IL CONFLITTO POLITICO NELL’ERA DEI POPULISMI

“Oggi, per leggere i conflitti politici in corso nelle società occidentali, non si può fare a meno di un’altra, in gran parte nuova, opposizione dicotomica: quella fra apertura e chiusura”

Luca RicolfiPagine estratte dal capitolo conclusivo del libro di Luca Ricolfi (sociologo, professore nell’Università di Torino), Sinistra e Popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi (Longanesi, 2017, € 16,90), qui riprodotte per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore – Altri documenti e interventi in argomento sono raccolti in questo sito nel portale Il nuovo spartiacque della politica mondiale     .
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Dichiarata estinta innumerevoli volte nel corso del XX secolo, la dicotomia fra destra e sinistra non sembra ancora pronta ad abbandonare il campo neppure oggi, all’inizio del terzo millennio. Che si parli di conservatori e progressisti, di liberali e socialisti, di Repubblicani e Democratici, il conflitto politico nelle moderne società democratiche pare tuttora prigioniero delle categorie del Novecento.

Certo, sul modo di usare quelle categorie c’è ancora tensione. Alla sinistra piace tuttora pensare, appoggiandosi sull’autorità di Norberto Bobbio, che sinistra significhi perseguire l’ideale dell’eguaglianza, e destra quello della diseguaglianza.

Sinistra e popolo_Esec.inddMa questa visione era stata confutata da Hayek prima ancora che Bobbio la enunciasse nel suo fortunato libriccino su Destra e sinistra (1994). In Perché non sono un conservatore (1960) Hayek, con una generosità teorica sconosciuta a Bobbio, riconosceva all’avversario politico (il progressismo socialista) di perseguire un nobile ideale, quello dell’eguaglianza, ma rivendicava alla propria parte politica (il liberalismo) di perseguirne a sua volta uno, quello della libertà. Nella concezione di Hayek, assai più aderente di quella di Bobbio alla storia del secondo Novecento, la struttura del conflitto politico, per quanto assuma spesso l’aspetto di una tensione fra destra e sinistra, non è di tipo bipolare ma è essenzialmente tripolare. A un polo i conservatori, che si oppongono al cambiamento in nome della tradizione e a tutela dei privilegi dei ceti superiori. Agli altri due poli del «triangolo di Hayek» socialisti e liberali, che vorrebbero entrambi cambiare lo stato di cose esistente ma «tirano» in direzioni opposte: i socialisti verso una società più eguale, i liberali verso una società più libera.

Alla destra la versione di Hayek risulta ovviamente più congeniale di quella alquanto partigiana di Bobbio, ma restituisce un non piccolo problema di identità. Se si accetta il «triangolo di Hayek», essere di destra può significare due cose alquanto diverse: frenare il cambiamento e difendere la tradizione, oppure promuovere il cambiamento e ampliare le libertà (soprattutto in economia). Due possibilità che, in forme più o meno pure, si sono effettivamente alternate più volte, sia in Europa sia negli Stati Uniti: De Gaulle versus Thatcher, Eisenhower versus Reagan.

E ora?

Qual è la logica del conflitto politico nelle società democratiche del XXI secolo? Il fatto che si continui a parlare di destra e sinistra significa che il nucleo del conflitto è sempre il medesimo? O hanno ragione quanti affermano che destra e sinistra sono un retaggio del passato, e che quella dicotomia non è più in grado di descrivere la realtà?

Da un certo punto di vista non hanno torto quanti continuano a parlare di destra e sinistra, se non altro perché la distinzione permane nelle teste degli elettori. Ma qual è il senso di questa distinzione nel XXI secolo?

Qui le cose si complicano. Il problema è che quel che ha smesso di funzionare non è solo lo schema di Bobbio, ma è anche quello di Hayek.

Lo schema di Bobbio, pur alquanto avaro nei confronti dei valori della destra, aveva una sua ragion d’essere nelle vicende del « secolo breve », perché la doppia dicotomia eguaglianza/disuguaglianza e libertà/autorità (in realtà: democrazia versus dittatura) permetteva di incasellare nitidamente i quattro regimi politici fondamentali dell’Europa del Novecent0

Se si accetta questo schema, sinistra significa primato dell’eguaglianza, che può prender forma come socialdemocrazia o come comunismo; destra significa primato della diseguaglianza, che può prender forma come liberaldemocrazia o come fascismo. Il problema è che, dopo la caduta degli ultimi fascismi (1974-1975) e la dissoluzione dell’impero sovietico (1989-1991), con l’uscita del fascismo e del comunismo dal novero dei regimi realisticamente possibili in Occidente, lo schema di Bobbio non poteva continuare a nascondere tutta la sua povertà (e tutto il suo strabismo): dire che sinistra è aspirazione all’eguaglianza, e destra accettazione o addirittura perseguimento della diseguaglianza può essere gratificante per chi si sente di sinistra, ma non rende certo giustizia alle ragioni della destra. Il funzionamento dei sistemi democratici usciti dalla seconda guerra mondiale non è riducibile alla dialettica fra l’idealismo egualitario della sinistra e il conservatorismo inegualitario della destra.

È qui che interviene lo schema di Hayek. Pensato per descrivere il conflitto politico entro i regimi democratici, lo schema tripolare dell’economista austriaco ha il merito di sottrarre alla sinistra il suo (ingiustificato) monopolio del cambiamento, e di fornirci una versione più articolata della destra. Senza la distinzione fra una destra conservatrice e una liberale, non sarebbero raccontabili le rivoluzioni liberiste della signora Thatcher e di Ronald Reagan, campioni della destra ma tutto tranne che leader conservatori.

E tuttavia, nonostante la sua maggiore ricchezza rispetto a quello di Bobbio, anche lo schema di Hayek pecca di semplicismo. Esso descrive bene, molto meglio di quello di Bobbio, il funzionamento politico dei sistemi democratici entro i confini del «secolo breve», ma diventa inadeguato per descrivere quel che è accaduto dopo, fra i primi anni Novanta e il decennio della «lunga crisi» (2007-2016).

Due fatti, in particolare, hanno profondamente alterato il palcoscenico della politica.

Il primo è la conversione della sinistra, in Europa come in America, alla filosofia del mercato. Ciò ha condotto, quasi ovunque, alla formazione di due sinistre, una riformista, meritocratica, modernizzatrice, fiduciosa nelle virtù dello scambio; l’altra ostile al mercato ed essenzialmente conservatrice, in quanto impegnata a preservare le conquiste politiche e sindacali dei gloriosi trent’anni di edificazione dello stato sociale (1945-1975). Di qui una certa obsolescenza dello schema di Hayek, che prevedeva due destre ma una sola sinistra. Oggi, una descrizione minimamente accurata della lotta politica nelle società democratiche non può non vedere che, come esistono due destre, una conservatrice e l’altra liberale, così esistono due sinistre, una riformista e l’altra a suo modo conservatrice.

Il tutto con una curiosa torsione semantica del termine «radicale», che a destra rimanda alla componente innovatrice della destra stessa, quella che ha promosso la rivoluzione liberista degli anni Ottanta e Novanta, mentre a sinistra viene usato per qualificare la componente conservatrice, quella il cui radicalismo sta nell’opporsi a ogni modernizzazione della tradizione socialista e socialdemocratica.

Il secondo fatto che ha cambiato la scena della politica è l’irruzione dei movimenti populisti, in Europa come in America. Questo processo, iniziato nell’ultimo scorcio del XX secolo ma pienamente dispiegato negli anni della crisi, ha profondamente ristrutturato lo spazio politico, rendendo insufficiente anche lo schema di Hayek « allargato », con due destre e due sinistre. Oggi, per leggere i conflitti politici in corso nelle società occidentali, non si può fare a meno di un’altra, in gran parte nuova, opposizione dicotomica: quella fra apertura e chiusura.

Qualche tipo di chiusura, infatti, è quasi universalmente la cifra dei movimenti populisti. Una cifra che è evidente nel populismo di destra, quando invoca la chiusura delle frontiere contro l’afflusso dei migranti. Ma è presente, in modo meno immediatamente visibile, anche in diverse rivendicazioni dei partiti populisti di sinistra: protezione delle industrie nazionali, isolazionismo e non-interventismo in politica estera, opposizione alle ingerenze delle autorità sovranazionali nelle politiche dei singoli Stati.

Di qui una conseguenza cruciale. L’ascesa dei movimenti populisti, quasi sempre portatori di qualche istanza di chiusura, accentua il processo di convergenza fra quelle forze politiche che, negli ultimi decenni, hanno puntato tutte le loro carte sull’apertura nelle sue varie possibili declinazioni: libera circolazione delle merci; libera circolazione dei capitali; libera circolazione delle persone. Ma anche, nell’era di internet, libera, gratuita e illimitata circolazione dei segni: informazioni, immagini, prodotti dell’ingegno, software, dati, musica, video, messaggi pubblicitari. Con buona pace del diritto d’autore e dei milioni di posti di lavoro che quel tipo di libertà ha distrutto.

Ma quali sono le forze politiche dell’apertura?

Fondamentalmente, sono le forze che, a sinistra come a destra, più hanno creduto nel mercato e nei valori della civiltà liberale: tolleranza, diritti umani, merito, competizione, mercato. Dunque, innanzitutto la destra liberale, quella che piaceva a Hayek, e la sinistra riformista, quella per la quale Giddens ha elaborato la dottrina della Terza via. In altre parole: la destra e la sinistra innovatrici, contrapposte alla destra e alla sinistra conservatrici.

È potuto accadere, così, che sinistra e destra ufficiali, nonostante la diversità delle rispettive stelle polari (uguaglianza e libertà), si siano spesso trovate in relativa sintonia grazie alla comune accettazione del mercato come cruciale strumento di regolazione sociale; e quando l’ascesa dei movimenti populisti, di destra e di sinistra, ne ha eroso il consenso al punto da non consentire la formazione di governi politicamente omogenei, non abbiano avuto difficoltà a formare governi di più o meno grande coalizione, spesso guidati o sostenuti sia dal primo partito della sinistra sia dal primo partito della destra. In anni relativamente recenti è accaduto in Israele (2001-2003), Austria (dal 2006 a oggi), Germania (2005- 2009, dal 2013 a oggi), Italia (2012-2014), Grecia (2012- 2014). Una logica, quella dei governi di larga coalizione, che da tempo presiede anche alla formazione della Commissione Europea, dove socialisti, popolari e liberaldemocratici condividono responsabilità istituzionali e di governo.

Né si pensi che la convergenza fra le forze politiche dell’apertura, quale che sia il colore politico con cui si presentano, assuma solo le sembianze di un patto di governo, stipulato per arginare populismi più o meno aggressivi. In Italia, ad esempio, già negli anni Novanta Marco Revelli descriveva (provocatoriamente) la situazione politica del paese con la formula delle « due destre », una al governo e l’altra all’opposizione, ma entrambe pro-mercato e pro-impresa, accomunate dalla volontà di smontare il patto socialdemocratico dei gloriosi trent’anni. Chi erano queste « due destre »?

Per Revelli erano la destra-destra di Berlusconi (allora all’opposizione) e la destra camuffata da sinistra di Prodi e del suo Ulivo. Due destre accomunate dall’obiettivo di smantellare il compromesso socialdemocratico dei gloriosi trent’anni, per offrire una sponda al processo di ristrutturazione post-fordista allora in corso nel mondo produttivo. Due destre diverse per i mezzi usati e i settori di ceto medio cui si rivolgevano, ma sostanzialmente simili per la comune fiducia nel mercato capitalistico e nelle sue regole.

Ma il caso più perfetto, da manuale, di convergenza fra le forze dell’apertura viene dagli Stati Uniti. Nella campagna per le elezioni presidenziali del 2016, di fronte all’ascesa del « cattivo » Donald Trump, personificazione insuperabile di tutti i difetti del populismo, si è formata la più perfetta delle convergenze fra tutte le forze dell’apertura, raccolte sotto le ampie ali di Hillary Clinton. Come ha osservato il sociologo sloveno (e marxisteggiante) Slavoj Žižek:

Ci sono dentro tutti, da Wall Street ai sostenitori di Sanders, fino ai superstiti del movimento Occupy, dalle grandi multinazionali ai sindacati dei lavoratori, dagli ex combattenti dell’esercito agli LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender), dagli ambientalisti alle femministe, fino agli esponenti più « sensati » dello schieramento repubblicano, spaventati dalle contraddizioni di Trump e dalle sue proposte demagogiche e irresponsabili.

La domanda di Žižek è: qual è il senso, il vero colore, di questa santa alleanza? Ed ecco la risposta:

Il messaggio lanciato alla sinistra è questo: potete lottare per qualsiasi cosa, ma noi vogliamo tenerci l’essenziale, ovvero il funzionamento senza ostacoli del capitale globale. Lo slogan « Yes, we can! » del presidente Obama assume un nuovo significato: sì, siamo pronti ad accogliere tutte le vostre istanze culturali… ma senza mettere in pericolo l’economia globale di mercato.

Si può discutere a lungo sul colore politico del nuovo schieramento, ed è certo una (sia pur felice) forzatura del linguaggio parlare di «due destre» per qualificare le forze politiche che puntano su libero mercato, individualismo, meritocrazia, globalizzazione. Altrettanto bene, pensando agli Stati Uniti, si potrebbe parlare di due liberalismi, quello liberal dei democratici e quello liberista dei repubblicani benpensanti, non stregati dalle sirene del populismo. Ma resta il fatto obiettivo della sostanziale convergenza di quelle che un tempo erano considerate alternative politiche nette, non facilmente conciliabili fra loro.

La realtà, forse, è che destra e sinistra sono categorie del Novecento, sempre meno capaci di descrivere il mondo che trent’anni di globalizzazione e dieci anni di crisi ci hanno consegnato. Perché in questo tipo di mondo, alla dialettica fra conservazione e cambiamento, fra uguaglianza e libertà, che fino a ieri ci affannavamo a leggere con le antiche categorie di «destra» e «sinistra», si sta oggi sovrapponendo una dialettica nuova.

Da un lato le forze dell’apertura, che promuovono l’innovazione e gli scambi in tutti i campi: merci, capitali, persone, segni. Il loro comune denominatore è la sostanziale condivisione di tutti i sogni (e i principali dogmi) della cultura liberal quale si è andata consolidando negli ultimi decenni: accettazione del mercato, individualismo, etica della generosità, cosmopolitismo, interventismo umanitario, governo sovranazionale dell’economia e dei flussi migratori. Questa visione del mondo non è né di destra né di sinistra, perché nella maggior parte dei paesi occidentali è sostanzialmente condivisa dalla sinistra e dalla destra ufficiali, ovvero dai partiti che per decenni si sono alternati al governo.

Dall’altro le forze della chiusura, il cui tratto distintivo non è di volere la chiusura in tutti gli ambiti, ma di volerla in alcuni e non in altri. Per esse lo Stato nazionale non è il fine ma il mezzo che può assicurare la protezione della comunità dai pericoli che la minacciano. Pericoli che, è bene sottolinearlo, possono essere estremamente diversi da caso a caso, e possono dar luogo a forme di populismo notevolmente differenti. Per il populismo di sinistra, ad esempio, i pericoli vengono dalla circolazione « selvaggia » dei capitali e dalle ingerenze degli organismi sovranazionali. Per quello di destra dagli immigrati e dal terrorismo islamico. Curiosamente, per nessuno dei due populismi dalla circolazione dei segni e da internet, che piacciono a tutti pur essendo uno dei veicoli più potenti della globalizzazione.

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