il nostro Paese per gli investitori stranieri.

buono lavoroL’esecutivo ha deciso, proprio in questi giorni, di eliminare dal nostro ordinamento i buoni lavoro (i c.d. voucher), riservandosi di colmare il vuoto che così si viene a creare con un nuovo provvedimento legislativo. Per le aziende, in concreto, quale scenario si prospetta ora, in presenza di un fabbisogno endemico di prestazioni occasionali o di tipo accessorio?
Il vuoto deve essere riempito al più presto. Un modo in cui lo si può fare consiste nel mettere molto rapidamente a punto, in modo che possa essere a disposizione delle famiglie e delle Onlus entro maggio, uno strumento simile agli chêques-emploi francesi, che incorporano anche un contributo pubblico a sostegno dei servizi alla famiglia e alle persone in situazione di bisogno, e che sono gestiti interamente per via telematica. Alle imprese, invece, potrebbe essere messo a disposizione uno strumento costruito sul modello dei mini-jobs tedeschi, coniugato con le caratteristiche del lavoro a chiamata.

Un ritorno, almeno per le aziende, al potenziamento del lavoro a chiamata (o intermittente), è pensabile nonostante la freddezza della contrattazione collettiva su questa tipologia contrattuale e l’ostilità dei sindacati?
Se il lavoro a chiamata è utilizzato correttamente e in modo trasparente, Cisl e Uil non sono contrarie. D’altra parte, non si può dimenticare che nel decreto legislativo n. 81/2015 gli spazi per il lavoro a chiamata vennero drasticamente ridotti, in considerazione dell’aumento degli spazi per l’utilizzazione dei buoni-lavoro utilizzabili da parte delle imprese. Ora che si aboliscono i buoni-lavoro logica vuole che si riallarghi lo spazio per il lavoro a chiamata, se non vogliamo che gran parte delle occasioni di lavoro accessorio finiscano per tornare nell’economia sommersa o si perdano del tutto.

Un altro provvedimento in dirittura d’arrivo è quello sulla riforma del lavoro autonomo. Riconoscere che il lavoro autonomo, per come è evoluto in questi anni a seguito sia delle trasformazioni sociali sia per la crisi, necessiti di nuove protezioni può essere considerato il traguardo o una tappa verso una nuova visione delle attività umane e delle tutele possibili?
Il disegno di legge sul lavoro autonomo, approvato in seconda lettura con modifiche dalla Camera, è tornato al Senato assumendo il numero 2233-B ed è attualmente all’esame della Commissione Lavoro, dalla quale era stato originariamente redatto. Penso che verrà approvato dal Senato senza modifiche, quindi in via definitiva, entro aprile. Per la parte relativa al lavoro autonomo questo provvedimento costituisce una svolta molto rilevante e positiva. Ho invece qualche perplessità sulla seconda parte, quella dedicata al cosiddetto “lavoro agile”, cioè al lavoro subordinato che si svolge in parte senza vincolo di luogo e di tempo: qui vedo qualche eccesso di regolazione e di oneri burocratici, che avrebbe dovuto essere evitato.

Le nuove tecnologie stanno apportando al mondo del lavoro cambiamenti epocali ad una velocità maggiore del passato. Può essere il provvedimento sul lavoro agile (smart working) la risposta?
Potrebbe, sì. Se non mettiamo piombo nelle ali del “lavoro agile”. Temo che il disegno di legge in dirittura di arrivo al Senato, per questo aspetto, contenga qualche peso di troppo.

RobotNon sarebbe ragionevole, già ora, cominciare ad aprire un dibattito per valutare gli impatti che i nuovi “sistemi” avranno su specifiche categorie di lavoratori, rendendoli obsoleti, per identificare i settori che saranno maggiormente penalizzati al fine di creare percorsi mirati di riqualificazione e formazione continua?
In sede scientifica il dibattito è già aperto. Sul piano operativo, il problema è di disporre di strutture agili e reattive, capaci di mettere in tempi molto brevi a disposizione dei lavoratori interessati i corsi di riqualificazione professionale mirati ai nuovi sbocchi occupazionali.

Ma ci saranno nuovi sbocchi occupazionali? C’è chi teme che la domanda di lavoro umano sia destinata a ridursi drasticamente
La domanda di lavoro umano è potenzialmente illimitata: basti pensare al bisogno illimitato che l’umanità, e il nostro Paese in particolare, hanno nel campo dell’istruzione ed educazione, dell’assistenza medica e paramedica, del sostegno agli anziani soli e alle persone non autosufficienti, della ricerca, della diffusione delle conoscenze, dei servizi alle comunità locali, della protezione ambientale, dell’intrattenimento, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il problema non è costituito dall’entità della domanda potenziale, ma dai diaframmi che l’ordinamento e la cultura frappongono tra domanda e offerta di lavoro. Talvolta per ragioni ottime, talvolta per ragioni meno apprezzabili.

Nella stessa ottica si può ragionare in termini di nuovi modelli organizzativi del lavoro all’interno delle aziende?
Ovviamente sì: l’innovazione è continua.

Ma potrà essere sempre la variabile tempo il parametro di riferimento della prestazione lavorativa o potrebbe essere necessario uscire da tale vincolo per tornare verso una misurazione per obiettivi?
La caratteristica strutturale essenziale dell’obbligazione lavorativa dipendente è costituita dall’avere per oggetto una attività e non un risultato non perderà la sua attualità: continueremo ad avere come forma normale di lavoro quella tradizionale, nella quale la prestazione lavorativa è al tempo stesso illimitatamente divisibile in ragione del tempo e misurabile in ragione del tempo. Le nuove tecnologie, però, renderanno sempre più largamente possibile l’attivazione di forme di organizzazione di una prestazione lavorativa durevole nel tempo, ma non più misurabile in ragione del tempo, bensì in ragione dei risultati. Questo imporrà certamente anche un aggiornamento e adattamento dei contenuti del diritto del lavoro.

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