L’ASSEDIO DEGLI 85.000 CANDIDATI A BANKITALIA: UN METODO SBAGLIATO E COSTOSO PER TUTTI

Il sistema italiano del concorso per l’accesso alle funzioni pubbliche funziona male perché per un verso è troppo buracratizzato, mentre per altro verso chi compie la selezione è poco responsabilizzato per i risultati della struttura in cui i vincitori vengono inseriti

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Intervista a cura di Eugenio Occorsio pubblicata da
la Repubblica il 3 luglio 2017 – In argomento v. anche l’editoriale di Andrea Ichino sul Sole 24 Ore del 12 gennaio 2011, Il merito non sale in cattedra, in riferimento all’editoriale del settimanale The Economist della settimana precedente Lessons learned; inoltre La concorrenza tra gli atenei e il “valore legale” della laurea
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Roma. Malgrado anni di prediche sull’opportunità che i giovani si disegnino un percorso professionale innovativo, imprenditoriale, creativo e via dicendo, il posto fisso ha sempre il suo fascino. «La stabilità del lavoro costituisce un valore positivo per chiunque, a tutte le latitudini», conferma Pietro Ichino, giuslavorista di lungo corso, docente alla Statale di Milano nonché senatore Pd. «Se poi a bandire il posto è un ente prestigioso come la Banca d’Italia, che quel posto faccia gola a molti è ancora più comprensibile. Però, il dato degli 85mila candidati per 38 posti, o anche gli 8mila cui sarebbero stati ridotti, è indice di qualche cosa che funziona molto male».

Banca d'ItaliaPerché indica una disfunzione?
«Per un candidato, la partecipazione a un concorso ha comunque un costo di trasferta, tempo, fatica. Si può capire che si accolli questo costo chi ha una qualche pur piccola probabilità di vincere. Ma, conoscendo gli standard e i criteri selettivi della Banca d’Italia, si può stare certi che i candidati con qualche possibilità effettiva non sono più di qualche centinaio. Dall’altro lato, questo numero di candidati comporta un costo abnorme per l’ente, che andava evitato con l’adozione di un filtro preliminare più stringente. Per esempio, si poteva chiedere la buona conoscenza non solo dell’inglese ma di una seconda lingua straniera».

Con la disoccupazione giovanile al 34% tante domande sono inevitabili?
«Contribuisce a spiegare la partecipazione. Ma alle radici c’è la grave mancanza di un servizio di orientamento scolastico e professionale che fornisca agli adolescenti e ai giovani in cerca di prima occupazione un’informazione qualificata sul tipo di lavoro a cui possono aspirare e sui percorsi necessari per arrivarci. Il dato delle 80mila candidature è figlio di una diffusa ignoranza di come funziona effettivamente il mercato del lavoro. Però c’è qualcosa che non funziona anche dall’altro lato».

A che cosa si riferisce?
«Alla forma tipica del concorso pubblico in Italia: altamente burocratizza, avviluppata in procedure rigide che corrispondono a scarsa capacità di una selezione adeguata dei candidati in relazione alla loro attitudine a svolgere una funzione. E che escludono di fatto gli altri cittadini europei: che senso ha chiedere di allegare alla domanda la carta d’identità, che tra l’altro in diversi Paesi come la Gran Bretagna non esiste, o l’autenticazione di documenti, che all’estero non sanno neppure che cosa significa, quando basterebbe controllare soltanto i documenti del vincitore? Nel caso di Bankitalia, 30 richieste anziché 80mila. Tutti i nostri concorsi pubblici sono impostati secondo questo dna. Poi, chi opera la selezione tra i candidati  raramente è davvero incentivato a compiere la scelta migliore e quasi mai paga se sbaglia».

All’estero la selezione per i posti pubblici funziona meglio?«Non in tutti i Paesi: funziona meglio in quelli anglosassoni, nei quali i dirigenti pubblici sono più effettivamente responsabilizzati per i risultati ottenuti dalla struttura loro affidata. Lì i concorsi sono molto meno appesantiti da regole procedurali, ma l’incentivo fa sì che la selezione sia più legata al merito sostanziale».

 

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