SE I LAVORATORI DELL’ATAC RIFIUTANO DI LAVORARE

L’azienda dei trasporti municipali romana non deve chiedere il permesso né ai sindacati, né ai singoli dipendenti, per disporre che questi ultimi svolgano le mansioni effettivamente utili e non restino imboscati negli uffici, dove non servono

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Rubrica
Buongiorno di Mattia Feltri, sulla Stampa del 20 maggio 2017 – Segue una mia breve nota tecnico-giuridica – Il caso descritto da Mattia Feltri fornisce un motivo in più per sostenere il referendum per la messa a gara del servizio dei trasporti municipali romani         .
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Controllori AtacVirginia Raggi aveva avuto l’idea giusta. Siccome: 1) A Roma, secondo stime abbastanza generose, un passeggero su quattro non paga la corsa in autobus, in tram, e nemmeno in metropolitana. 2) Questa forma spontanea di welfare, volgarmente detta dei “portoghesi”, costa all’azienda dei trasporti fra i 70 e gli 80 milioni di euro all’anno. 3) I dipendenti della medesima azienda sono lo sproposito di 11mila e 900, ma soltanto trecento fanno i controllori, e gli altri rimangono in ufficio a sbrigare faccende per cui basterebbe la metà del personale. Ecco, premesso tutto questo, il sindaco aveva deciso di spostare un po’ di amministrativi, circa mille e 400, e per un solo giorno a settimana, a turno, sui mezzi di trasporto della città per dissuadere un po’ di volponi dal viaggiare senza biglietto. Grande Raggi: aveva trovato anche l’accordo coi sindacati. Miracolo, no? Magari, perché ora si è scoperto che alcune centinaia di dipendenti hanno lasciato i sindacati con cui era stata firmata , così che non saranno obbligati a uscire dall’ufficio. E un altro centinaio abbondante ha chiesto la visita medica: sarà una sfilata di alluci valghi e gomiti della lavandaia, infermità gravemente invalidanti in vista di un impiego sulla strada. Vedrete, aumenteranno. E l’intesa salterà. Se Raggi vuole andare sotto la sede dell’azienda a gridare “onestà onestà”, stavolta siamo con lei.

Nota tecnica

Questo Buongiorno di Mattia Feltri fotografa bene quel che accade nelle amministrazioni e aziende pubbliche, quando – come nella maggior parte dei casi purtroppo accade – i loro dirigenti abdicano alle proprie prerogative manageriali. Come in questo caso. Un dirigente che si rispetti, sia esso di azienda pubblica o privata, non ha alcun bisogno di un accordo sindacale per disporre che gli addetti a una determinata funzione risultanti in soprannumero  si spostino a svolgere una funzione diversa, purché compatibile con il loro inquadramento professionale. A chi rifiuti questa diversa utilizzazione – che nel caso qui descritto non configurerebbe neppure un trasferimento, ma solo un mutamento di mansioni rientrante pienamente nell’ordinario potere direttivo-organizzativo dell’imprenditore – un dirigente che si rispetti direbbe: “Amico caro, se vuoi guadagnarti lo stipendio devi accettare questo ordine di servizio, altrimenti il rapporto di lavoro finisce qui”. Ottima cosa che il dirigente in questione discuta questa operazione con i sindacati, e meglio ancora che riesca a raggiungere un accordo con alcuni di essi; ma si tratta in tal caso di un accordo cosiddetto “gestionale”, avente cioè per oggetto l’esercizio di un potere di cui l’impresa disporrebbe comunque, anche senza quell’accordo. Dunque, il fatto che un singolo dipendente sia o no iscritto al sindacato che ha sottoscritto quell’accordo è, sul piano giuridico, del tutto irrilevante: il suo contenuto si applica a tutti, indipendentemente dall’affiliazione sindacale. La morale è sempre questa: i problemi delle amministrazioni o aziende pubbliche si risolvono soltanto se i dirigenti vengono costretti a riappropriarsi delle propie prerogative manageriali. Come? Col condizionare il mantenimento dell’incarico dirigenziale al raggiungimento di obiettivi specifici, misurabili, collegati a scadenze temporali precise. Il ministro della Funzione pubblica è pregato di prender nota.   (p.i.)

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