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LE CONSEGUENZE DELL’INNOVAZIONE TECNOLOGICA SUL DIRITTO DEL LAVORO

Mentre le piattaforme digitali destrutturano l’organizzazione tradizionale del lavoro, nel rapporto di lavoro continuativo il coordinamento telematico erode l’efficacia delle vecchie tecniche protettive: le nuove possibili tecniche protettive – Per aspetti diversi, tuttavia, l’evoluzione tecnologica rafforza la persona che lavora


Relazione presentata al convegno promosso dall’Associazione Giuslavoristi Italiani, Torino, 15 settembre 2017 (una sintesi del contenuto della relazione nell’ultimo paragrafo) – In argomento v. anche
Perché non dobbiamo temere che la tecnologia ci impedisca di lavorare [1] (ivi ulteriori riferimenti)
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LE CONSEGUENZE DELL’INNOVAZIONE TECNOLOGICA
SUL DIRITTO DEL LAVORO

Sommario
1. Come le nuove tecnologie, e la gig economy in particolare, incidono sulla fattispecie di riferimento del diritto del lavoro: gli effetti della riduzione dei costi di transazione
2. Segue. Un possibile mutamento della fattispecie di riferimento del sistema di protezione
3. Il sostegno possibile alle persone che offrono direttamente ai committenti i propri servizi mediante le piattaforme digitali
4. Un diritto per il nuovo tertium genus dei proletari autonomi
5. L’evoluzione recente dell’ordinamento italiano: tendenziale eliminazione del tertium genus del lavoro parasubordinato e protezione leggera del lavoro autonomo, in tutte le sue forme
6. Come l’aumento delle differenze di produttività in seno a ciascuna categoria attenta alla dimensione collettiva del lavoro dipendente e scardina il suo sistema di protezione
7. La prospettiva di un aumento della subordinazione tecnica del lavoratore dipendente, ma al tempo stesso di un avvicinamento della sua condizione esistenziale a quella del lavoratore autonomo
8. La paura dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. È davvero prossima l’esclusione dal lavoro retribuito di una parte rilevante dell’umanità?
9. Due risposte molto diverse tra loro alla crisi del diritto e del mercato del lavoro causata dall’innovazione tecnologica
10. Se le nuove tecnologie e la globalizzazione consentono ai lavoratori di essere loro a cercare, selezionare e ingaggiare gli imprenditori migliori su scala mondiale
11. Per provare a tirare le fila del discorso
Scritti citati

 

I quattro aspetti dell’evoluzione tecnologica rilevanti per il mercato del lavoro e quindi per l’ordinamento giuslavoristico, che prendo in considerazione in questo studio, sono: l’avvento delle cosiddette labour platforms per la disintermediazione dell’incontro fra domanda e offerta (§§ 1-4); l’impatto destrutturante dell’evoluzione tecnologica sul modo d’essere tradizionale del lavoro inserito nell’impresa e sulle tecniche protettive elaborate in relazione ad esso (§§ 5-7); la distruzione di posti di lavoro conseguente alle nuove tecnologie e il problema occupazionale che ne consegue (§§ 8-9); l’aumento e allargamento dell’area della concorrenza sul lato della domanda di lavoro, che le nuove tecnologie rendono possibile, il rafforzamento che può derivarne della posizione contrattuale dei lavoratori e il nuovo ruolo che il sindacato può svolgere su questo terreno (§ 10).

  1. Come le nuove tecnologie, e la gig economy in particolare, incidono sulla fattispecie di riferimento del diritto del lavoro: gli effetti della riduzione dei costi di transazione

Uno degli effetti più vistosi dell’avvento delle nuove tecnologie – in particolare dell’informatica e della telematica – nel campo del lavoro è costituito dalla riduzione, in alcuni casi fin quasi all’azzeramento, dei costi di transazione derivanti dalla difficoltà che le persone incontrano per trovarsi fra loro e comunicare a distanza. Uno strumento tipico di questo abbattimento dei costi di transazione è costituito dalla cosiddetta labour platform: un luogo telematico raggiungibile mediante la rete, dove ciascun prestatore può essere in qualsiasi momento contattato da un soggetto interessato al servizio offerto, ingaggiato e anche retribuito, sulla base di una negoziazione individuale oppure sulla base di una tariffa standard prestabilita dal gestore della piattaforma (a proposito di questo modello di disintermediazione, sperimentato su scala mondiale per la commercializzazione di un servizio di autotrasporto dall’impresa che opera con il marchio Uber, si parla ora di uberization: A. Belloni, 2017, partic. pp. 26-27; v. anche questa voce su Wikipedia e l’osservatorio operante mediante il sito www.uberisation.org).

La piattaforma nasce per consentire l’incontro diretto tra prestatore e fruitore del servizio: una disintermediazione che, come vedremo meglio fra breve, produce l’effetto immediato di un miglioramento del servizio e un abbassamento del costo, con beneficio per il fruitore del servizio stesso. Ma può anche consentire a un’impresa che operi nel segmento del mercato interessato (per esempio: assistenza infermieristica, o di altro genere; oppure interventi a domicilio per manutenzione elettrica, idraulica, antennistica, o informatica) di reperire in qualsiasi momento le persone disponibili per svolgerlo nel luogo e con le modalità di volta in volta necessarie. Stesso discorso per il caso in cui sia l’impresa a utilizzare direttamente il servizio nell’ambito di un proprio processo produttivo. Si pensi al caso di un’editrice che attraverso la piattaforma possa disporre di una platea di correttori di bozze sperimentati: essa non è più costretta ad assumerne uno o più alle proprie dipendenze per poter contare sulla prestazione di correzione di bozze just in time, solo quando la produzione lo richiede. Oppure al caso di un’impresa postale che, per mezzo della piattaforma, possa disporre in qualsiasi momento di una platea abbastanza ampia di autisti con vettura propria o di fattorini muniti di moto o di bicicletta, pronti a rispondere alla chiamata in qualsiasi momento e nel luogo più opportuno.

Nel campo dell’organizzazione del trasporto di persone, o di presa e consegna di oggetti in area urbana, le piattaforme del tipo descritto consentono oggi una riduzione ulteriore dei costi di transazione rispetto a quanto già il collegamento via radio con la centrale aveva incominciato a consentire negli anni ’80, quando nacque la figura del pony express. Allora si pose per la prima volta la questione della posizione sostanziale di dipendenza economica in cui si trovavano le persone impegnate in quel lavoro, che pure erano lasciate contrattualmente libere di rispondere o no alla chiamata via radio e quindi vedevano la propria prestazione giuridicamente qualificata come autonoma; oggi la stessa questione si ripropone in un numero di casi molto maggiore e per una gamma di servizi molto più ampia (basti pensare, oltre che ai servizi offerti dalla già citata Uber, a quelli offerti da imprese come Amazon, Foodora o Deliveroo).

Il numero delle persone che lavorano permanentemente per mezzo di una labour platform è oggetto di stime che vanno dai 600.000 degli U.S.A. indicati da S.D. Harris e A.B. Krueger (2015) alle decine di milioni nel mondo intero indicate da R. Smith, S. Leberstein (2015, cit. da D. Guarascio e S. Sacchi, 2017): comunque una frazione ancora molto modesta rispetto alle forze-lavoro dei Paesi dotati di un tessuto produttivo moderno. Ma quel numero è in aumento esponenziale; si può dunque ipotizzare che in un futuro non molto lontano l’erosione dell’area del lavoro qualificabile come subordinato secondo i criteri tradizionali, e pertanto protette da un sistema di coperture lato e stricto sensu assicurative, incominci a costituire un problema sociale di importanza non secondaria, imponendo un aggiustamento del sistema di protezione e in particolare della definizione del suo campo di applicazione. Negli U.S.A. si parla a proposito di queste nuove figure di lavoratori di dependent contractors, oppure di independent workers (quest’ultima è la proposta di S.D. Harris e A.B. Krueger, 2015), oppure di tempreneurs (World Employment Confederation, 2016, p. 22): imprenditori di sé stessi che si offrono per lavori a tempo.

Vedremo come questo nuovo modo di organizzare il lavoro possa presentare degli aspetti negativi per la metà più debole della categoria dei lavoratori interessati come fornitori del servizio. Va però osservato che alle origini della rivoluzione industriale il progresso tecnologico vedeva quella parte debole per lo più esclusa dai vantaggi che ne derivavano sul piano della riduzione del prezzo dei beni e servizi prodotti e del miglioramento della loro qualità; oggi, invece, di questi vantaggi – che si tratti del servizio di trasporto a un quarto del prezzo, o della possibilità di ricevere a casa un libro di difficile reperimento entro tre giorni dalla richiesta via Internet, o una pizza entro mezz’ora dalla richiesta telefonica – può beneficiare la grande maggioranza della popolazione. Di questo si deve tenere conto nel bilancio degli effetti sociali del fenomeno.

Nel bilancio sociale di queste forme di organizzazione del lavoro, che lo liberano dal vincolo dell’orario e del coordinamento spazio-temporale con l’organizzazione del creditore, occorre peraltro considerare non soltanto il rischio per le persone che lavorano di perdita di sicurezza e di protezioni, ma anche un aspetto positivo: la prospettiva di una riconquista da parte loro di una libertà di distribuzione del tempo tra l’attività retribuita e ogni altra attività o non-attività di cui è fatta la loro vita personale, familiare e sociale. Beneficio, questo, che può interessare non poco a tutti coloro che soffrono della condizione di time poverty a cui sono troppo frequentemente condannati i lavoratori incatenati ai tempi rigidi di un rapporto di lavoro tradizionale; e può interessare in particolare alle donne che portano il maggior peso dei carichi di cura familiare, o comunque nel periodo della prima maternità (rinvio in proposito all’articolo illuminante di M. Ferrera e B. Stefanelli, 2017).

La disintermediazione consentita dalla labour platform consente dunque di trasformare il prestatore, che fino a ieri era un dipendente dell’impresa fornitrice del servizio, in lavoratore autonomo. Un primo problema è che in questo modo lo priva della copertura assicurativa per malattia, maternità, invalidità e vecchiaia; ma lo priva anche di una “protezione” poco considerata da studiosi e osservatori e tuttavia assai rilevante, di cui nel nostro ordinamento solo il lavoratore subordinato gode: cioè l’esenzione pressoché totale da un insieme di numerosi e complessi adempimenti burocratici, dei quali viene fatto carico interamente all’impresa datrice di lavoro. Per risolvere questo problema in Europa sono nate delle imprese – del tipo della Smart, operante in nove Paesi diversi (su questa esperienza, in Italia frenata da ostacoli ordinamentali, v. S. Graceffa, 2017, pp. 73-108) – che offrono un rapporto di lavoro, anche in forma subordinata, a lavoratori sostanzialmente autonomi dotati di un loro portafoglio-committenti o comunque di una loro capacità di entrare direttamente in contatto con essi, per lo più mediante una piattaforma digitale, ma interessati a una copertura previdenziale e a essere esentati dalle complicazioni amministrative per l’incasso dei compensi. Queste imprese svolgono però anche una funzione mutualistica, con la costituzione di fondi che consentono di dare continuità ai flussi di reddito ammortizzando i ritardi di pagamento e scontando le inadempienze da parte dei committenti. Talvolta esse svolgono anche una funzione di rappresentanza collettiva per i propri “dipendenti”: in Belgio, per esempio, la Smart ha negoziato un accordo con Deliveroo, che prevede per i fattorini ciclisti un compenso minimo garantito (una sorta di indennità di disponibilità) indipendente dal numero delle consegne compiute, un contributo per l’uso della bicicletta e dello smartphone, e un contributo eventuale per il caso di riparazione di un guasto della bicicletta, tutti versati da Deliveroo a Smart, che li utilizza per il pagamento di retribuzione e contributi per lo più nell’ambito di un contratto di lavoro intermittente (cosa che oggi in Italia non è consentita, stanti gli spazi strettissimi entro i quali questa forma di contratto è utilizzabile). Al fine dell’eliminazione totale degli attriti burocratici, lo stesso accordo belga prevede – ed è disposizione già pienamente attuata – che lo stesso codice attribuito a ciascun ciclista fattorino da Deliveroo sia utilizzato per l’apertura della sua posizione presso la Smart: col risultato che le due piattaforme sono in grado di dialogare direttamente tra loro, scambiandosi i dati necessari per una gestione che attualmente coinvolge circa duemila giovani.

A proposito di queste organizzazioni si parla di umbrella companies. Ed è questo un altro interessante profilo di rilevanza dei costi di transazione nel mercato del lavoro, sul quale torneremo fra breve.

  1. Segue. Un possibile mutamento della fattispecie di riferimento del sistema di protezione

Per comprendere come incidono sul sistema del diritto del lavoro la riduzione degli “attriti” e la variazione della ripartizione del rischio tra le parti del rapporto, consentite dalle piattaforme di cui si è detto, può essere utile considerare i modi diversi in cui la funzione economico-sociale specifica del contratto di lavoro dipendente è stata individuata da due economisti – F.H. Knight e R. Coase – nel secolo scorso. Nella visione proposta dal primo, con il contratto di lavoro dipendente il soggetto più sicuro di sé e intraprendente si accolla il rischio del risultato di una attività produttiva di beni o servizi e “assicura” il soggetto più timido e incerto garantendogli un determinato reddito continuativo in cambio della sua collaborazione: qui l’accento cade, evidentemente, sul contenuto assicurativo del contratto di lavoro, che assurge a sua ragion d’essere essenziale, mentre l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo dell’imprenditore costituisce soltanto un elemento normale del contratto, dovuto al fatto che al prestatore cui è garantito il reddito non interessa il come lavorare e per fare che cosa e non costa dunque nulla lasciarlo decidere al creditore della prestazione. R. Coase, invece, individua la funzione essenziale del contratto nel risparmio di costi di transazione da parte dell’imprenditore: per evitare di dover stipulare un nuovo contratto di lavoro per ciascuna nuova esigenza, cioè di dover rinegoziare a ogni passo le modalità di svolgimento delle prestazioni di chi con lui collabora e poterle conformare alle mutevoli esigenze che via via si presentano, quotidie et singulis momentis, con il puro e semplice esercizio unilaterale di un proprio potere direttivo, egli acquista dal lavoratore una volta per tutte sia la disponibilità a svolgere continuativamente una determinata attività, sia la sua obbedienza. Così “un solo contratto si sostituisce a una lunga serie di contratti”. Qui l’accento cade sull’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, mentre è il contenuto assicurativo a presentarsi come elemento soltanto normale del contratto, ma non necessario: nulla vieterebbe, nell’ambito di questo schema, di coniugare l’assoggettamento pieno della prestazione al potere direttivo dell’imprenditore con una retribuzione collegata in tutto o in parte alla produttività effettiva dell’organizzazione aziendale, oppure alla sua redditività, con conseguente riduzione o azzeramento del contenuto assicurativo del contratto.

Nel corso del XX secolo l’ordinamento italiano, al pari della maggior parte di quelli europei, si è orientato nel senso di assumere come elemento essenziale della fattispecie cui si applica il diritto del lavoro l’assoggettamento pieno della prestazione lavorativa al potere direttivo del creditore – l’anima coasiana, per così dire, del contratto di lavoro – collocando invece il contenuto assicurativo, la sua anima knightiana, tra gli effetti inderogabilmente dovuti del contratto così individuato (per una esposizione più compiuta sul punto rinvio al quinto capitolo del mio trattato sul contratto di lavoro, 2000). Ben si comprendono le ragioni di questa scelta del legislatore: l’assoggettamento pieno della prestazione al potere direttivo costituisce un beneficio per l’imprenditore; se questi vuole goderne, l’ordinamento gli impone la contropartita dell’obbligo assicurativo nei confronti del dipendente, coniugata con uno standard minimo di retribuzione. Nell’ottica della protezione del lavoratore lo schema inverso parrebbe non avere molto senso.

Ora però le nuove applicazioni dell’informatica e della telematica di cui si è fatto cenno all’inizio stanno incominciando a modificare il quadro fattuale in cui, un secolo fa, quella scelta legislativa è maturata. Nel caso delle umbrella companies, per esempio, è evidente che lo strumento del contratto di lavoro continuativo, anche in forma subordinata, è utilizzato principalmente al fine di fornire alla persona interessata un insieme di coperture assicurative, senza che il “datore di lavoro” abbia alcun interesse diretto né alla prestazione lavorativa né al risparmio di costi di transazione. Al contrario, qui è la stessa persona che lavora, e non il datore di lavoro, a perseguire, per mezzo del contratto di lavoro subordinato, la riduzione di costi di transazione che altrimenti su di lei graverebbero per la riscossione del compenso dai soggetti utilizzatori della prestazione, mentre la società datrice di lavoro si è costituita apposta per accollarseli.

Quanto alle piattaforme digitali per l’incontro fra domanda e offerta, esse alterano il quadro tradizionale per un altro aspetto di importanza cruciale: sono molte le organizzazioni produttive nelle quali, quanto più si riducono i costi di transazione necessari per reperire il lavoro necessario e adattarlo quotidie et singulis momentis alle esigenze dell’impresa, tanto più si riduce l’interesse dell’imprenditore a sostituire il rapporto di mercato con un rapporto gerarchico, cioè a incorporare il prestatore nell’organizzazione aziendale ingaggiandolo come lavoratore subordinato. Anche l’abbattimento drastico dei costi di transazione consentito dalla piattaforma contribuisce dunque a mettere, per così dire, fuori gioco lo schema proposto da R. Coase per spiegare il contratto di lavoro subordinato.

La piattaforma digitale, a ben vedere, rovescia il paradigma coasiano: mentre secondo quel paradigma il contratto di lavoro subordinato consente all’imprenditore di sostituire con un solo contratto una serie di contratti innumerevoli, la piattaforma, all’inverso, consente di sostituire con una serie di contratti innumerevoli il contratto singolo di lavoro subordinato, così spezzettando l’attività del prestatore in una miriade di prestazioni contrattuali istantanee o di durata brevissima. Salvo ricorrere a un’umbrella company per “reintrodurre continuità nelle prestazioni discontinue” (S. Graceffa, 2017, p. 106).

Si osservi che, in tutti i casi in cui il contratto di lavoro non ha il carattere strutturale di una durata apprezzabile, non è pensabile l’imposizione, come contenuto inderogabile del contratto stesso, di un contenuto assicurativo. Se dunque la quota di forza-lavoro che si avvale delle “piattaforme” incomincerà a essere misurata con percentuali a due cifre, questo fenomeno metterà in discussione, assai più di quanto sia stata messa in discussione finora, la scelta della subordinazione come fattispecie fondamentale e pressoché esclusiva di riferimento del sistema protettivo. L’area del lavoro subordinato coinciderà sempre di meno con l’area nella quale la protezione dell’ordinamento è necessaria, non solo perché la subordinazione è compatibile – ormai questo si osserva da tempo, soprattutto nell’area dirigenziale – con posizioni di notevole forza contrattuale del prestatore; ma soprattutto perché, viceversa, sarà sempre più ampia l’area dei lavoratori qualificabili come “autonomi”, ma svolgenti funzioni tradizionalmente proprie dell’area della subordinazione, che solo le nuove tecnologie consentono di sottrarre a quell’area. Di questi soggetti, la metà professionalmente più forte avrà pochi problemi: anzi, il regime di concorrenza aperta con gli altri consentirà loro di porre in evidenza la propria maggiore produttività; ma la metà più debole non sarà più protetta dallo standard collettivo di trattamento che fin qui bene o male ha funzionato nel settore del lavoro subordinato. Anche perché il meccanismo che ha reso possibile il funzionamento di quello standard collettivo presuppone che l’assunzione dei lavoratori avvenga in qualche misura “sotto il velo dell’ignoranza” circa la qualità della loro prestazione, che essa dia luogo a un contratto di durata e che quando, dopo un certo periodo di osservazione, la qualità delle singole prestazioni diventa conoscibile la sostituzione del lavoratore meno efficiente sia ostacolata da un costo di licenziamento adeguato. È immediatamente evidente l’impossibilità di funzionamento di questo meccanismo dove l’attività lavorativa sia svolta attraverso la piattaforma digitale e spezzettata in una miriade di rapporti di breve o brevissima durata; tanto più che la piattaforma stessa consente a ciascun utilizzatore della prestazione di conoscere il giudizio degli utilizzatori precedenti sulla qualità della prestazione stessa. Su questo punto torneremo nel paragrafo 5.

Questi essendo gli effetti destrutturanti delle labour platforms sul sistema protettivo tradizionale, non è assurdo ipotizzare che, quando questa forma di organizzazione del lavoro incomincerà a coinvolgere quote rilevanti del tessuto produttivo nel settore dei servizi, il legislatore possa risolvere il problema passando dalla nozione coasiana della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro a una nozione più vicina all’impostazione knightiana: possa cioè stabilire che un ordinamento protettivo si applichi là dove è evidente un bisogno di sicurezza del prestatore, indipendentemente dall’assoggettamento pieno della prestazione al potere direttivo del creditore. A quel punto il dispositivo di protezione non potrà che essere diverso a seconda che la nuova organizzazione del lavoro faccia a meno della subordinazione spezzettando l’attività in una miriade di rapporti diretti con i singoli utilizzatori resi possibili dalla piattaforma digitale, o che invece il vincolo della subordinazione venga superato mediante forme di collegamento informatico/telematico a distanza tra il prestatore e il resto dell’organizzazione aziendale, ma pur sempre nell’ambito di un rapporto contrattuale di durata apprezzabile.

Quanto al secondo caso (quello, cioè, nel quale il lavoro pur svolgendosi fuori dal perimetro dell’impresa continuerà a essere oggetto di un rapporto di durata con un committente) è prevedibile l’obiezione: “nel rapporto tra una parte, il creditore, propenso o indifferente al rischio, e una parte tipicamente avversa al rischio e dunque interessata a un contenuto assicurativo del rapporto di lavoro, non è necessario imporre quel contenuto assicurativo con una norma inderogabile, dal momento che proprio il diverso modo di guardare al rischio dei due soggetti li indurrà comunque a negoziarne la distribuzione ottimale tra di loro, con il corrispondente premio per la parte che se lo accolla, in termini di minor retribuzione”. La risposta all’obiezione sta nei modelli proposti dalla moderna economia del lavoro, che mostrano come l’asimmetria informativa circa l’entità del rischio connesso con le caratteristiche personali del singolo prestatore non consenta a un mercato libero da vincoli di determinare l’allocazione ottimale del rischio (v. tra i primi su questo punto P. Aghion e B. Hermalin, 1990).

  1. Il sostegno possibile alle persone che offrono direttamente ai committenti i propri servizi mediante le piattaforme digitali

La discussione che si era aperta alla fine degli anni ’70 (G. Santoro Passarelli, 1979) circa la necessità di ampliare la fattispecie di riferimento del diritto del lavoro si era incentrata soprattutto sulla possibilità di ricomprendervi il lavoro svolto in condizione di sostanziale soggezione nei confronti del committente, ancorché in assenza di un assoggettamento pieno a eterodirezione: il “lavoro parasubordinato”. Da allora l’attenzione dei giuslavoristi, nell’area delle collaborazioni continuative e coordinate ma senza i tratti propri della subordinazione, si era concentrata sulla possibile attribuzione di un rilievo giuridico al concetto di “dipendenza economica”; e si è sempre registrato un ampio consenso sul punto che dovesse essere considerato come elemento essenziale di questo concetto il carattere della apprezzabile durata nel tempo del rapporto tra creditore e prestatore, senza la quale appariva inconcepibile una qualsiasi posizione di “dipendenza” del secondo dal primo. Ora, invece, gli sviluppi tecnologici di cui si è fatto cenno all’inizio ci inducono a mettere a fuoco anche la necessità di protezione di persone che, mediante le piattaforme digitali, entrano direttamente in contatto con gli utilizzatori dei loro servizi: esse non sono, dunque, titolari di un rapporto durevole nel tempo con un unico creditore delle loro prestazioni collocato in posizione dominante, ma vedono la propria attività lavorativa spezzettata in una miriade di rapporti con singoli committenti.

Qui la ragion d’essere dell’intervento protettivo non è evidentemente più la “dipendenza economica”: questi lavoratori traggono il loro reddito dal rapporto con una pluralità di committenti, operando direttamente in un mercato che è concorrenziale tanto sul lato dell’offerta quanto su quello della domanda. La loro debolezza, là dove di questo si tratta, non è la conseguenza di una distorsione del mercato, di una sua disfunzione, bensì la conseguenza diretta di un difetto di produttività del loro lavoro. Il mercato in cui operano li sottopone a un confronto permanente con quelli che offrono i loro stessi servizi, dunque proprio a quello “stress da esame” che nell’area del lavoro subordinato tradizionale le forme di autotutela collettiva tendono tipicamente a limitare. E il fatto che l’attività lavorativa sia spezzettata in una miriade di rapporti di breve o brevissima durata, quando non a esecuzione istantanea, rende strutturalmente impossibile collocare all’interno dei rapporti stessi alcune protezioni inderogabili di rilievo costituzionale come la limitazione dell’estensione temporale della prestazione nell’arco della giornata, della settimana o dell’anno, il diritto al riposo quotidiano, settimanale e annuale, la malattia retribuita. Il traduttore, il correttore di bozze, l’elettricista, l’antennista, il fattorino, l’infermiere, quando si fanno “imprenditori di se stessi” offrendo il proprio lavoro direttamente agli utilizzatori attraverso la piattaforma, continuano a fare lo stesso lavoro che fino a ieri facevano per un unico imprenditore capace di valorizzarlo nel mercato, ma perdono le coperture assicurative che solo il rapporto con quell’unico imprenditore può offrire loro in modo immediato.

La disintermediazione consentita dalle piattaforme digitali, dunque, reca un beneficio netto e indiscutibile per l’utente/consumatore, consentendogli un’informazione precisa sulla qualità del servizio e abbassandone il costo; l’effetto della disintermediazione per il lavoratore, invece, ha due facce. Essa libera il lavoratore appartenente a uno dei molti settori di servizi alla persona o all’impresa dalla necessità di inserirsi in un’organizzazione imprenditoriale capace di organizzare e valorizzare la sua attività; ma, lungi dal liberarlo, lo assoggetta ancor più di prima al confronto con gli altri lavoratori che svolgono la stessa attività, alla conoscibilità della qualità del lavoro svolto fino a quel momento, quindi a una sua valutazione potenzialmente sempre più analitica e penetrante da parte dei potenziali utilizzatori. La disintermediazione mediante piattaforma digitale lo premia, così, in modo più preciso per i suoi meriti; ma anche lo incatena ai suoi difetti, quali che essi siano, rendendoli facilmente conoscibili e facendogliene pagare per intero il costo in modo quasi immediato.

Quando di questo si tratta, l’intervento protettivo, per essere efficace e non generare a sua volta distorsioni, non può più concretarsi in una disciplina inderogabile del singolo rapporto di lavoro di breve o brevissima durata, salva l’istituzione di una retribuzione minima oraria universale, purché determinata con accurata prudenza, applicabile comunque solo nei casi in cui la prestazione lavorativa sia misurabile in ragione della sua estensione temporale.

Nell’ottica della necessaria protezione essenziale di questa forma di lavoro, occorre innanzitutto eliminare – là dove ce ne sono, come oggi in Italia – gli ostacoli ordinamentali che impediscono la stipulazione del contratto di lavoro continuativo con le umbrella companies: nei Paesi dove questo contratto è invece utilizzato correntemente, esso viene per lo più stipulato, come si è visto, nella forma del lavoro intermittente, che consente di dimensionare e cadenzare la retribuzione in relazione all’entità e ai tempi del lavoro effettivamente svolto. Si può pensare inoltre alla possibilità, là dove la persona che lavora per mezzo della piattaforma digitale non si avvalga di una umbrella company, di garantirle la copertura previdenziale per invalidità, vecchiaia e infortuni sul lavoro mediante un meccanismo analogo, se non identico, a quello istituito dall’articolo 54-bis della legge n. 96/2017, di conversione del d.lgs. n. 50/2017, per il lavoro occasionale: cioè mediante una sorta di voucher virtuale che incorpori la contribuzione previdenziale ed esenti dalla ritenuta fiscale (salvo prevedere la necessità di menzione nella denuncia dei redditi annuale delle retribuzioni percepite in questo modo, quando esse superino una determinata soglia); si consentirebbe così il controllo del rispetto dello standard retributivo minimo universale dove applicabile, e si assicurerebbe la piena trasparenza del rapporto. In questo caso, ovviamente, non si applicherebbe alcuna limitazione della platea degli utilizzatori dei servizi, né alcun limite massimo di compensi erogabili dal singolo utilizzatore, o di compensi percepibili dai singoli lavoratori.

L’intervento protettivo più rilevante – se implementato in modo efficace, mediante gli incentivi giusti e con meccanismi di controllo puntuale dei risultati – è comunque quello che consiste nel mettere a disposizione degli interessati servizi personalizzati capaci di individuare i problemi specifici di ciascun appartenente alla “metà inferiore della categoria”, di incrementarne la professionalità e di aumentarne la produttività del lavoro, ponendolo in condizione di trarre dal lavoro stesso un reddito complessivamente più alto. E nell’attivare forme di previdenza idonee a sostituire quelle previste per il rapporto di lavoro subordinato tradizionale. Si può pensare anche all’emanazione di regole che impongano inderogabilmente la necessaria imparzialità e trasparenza del funzionamento della “piattaforma”, impedendo che essa possa essere surrettiziamente strumentalizzata a vantaggio di alcuni di coloro che se ne servono e a danno di altri.

Non deve, invece, essere riaperta la porta alla trasformazione di questo nuovo mercato del lavoro in senso corporativo, con l’istituzione di barriere all’accesso e di “tariffe professionali minime” diverse dallo standard retributivo minimo universale di cui si è appena detto. Le quali tariffe di mestiere – non essendo giustificate da alcuna disfunzione del mercato, cioè non correggendo alcuna distorsione di natura monopsonistica o derivante da asimmetrie informative, che la stessa “piattaforma” si incarica di correggere – avrebbero il solo effetto di dividere i lavoratori del settore interessato tra insider e outsider, proteggendo l’interesse dei primi contro quello dei secondi. In altre parole, si deve stare attenti a non contrastare, con una riedizione di misure tipicamente destinate a correggere un mercato monopsonistico, gli effetti più positivi della disintermediazione operata dalle piattaforme digitali: quello, innanzitutto, di fare “spazio agli outsider e ai dropout”, di consentire a “tanti piccoli Davide […] con la loro piccola fionda [di] sconfiggere il grande Golia di turno” (A. Belloni, 2017, p. 5; v. anche pp. 87 e 95-107); ma anche quello di sostituire la “presunzione di competenza e affidabilità” acquisibile esclusivamente mediante l’iscrizione a un ordine, albo o elenco, previo superamento di un esame una volta per tutte, con l’attestazione di competenza e affidabilità acquisibile soltanto attraverso il giudizio – registrato e diffuso giorno per giorno dal web – di chi in concreto si è avvalso del servizio, soggetta in qualsiasi momento a revoca, nel caso in cui il servizio sia stato insoddisfacente. In questo nuovo mercato ciascun lavoratore che ne abbia bisogno va aiutato in modo concreto ed efficace a superare i propri difetti, a colmare le proprie lacune professionali, dove necessario od opportuno a riconvertirsi a nuove funzioni; ma non – cosa pressoché impossibile – a sottrarsi alle nuove forme di valutazione e selezione caratteristiche del mercato stesso.

  1. Un diritto per il nuovo tertium genus dei proletari autonomi

In riferimento alle nuove figure dei lavoratori della gig economy statunitense S.D. Harris e A.B. Krueger (2015) propongono il riconoscimento da parte dell’ordinamento di una figura intermedia tra quella dell’employee tradizionale e quella dei self-employed, che essi propongono di indicare col termine independent workers: una figura che dovrebbe, secondo i due economisti, essere esentata dalla disciplina antitrust vedendosi riconosciuti il diritto di coalizione e l’autonomia collettiva al livello aziendale, là dove ci sia una pluralità di fornitori abituali di uno stesso servizio a uno stesso committente. Questa categoria dovrebbe inoltre, secondo i due economisti, essere aiutata dall’ordinamento a dotarsi almeno delle protezioni previdenziali basilari: protezioni, queste, che non si giustificano, come quelle proprie del diritto del lavoro tradizionale, principalmente come correzioni di distorsioni proprie di un mercato monopsonistico, bensì come sostegno dell’ordinamento a soggetti oggettivamente svantaggiati. Ciò che S.D. Harris e A.B. Krueger propongono ha dunque poco a che vedere con le elaborazioni della dottrina giuslavoristica europea in tema di parasubordinazione: la figura che essi individuano non si caratterizza per la posizione di dipendenza sostanziale da un committente in posizione dominante. La debolezza dell’independent worker e il conseguente suo bisogno di un intervento protettivo nascono essenzialmente dall’abbondanza dell’offerta di lavoro concorrente e dalla difficoltà del soggetto debole di differenziare per qualità la propria offerta. Ed è essenzialmente su questo terreno che esso va sostenuto, aiutato a rafforzarsi.

Su questo terreno nel dibattito di casa nostra si registra qualche ritardo: questo nuovo tertium genus costituito da “proletari autonomi” non è stato ancora messo a fuoco in modo preciso.

Quando, cinque anni fa, con la legge Fornero il legislatore italiano ha compiuto la scelta di allargare l’area di applicazione dell’ordinamento giuslavoristico generale alla posizione di dipendenza economica del prestatore, la consapevolezza delle questioni che le labour platforms stavano per sollevare nel campo delle politiche del lavoro era ancora scarsissima, se non nulla (Uber era nata soltanto tre anni prima, nel 2009, e stava ancora muovendo i primi passi nel settore limitatissimo del trasporto con auto di lusso); altrettanto scarsa era la consapevolezza del fatto che un problema sociale più acuto e assai più difficile da risolvere, rispetto a quello dei lavoratori economicamente dipendenti ma giuridicamente autonomi, stesse per porsi in situazioni, come quelle dei lavoratori operanti mediante piattaforma, nelle quali la figura stessa del contraente forte in posizione dominante era destinata a sparire.

Fatto sta che – in considerazione della necessità di proteggere i lavoratori deboli operanti nell’ambito di rapporti continuativi con i rispettivi committenti – quella scelta venne compiuta dal legislatore con la legge n. 92/2012, la quale, accogliendo in parte l’impostazione proposta nel disegno di legge n. 1873/2009 sul Codice semplificato del lavoro, sostanzialmente allargò l’area di applicazione della protezione giuslavoristica a tutti i rapporti caratterizzati da continuità, monocommittenza e basso reddito, anche in assenza dell’elemento della subordinazione inteso in senso stretto. A meno di tre anni di distanza, però, con l’articolo 2 del d.lgs. n. 81/2015, il legislatore ha cambiato direzione, abrogando la norma del 2012 ed estendendo l’area di applicazione della protezione giuslavoristica ai rapporti caratterizzati dall’assoggettamento della prestazione al coordinamento spazio-temporale secondo le esigenze del creditore. Questa nuova summa divisio vede gli autisti di Uber, gli addetti al recapito di pizze di Foodora o di Deliveroo e gli altri protagonisti della gig economy quasi tutti esclusi dall’area di applicazione del diritto del lavoro tradizionale.

Torna così in primo piano la questione di questo nuovo tertium genus in larga parte diverso, talora diversissimo, rispetto alla figura del collaboratore coordinato e continuativo tradizionale: sarà dunque opportuno prendere in attenta considerazione la proposta di S.D. Harris e A.B. Krueger di cui si è detto poc’anzi. E prendere in attenta considerazione anche le più recenti tendenze della giurisprudenza in tema di lavoro mediante piattaforma digitale del Regno Unito, dove recentemente una sentenza della Royal Court of Justice (Pimlico vs Smith, 10 febbraio 2017) e un’altra un Employment Tribunal (Uber vs. Aslam, Farrar et al., 28 ottobre 2016) hanno qualificato come worker a norma dell’Employment Rights Act 1996, ma non come employee, un idraulico operante con la catena Pimlico e alcuni autisti operanti con Uber: oltre Manica sembra dunque prendere piede la classificazione di questo tipo di organizzazione del lavoro in un tertium genus, distinto sia dal lavoro subordinato tradizionale sia dal lavoro autonomo tradizionale. Un orientamento, questo, probabilmente volto anche a esorcizzare il rischio – peraltro assai più grave nell’Europa continentale di quanto non sia oltre Manica od oltre Atlantico – che l’abbraccio del diritto del lavoro possa soffocare sul nascere, invece che proteggere, le nuove forme di lavoro di cui si discute.

  1. L’evoluzione recente dell’ordinamento italiano: tendenziale eliminazione del tertium genus del lavoro parasubordinato e protezione leggera del lavoro autonomo, in tutte le sue forme

Quanto all’altro tertium genus, quello del lavoro parasubordinato, che nell’ultimo quarto di secolo era venuto assumendo una sua fisionomia abbastanza ben definita, conquistandosi un proprio statuto sia per quel che riguarda la disciplina civilistica del rapporto di lavoro, sia per quel che riguarda la copertura previdenziale, come si è appena detto l’evoluzione recente del nostro diritto del lavoro sembra essere nel senso della sua tendenziale eliminazione. Con il d.lgs. n. 81/2015 la figura del collaboratore coordinato e continuativo per una parte è stata assorbita nell’area di applicazione del diritto del lavoro comune, per il resto ha perso gran parte del rilievo normativo che aveva assunto con la legge Biagi del 2003.

Con la riforma di due anni or sono, l’elemento necessario e sufficiente per l’applicazione dell’ordinamento giuslavoristico generale torna a essere quello adottato in Italia tra la fine dell’800 e i primi del ’900. L’assoggettamento all’ordinamento protettivo ora scatta – per usare il linguaggio giuslavoristico di allora – quando il contratto preveda il “lavorare dentro lo stabilimento del principale” (così, più di un secolo fa, la legge n. 80/1898 sull’assicurazione anti-infortunistica, che all’art. 1 faceva riferimento alla dislocazione fisica del prestatore «negli opifici industriali» o «nelle miniere, cave e torbiere»; dalla legge n. 242 /1902 sul lavoro delle donne e dei fanciulli, poi dalla legge n. 489 /1907 sul riposo settimanale, che entrambe si applicavano a tutti coloro che lavorassero «negli opifici industriali»). Scelta sorprendente, questa del legislatore del 2015, perché attribuisce valore decisivo, ai fini dell’assoggettamento alla protezione inderogabile del prestatore continuativo di attività personale, all’elemento del coordinamento spazio-temporale della prestazione proprio nel momento in cui le nuove tecnologie informatiche e telematiche consentono via via più ampiamente e facilmente di coordinare la prestazione lavorativa con il resto dell’organizzazione e attività aziendale senza la necessità di assoggettare la prestazione stessa a vincoli di collocazione spazio-temporale: ciò che fino a ieri veniva chiamato “telelavoro”.

A due anni di distanza, ancora nel corso della XVII legislatura, con la legge n. 81/2017 lo stesso legislatore si è impegnato nell’ambizioso progetto di dettare il cosiddetto “Statuto del lavoro autonomo”, confermando così una scelta precisa in senso contrario all’espansione del campo di applicazione del diritto del lavoro al di fuori dei suoi confini tradizionali: la scelta, cioè, di non estendere il vecchio ordinamento protettivo alle nuove forme di dipendenza sostanziale della persona che collabora a distanza con l’impresa mediante gli strumenti informatici e telematici (salvo che questo avvenga nell’ambito di un rapporto già qualificato come di lavoro subordinato), bensì di far fronte alle nuove esigenze di sicurezza proprie di questo settore con un ordinamento protettivo diverso, più leggero. Un ordinamento nel quale il prestatore non è tutelato mediante l’inserimento di un contenuto assicurativo inderogabile in seno al contratto di lavoro, bensì essenzialmente mediante l’incremento delle coperture di natura previdenziale.

È ancora presto per dire se questa tendenza si consoliderà, o se invece si assisterà a un’evoluzione dell’ordinamento in direzione di una nuova disciplina protettiva generale, resa più snella ed essenziale per poter accomunare nel proprio campo di applicazione tanto il lavoro subordinato tradizionale quanto il nuovo lavoro economicamente dipendente. Per ora questo accomunamento con il lavoro subordinato tradizionale del nuovo lavoro reso capace di svolgersi in modo continuativo fuori del perimetro aziendale dalla nuova tecnologia informatica e telematica è disposto dalla legge n. 81/2017 soltanto per il lavoro “agile”: cioè per la frazione di un rapporto già complessivamente qualificato come di lavoro subordinato, che per accordo tra le parti si svolga senza coordinamento spazio-temporale soltanto in periodi delimitati – qualche ora al giorno o qualche giorno alla settimana – alternati a periodi in cui la prestazione torna a svolgersi dentro lo spazio fisico dell’azienda secondo le modalità tradizionali.

Si chiarisce così che il fatto di svolgersi dentro il perimetro aziendale, nell’ambito del vincolo tradizionale del coordinamento spazio temporale, costituisce circostanza sufficiente perché l’ordinamento protettivo si applichi nella sua interezza, ma non condizione indispensabile: la prestazione libera di svolgersi fuori del perimetro aziendale e senza alcun vincolo di collocazione temporale può essere assoggettata allo stesso ordinamento protettivo. Questo assoggettamento è automatico quando la prestazione “agile” (cioè svincolata dal coordinamento spazio-temporale) sia una frazione della prestazione oggetto di un rapporto di lavoro subordinato; ma logica vuole che l’assoggettamento stesso sia consentito come effetto della volontà negoziale delle parti anche quando la prestazione lavorativa oggetto del contratto sia interamente destinata a svolgersi al di fuori del perimetro aziendale e/o senza vincoli di orario.

Dei difetti che, a mio modo di vedere, sono ravvisabili nella seconda parte della legge n. 81/2017, relativa al “lavoro agile”, e in particolare del rischio che le disposizioni ivi contenute gli tolgano un po’ della sua agilità senza che ce ne fosse realmente bisogno, ho detto compiutamente nell’intervento svolto in Senato, in sede di terza lettura, il 9 maggio 2017 [3], al quale rinvio per non appesantire ulteriormente questa relazione.

  1. Come l’aumento delle differenze di produttività in seno a ciascuna categoria attenta alla dimensione collettiva del lavoro dipendente e scardina il suo sistema di protezione

Nella discussione sul se e quanto della protezione del lavoro subordinato debba essere esteso al di fuori del suo campo di applicazione tradizionale occorre mettere bene a fuoco l’impatto sconvolgente che l’evoluzione tecnologica produce sul piano dell’applicabilità stessa delle tutele finora sperimentate. Queste infatti sono costituite in gran parte da standard minimi di trattamento retributivo, e dunque anche contributivo, stabiliti in riferimento a “categorie professionali”: cioè a raggruppamenti di lavoratori considerati capaci di svolgere un lavoro di valore corrispondente a un determinato standard, cioè non soggetto a scostamenti eccessivi rispetto ad esso. Questo sistema di protezione presuppone per esempio che, in un determinato settore produttivo, dai lavoratori inquadrati come manovali ci si possa attendere un lavoro di valore pari all’incirca a 100, da quelli inquadrati come operai qualificati un lavoro di valore pari all’incirca a 130, da quelli inquadrati come impiegati d’ordine pari all’incirca a 140, da quelli inquadrati come impiegati di concetto pari all’incirca a 200, e così via (questi erano i parametri applicati comunemente applicati in sede di contrattazione collettiva per la determinazione dei minimi tabellari negli anni ’70 nel settore manifatturiero). Si mette in conto, ovviamente, che ci possa essere il manovale il cui lavoro di fatto vale 90, oppure 110; o l’impiegato d’ordine il cui lavoro vale di fatto 130, oppure 150. Ma sono scostamenti di entità relativamente modesta, che si compensano gli uni con gli altri; e la loro modesta entità favorisce la solidarietà interna alla categoria, per cui il più produttivo accetta volentieri di compensare l’eventuale difetto di produttività del collega meno efficiente. Oggi, invece, un effetto molto rilevante dell’evoluzione delle tecnologie applicate consiste nell’aumentare a dismisura le differenze di produttività tra persone che, secondo i criteri tradizionali, andrebbero inquadrate nella stessa “categoria professionale” e alle quali dunque dovrebbe applicarsi uno stesso standard di trattamento retributivo. Con la conseguenza, tra l’altro, di scardinare la solidarietà tra appartenenti alla stessa categoria, intesa come disponibilità a essere retribuiti tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla produttività effettiva.

Per rendersi conto dell’entità del fenomeno, basti pensare che oggi una maggiore capacità di usare il computer e Internet può aumentare a dismisura, rispetto alla media della “categoria”, non solo la produttività di un impiegato d’ufficio, ma anche quella di un magazziniere, di un fattorino, di un addetto alla reception, di un operaio meccanico (negli stabilimenti di produzione di auto della FCA l’uso del computer e di Internet si richiede in ciascuna postazione di lavoro lungo la nuova catena di montaggio); e un difetto di capacità di avvalersi di questi strumenti può dimezzarla o persino ridurla a un valore vicino allo zero. A complicare le cose, poi, contribuisce una forte diversificazione degli ambienti di lavoro e delle esigenze specifiche di ciascuno di essi, la quale fa sì che il valore del lavoro svolto da una persona dipenda oggi, molto più di quanto accadesse cinquant’anni fa, dal buon abbinamento tra la persona stessa e l’azienda che ne utilizza la prestazione. E questa diversificazione è presumibilmente destinata ad aumentare fortemente con l’avvento nel processo produttivo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale.

Se dunque cinquant’anni fa era pensabile che un contratto collettivo nazionale stabilisse uno standard retributivo per l’operaio meccanico, il fattorino, il magazziniere e l’impiegato d’ufficio, e che poi a questo standard corrispondessero i trattamenti effettivi, eventualmente con correzioni relativamente modeste apportate in sede aziendale, oggi questo schema funziona sempre meno. Quando una persona viene assunta, è difficile sapere se la sua produttività effettiva si collocherà vicino allo standard medio della categoria, oppure molto al di sotto, o molto al di sopra; e, anche quando la produttività di quella persona si colloca vicino allo standard, può accadere che si presenti nel prossimo futuro l’opportunità di assumerne per la stessa funzione un’altra molto più produttiva. L’azienda tende dunque a preferire forme di ingaggio che le assicurino non soltanto la possibilità di praticare una retribuzione al di sotto dello standard, ma anche la disponibilità di un “periodo di prova” il più lungo possibile. La diversificazione delle forme di ingaggio mina, così, le fondamenta del sistema tradizionale dell’inquadramento professionale. L’ordinamento protettivo non è in grado di reagire con un rafforzamento della propria inderogabilità, perché è il valore effettivo delle prestazioni lavorative, in seno a ciascuna categoria, che fa registrare variazioni enormemente superiori rispetto alle variazioni che si registravano quando, mezzo secolo fa, quel sistema è stato messo a punto dalla contrattazione collettiva nazionale con l’istituzione del cosiddetto “inquadramento unico”.

Un fattore di crisi del sistema tradizionale della nostra contrattazione collettiva è costituito poi dalla destrutturazione dei “settori” nei quali per oltre un secolo si è articolato il tessuto produttivo: per un verso manifattura e servizi sono sempre più inestricabilmente intrecciati tra loro (v. in proposito, anche per gli abbondanti riferimenti bibliografici, F. Seghezzi, 2017, pp. 147-151), per altro verso la rapidità dell’evoluzione delle tecniche applicate rende sempre più volatile la compartimentazione degli stessi servizi. Col risultato di un aumento progressivo dei casi in cui un’impresa può considerarsi “appartenente” a una pluralità di settori coperti da altrettanti contratti collettivi nazionali, o non riconoscersi come appartenente ad alcuno di quei settori.

Il nostro sistema di protezione del lavoro modellato dalla legge e dalla contrattazione collettiva nazionale, concepito per unire i lavoratori di un determinato settore e strutturato per applicarsi a “collettivi” aziendali omogenei e solidali, ha comunque grande difficoltà ad applicarsi a una popolazione sempre più segmentata, disomogenea per quel che riguarda le produttività individuali, pur in seno alle stesse aziende e nell’ambito delle stesse funzioni produttive; una popolazione, dunque, assai poco propensa a quella che un tempo veniva chiamata “solidarietà di classe”. Chi è capace di “saltare sul treno” dell’innovazione tecnologica, quando esso passa, acquisisce capacità molto superiori rispetto a chi non ne è capace: donde l’aumento delle disparità di produttività e con esse delle disparità di reddito. I contratti collettivi nazionali non sono in grado di governare questa nuova realtà; ma anche le tecniche di protezione legislativa stentano a tenere il passo. Questo induce la World Employment Confederation (2016, p. 22) da prevedere un futuro prossimo nel quale le relazioni industriali si caratterizzeranno per un più intenso collegamento diretto della retribuzione alla produttività aziendale e individuale del lavoro dipendente (v. più ampiamente in proposito R. Del Punta, 2017, § 6).

  1. La prospettiva di un aumento della subordinazione tecnica del lavoratore dipendente, ma al tempo stesso di un avvicinamento della sua condizione esistenziale a quella del lavoratore autonomo

Un altro capitolo del diritto del lavoro sul quale l’evoluzione tecnologica sta avendo un impatto in qualche misura destrutturante è quello della disciplina dei controlli sulla prestazione lavorativa e della tutela della riservatezza della persona che lavora. Con un duplice effetto: per un verso quello di accentuare la possibilità per il datore di lavoro di osservare la prestazione nel suo svolgersi, così in qualche modo accentuandosi la condizione di subordinazione effettiva del lavoratore dipendente; per altro verso quello di rendere per diversi aspetti il suo rapporto esistenziale con il lavoro più simile a quello del lavoratore autonomo. Se si esclude il settore pubblico, della prestazione dipendente il creditore controlla sempre meno l’effettiva estensione temporale e sempre di più il risultato; e in questo modo si riduce quel contenuto assicurativo che – come si è visto nel § 2 – all’origine l’ordinamento aveva inteso imporre inderogabilmente nel contratto di lavoro subordinato.

Quando la prestazione è svolta mediante un computer collegato all’organizzazione aziendale – sia esso un portatile, un tablet, uno smartphone, un apparecchio per il controllo satellitare degli spostamenti – questo rende possibili controlli sul suo contenuto assai più penetranti che in passato. La questione giuridica che ne nasce è per lo più stata collocata nel capitolo della disciplina dei “controlli a distanza”, perché la tecnologia telematica consente effettivamente al datore di lavoro di esercitare quei controlli senza alcun bisogno della presenza di un controllore nelle vicinanze del prestatore durante lo svolgimento della sua attività; e per questo aspetto alla questione stessa, in riferimento al lavoro subordinato, mi sembra sia stata data una risposta appropriata con il nuovo testo dell’articolo 4, introdotto nello Statuto dei lavoratori dall’articolo 23 del d.lgs. n. 151/2015 (sul quale v. per tutti R. Del Punta, 2016; Id., 2017, § 7). Ma, a ben vedere, con l’avvento delle nuove tecnologie informatiche e telematiche il concetto stesso di “distanza” perde rilievo. Mezzo secolo fa ben poteva considerarsi come un’odiosa insidia per la dignità e la riservatezza della persona la presenza nei pressi del suo posto di lavoro di microfoni o telecamere capaci di trasmettere suoni e immagini a un controllore “distante”; ma nell’era di Skype e di Google Hangout, nella quale ogni personal computer viene venduto già attrezzato con microfono e telecamera incorporati, che sia l’ordinamento giuslavoristico a individuare un’insidia per il lavoratore dipendente in quel microfono o in quella telecamera non ha evidentemente più alcun senso. Oggi ad attentare al right to be let alone non sono più singole apparecchiature “aggiuntive” surrettiziamente installate nei luoghi di lavoro, ma è un intero sistema di collegamento permanente in rete di ciascun individuo con l’umanità intera, non solo per scopi produttivi ma anche per tutte le altre esigenze della vita quotidiana, mediante dispositivi che pesano pochi grammi, tablet, smartphone e apparecchiature di controllo satellitare.

Questo collegamento permanente in rete riguarda ormai la grande maggioranza degli appartenenti al genere umano. E quando viene utilizzato per la produzione di beni o servizi, esso coinvolge allo stesso modo i lavoratori subordinati e quelli autonomi. Vero è che, nel caso in cui a essere svolta mediante un computer collegato con l’organizzazione aziendale è una prestazione lavorativa continuativa, le nuove tecnologie consentono al datore di analizzare più compiutamente e con costi molto minori la produttività individuale, con ciò accentuandosi la condizione di subordinazione del collaboratore dipendente; ma le stesse tecnologie consentono anche di svincolare il collaboratore dipendente da uno stretto coordinamento spazio-temporale della prestazione, rendendo possibile la forma di organizzazione della prestazione ora indicata dalla legge n. 81/2017 col termine “lavoro agile”, nella quale un segmento temporale della prestazione stessa è di fatto in tutto e per tutto assimilabile al lavoro autonomo, ancorché svolta nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. Con la conseguente possibilità di riconquista del controllo sull’intreccio fra tempo di lavoro e tempo dedicato alla vita privata, di cui si è detto all’inizio.

Lavoro subordinato e lavoro autonomo sono tuttavia accomunati dalle nuove tecnologie anche per una possibilità inversa rispetto a quella del maggior controllo sul proprio tempo, destinata probabilmente ad assumere importanza via via maggiore nel prossimo futuro: la possibilità che la prestazione lavorativa venga sollecitata e attivata, in collegamento e coordinamento con il resto dell’organizzazione aziendale, anche durante il tempo di non lavoro, nella parte della giornata o della settimana destinata alla vita familiare, alle relazioni sociali, alla ricreazione, al riposo. Questa possibilità determina, sul versante del lavoro subordinato, una erosione dell’efficacia dei limiti massimi di durata della prestazione (v. in proposito anche R. Del Punta, 2017, § 4), che il “diritto alla disconnessione” – ora riconosciuto con l’articolo 19 della legge n. 81/2017 –riuscirà probabilmente a evitare solo in parte.

Lavoro subordinato e lavoro autonomo sono infine accomunati tra loro dalle nuove tecnologie per l’aumentato ritmo di obsolescenza delle funzioni affidate al prestatore, come effetto dell’obsolescenza delle tecniche applicate. Nel campo del lavoro subordinato questo fenomeno toglie alle disposizioni legislative e contrattuali limitative dello ius variandi del datore di lavoro gran parte del loro contenuto pratico: ciò di cui il legislatore ha preso atto reagendo in modo – a mio avviso – appropriato con l’articolo 3 del d.lgs. n. 81/2015, che distilla il buon senso espresso da quarant’anni di giurisprudenza su questo tema (v. più ampiamente in proposito ancora R. Del Punta, 2017, § 5); ma non si può non osservare come la nuova disciplina dettata da questa norma resti imperniata sul riferimento a uno standard di trattamento fissato per una “categoria professionale” tradizionale: cioè resti legata a una tecnica contrattuale che, come si è visto (§ 6) deve probabilmente considerarsi già oggi inadeguata rispetto all’evoluzione del tessuto produttivo. Proprio la nuova disciplina della materia, comunque, sottolinea in definitiva l’importanza della formazione continua per una protezione efficace della professionalità del lavoratore (F. Seghezzi, 2017, p. 211-215). Protezione che non potrà mai più tornare a essere quella statica del vecchio articolo 13 St. lav.

Per concludere su questo punto, resta da segnalare il fatto – sorprendente e non facilmente spiegabile – che i dati disponibili non sembrano mostrare un aumento della produttività del lavoro proporzionato rispetto all’aumento dell’utilizzazione dello strumento informatico nel tessuto produttivo. Sarà molto interessante capirne il perché.

  1. La paura dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. È davvero prossima l’esclusione dal lavoro retribuito di una parte rilevante dell’umanità?

Alla preoccupazione per la crisi di efficacia del vecchio ordinamento protettivo si aggiunge quella per una crisi occupazionale spaventosa, da più parti annunciata e diffusamente temuta come conseguenza dell’avvento dell’automazione e dell’intelligenza artificiale: il culmine delle profezie catastrofiche si è avuto alcuni anni or sono con l’annuncio della “fine del lavoro” da parte di         J. Rifkin (1995), peraltro non preso molto sul serio dagli economisti più autorevoli. Propendo per dare maggior credito alla tesi di chi osserva che il progresso tecnologico ha sempre portato con sé la sostituzione di vecchi mestieri con mestieri nuovi, producendo sì, nell’immediatezza del mutamento, un aumento della disoccupazione, ma solo contingente e destinato a essere riassorbito nel nuovo tessuto produttivo. Gli stessi R. e D. Susskind (2015), che stimano nel 47% la percentuale dei mestieri destinati a scomparsa o profonda trasformazione a breve termine, prevedono la nascita di un numero corrispondente di nuove occupazioni.

Ho esposto sinteticamente, insieme al collega Pietro Micheli, i motivi che ci inducono a preferire questa visione più ottimistica in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera alcuni mesi or sono, proponendo alcuni esempi di quanto è accaduto nel passato recente su questo terreno. Osservavamo come lungo l’Alzaia del Naviglio Grande, a Milano, si vedano ancora i piani inclinati di cemento o di pietra dietro i quali nell’800 e ancora fino alla metà del ’900 centinaia di lavandaie si inginocchiavano per svolgere il loro lavoro durissimo, con le mani nell’acqua gelida proveniente direttamente dal Ticino. Nei decenni successivi l’avvento delle lavatrici, intese come elettrodomestici, spazzò via tutte quelle lavandaie; ma esse si riconvertirono abbastanza rapidamente in operaie di fabbrica, dattilografe, cameriere o altro. Dall’inizio della rivoluzione industriale l’innovazione tecnologica ha continuamente rivoluzionato il modo di essere del lavoro, rendendolo al tempo stesso meno faticoso, meno pericoloso e più produttivo. Come le lavandaie, anche i tagliaghiaccio, gli addetti ad accendere i lampioni o a bussare alle porte per svegliare i lavoratori di mattina, gli spaccapietre e molte altre figure di lavoratori non esistono più da tempo (forse dei mestieri di allora è scomparso persino di più del 47% la cui scomparsa è prevista oggi da R. e D. Susskind); ma da allora il tasso complessivo di occupazione è dovunque aumentato, non diminuito.

Sono portato a dar credito alla visione della “corsa tra automazione e creazione di nuovi mestieri” come un fenomeno ciclico: ogni ventata di innovazione tecnologica determina una riduzione del costo del lavoro che a sua volta incentiva l’invenzione di nuove funzioni da attribuire al lavoro umano, donde un freno ai nuovi investimenti in innovazione tecnologica (D. Acemoglu, P. Restrepo, 2017: “when automation runs ahead of the creation of new tasks, market forces induce a slowdown in subsequent automation and more rapid countervailing advances in the creation of new tasks. […] A wave of automation pushes down the effective costs of producing with labor, discouraging further efforts to automate additional tasks and encouraging the creation of new tasks”).

Hanno ragione coloro che – come gli stessi Acemoglu e Restrepo – avvertono la differenza assai rilevante tra la sostituzione di lavoro umano mediante macchine cui si è assistito in passato e quella a cui probabilmente assisteremo nel prossimo futuro. Il telaio meccanico, il bulldozer, la lavatrice e il sistema di video-scrittura hanno sostituito lavoro umano di contenuto professionale medio-basso, obbligando a riconvertirsi a nuovi mestieri persone che avevano investito relativamente poco nella propria professionalità; oggi, invece, i robot dotati di intelligenza artificiale incominciano a sostituire anche lavoro umano di contenuto professionale molto elevato, come per esempio quello del pilota di aereo, o del neuro-chirurgo. La rivoluzione cui stiamo assistendo oggi (per la verità più oltr’Alpe e oltre Atlantico che in casa nostra: v. G. Alleva, 2017, p. 7) non è fatta soltanto delle piattaforme digitali di cui si è detto, ma anche dell’Internet of things, che ha reso gli oggetti capaci di inviare e ricevere dati; dell’industria 4.0, cioè dell’automazione alimentata dallo scambio di dati negli ambienti produttivi (dove “industria” va intesa nel senso lato che comprende tutte le attività produttive non solo di beni, ma anche di servizi); e delle macchine “intelligenti”, cioè che possono prendere decisioni sulla base di dati via via appresi. Le mansioni che oggi si possono automatizzare non sono più solo quelle manuali, e neppure solo quelle delle tre D (dull, dirty and dangerous), ma anche alcune mansioni di concetto, come quelle di un impiegato bancario, e anche alcune di quelle svolte da persone dotate di competenze sofisticate. Sono suscettibili di automazione tutti i lavori in cui ci siano molti dati da processare, regole chiare da applicare e la necessità di un prodotto standardizzato. La possibilità di tradurre le immagini e i suoni in informazioni digitalizzate al servizio di un pilota automatico, poi, consentirà presto di mietere vittime tra i medici, i radiologi, i revisori contabili, gli agenti assicurativi, i commercialisti, i capitani di nave e i piloti di aereo.

È evidente che la riconversione di figure come queste verso altri mestieri di pari livello professionale è molto più difficile e costosa di quanto non sia insegnare a una ex-lavandaia il mestiere della cameriera o della magazziniera. Ma questa sfida non è affatto persa in partenza: certo, in alcuni casi la soluzione più ragionevole consisterà in un puro e semplice indennizzo dei losers, mediante un prepensionamento; ma nella maggior parte dei casi sarà invece possibile puntare a una riconversione capace di valorizzare le conoscenze e l’esperienza anche del pilota e del chirurgo.

Proprio questa visione ottimistica, comunque, implica la consapevolezza del fatto che l’evoluzione delle tecniche applicate pone – sul piano occupazionale – un problema di transizione dal vecchio al nuovo che è oggi e sarà nel prossimo futuro probabilmente più impegnativo, per diversi aspetti, sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo, di quanto non lo sia stato in passato. Donde forse anche una maggior durata della transizione stessa.

In considerazione di questa prospettiva, Bill Gates – il quale ne sa qualcosa, avendo tratto personalmente beneficio considerevole dall’innovazione tecnologica – ha recentemente sostenuto che i robot dovrebbero pagare un ammontare di tasse equivalente al gettito di tasse e contributi relativi alle persone da essi rimpiazzate. Ma è davvero questa la soluzione del problema? Quand’anche fosse possibile accertare e misurare la “quantità di sostituzione” dell’uomo da parte della macchina, e fosse possibile gravare il progresso tecnologico di un’imposta applicabile in modo uguale in tutti i Paesi del mondo, questo gioverebbe poco al genere umano. Se negli anni ’50 fosse stata messa un’imposta sulle lavatrici, essa non avrebbe giovato alle lavandaie chine sui lavatoi del Naviglio Grande: avrebbe solo ritardato il loro passaggio a lavori meno faticosi e più produttivi.

Il problema non è di ritardare il progresso tecnologico, ma di redistribuirne i benefici e di riqualificare le persone cui i robot si sostituiscono, in modo che esse possano dedicarsi ai molti altri lavori richiesti ma vacanti già oggi, e soprattutto all’infinità di lavori nuovi che saranno richiesti domani e che le macchine non potranno svolgere. Oggi in Italia c’è almeno mezzo milione di posti di lavoro che rimangono permanentemente scoperti per mancanza di persone competenti: tecnici informatici, elettricisti, falegnami, infermieri, artigiani dei mestieri più vari. Domani ci sarà comunque – se gli consentiremo di esprimersi – un bisogno senza limiti di lavoro umano non sostituibile dalle macchine nei settori dell’assistenza medica e paramedica alle persone, dell’istruzione, della diffusione delle conoscenze, dei servizi qualificati alle famiglie e alle comunità locali, della ricerca in tutti i campi, e l’elenco potrebbe continuare a lungo: certo, tutte funzioni nelle quali l’alfabetizzazione digitale sarà sempre più indispensabile.

Per altro verso, davanti a noi non c’è solo la prospettiva dell’automazione, ma anche quella dell’“accrescimento” (augmentation), per cui la tecnologia supporta il lavoro umano: non lo sostituisce, ma lo arricchisce e lo rende più efficace (D. Méda, 2016, p. 13). Sono già molti i casi in cui persone e macchine sono tra loro complementari: dalla telemedicina all’analisi di big data, dai controlli che assistono un pilota d’aereo o di auto, al computer che sto usando per scrivere questa relazione. Sono altrettanto numerosi i casi di disabilità gravi che possono essere neutralizzate con l’uso delle nuove tecnologie, consentendo di entrare nel mondo del lavoro a chi altrimenti ne sarebbe escluso: tra le soluzioni d’avanguardia oggi disponibili per i terapisti della riabilitazione si annoverano i sistemi capaci di creare una “realtà virtuale” con cui il disabile può interagire, la fisioterapia assistita da robot già oggi attiva in Italia in numerosi centri, dalla Lombardia alla Basilicata, e le piattaforme per la teleriabilitazione domiciliare. E qui il progresso tecnologico, lungi dall’essere penalizzato fiscalmente, dovrebbe al contrario essere incentivato.

  1. Due risposte molto diverse tra loro alla crisi del diritto e del mercato del lavoro causata dall’innovazione tecnologica

Chi vede un futuro connotato principalmente da una disoccupazione tecnologica crescente in modo irreversibile si orienta, comprensibilmente, verso una soluzione del problema sociale che ne consegue di tipo assistenziale fondata sul reddito minimo garantito a spese della collettività. Se invece si aderisce alla visione più ottimistica – ma al tempo stesso più problematica e impegnativa per i policy makers – della disoccupazione tecnologica come fenomeno transitorio, caratteristico di qualsiasi passaggio da vecchi a nuovi assetti del tessuto produttivo, allora la questione cruciale diventa quella di porre il sistema in grado di accompagnare ogni persona che perde il posto, o decide di cambiare occupazione, e sostenerla efficacemente in un processo di riqualificazione, o addirittura riconversione, che le consenta di rispondere a una domanda di lavoro nuova e diversa, talora molto diversa, rispetto al passato. Ricordando che la disoccupazione tecnologica nasce “dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore di quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro; ma è soltanto un disallineamento temporaneo” (J.M. Keynes, 1930).

A ben vedere le misure necessarie per far fronte al problema della nuova disoccupazione tecnologica, in questo ordine di idee, sono le stesse di cui c’è bisogno nel nuovo tessuto produttivo per far fronte all’aumento della disuguaglianza di produttività e di reddito tra i lavoratori, di cui si è detto nel § 6: quell’uguaglianza sostanziale che gli standard minimi inderogabili di trattamento “di settore” non riescono più ad assicurare deve ora essere perseguita col mettere a disposizione di tutti, ma soprattutto dei più deboli, l’assistenza necessaria per aumentare l’utilità del lavoro, in relazione all’evoluzione della domanda espressa dal tessuto produttivo.

Tra la lotta alla nuova disoccupazione tecnologica e la lotta alle nuove disuguaglianze nel mercato del lavoro c’è dunque una sostanziale continuità, se non addirittura identità. Ma cambiano gli strumenti principali con cui il sistema protettivo può adempiere questa funzione. Lo standard inderogabile determinato per legge o per contratto collettivo nazionale conserverà, presumibilmente, un ruolo apprezzabile, ma solo come presidio a difesa di un trattamento minimo per gli ultimi della fila, secondo la logica del minimum wage di tipo anglosassone. Al di sopra di quel minimo gli standard potranno essere posti efficacemente soltanto dalla contrattazione collettiva più vicina al luogo di lavoro, più capace di aderire in modo puntuale agli svariati modi d’essere della nuova organizzazione del lavoro.

Per il resto, la sicurezza economica dei lavoratori e la loro capacità di non rimanere ai livelli minimi dovrà essere assicurata loro innanzitutto da un sistema scolastico capace di fornire a tutti un’istruzione di qualità superiore rispetto all’attuale (e questo è ovviamente un obiettivo che implica un investimento pubblico rilevante, e che comunque non è raggiungibile con programmi di breve termine). Dovrà essere assicurata inoltre dalla disponibilità di servizi efficaci e capillari di informazione, orientamento, formazione, riqualificazione, assistenza intensiva nella transizione verso il lavoro più produttivo. Per la realizzazione di una rete di servizi di questo genere non vedo alternative credibili al modello del contratto (o assegno) di ricollocazione delineato con i decreti attuativi della legge n. 183/2014, n. 22 e 150/2015, eventualmente integrato con gli strumenti di coinvolgimento delle imprese che attuano licenziamenti collettivi, come proposto ultimamente da Marco Leonardi e Tommaso Nannicini. Ma vedo pure che siamo ancora molto indietro sulla strada dell’implementazione di quel disegno. E l’investimento che il nostro Paese sta compiendo su questo servizio appare ancora molto lontano da un livello di minima sufficienza.

  1. Se le nuove tecnologie e la globalizzazione consentono ai lavoratori di essere loro a cercare, selezionare e ingaggiare gli imprenditori migliori su scala mondiale

In questa ricognizione degli effetti dell’evoluzione tecnologica sul mercato e il diritto del lavoro abbiamo fin qui posto al centro della riflessione il fenomeno delle piattaforme digitali che consentono a chi cerca prestatori di trovarli e ingaggiarli just in time, anche da un continente all’altro, con costi di transazione molto ridotti. Mi sia consentito, prima di concludere la relazione, proporre una prospettiva – per così dire – inversa, che può aprirsi per effetto delle nuove possibilità offerte dalla comunicazione in rete, combinata con la nuova mobilità delle imprese e dei capitali su scala mondiale: la prospettiva, cioè, che le nuove tecnologie consentano ai lavoratori stessi di trovare e ingaggiare gli imprenditori di cui hanno bisogno per valorizzare al meglio il proprio lavoro.

Che Internet e le nuove opportunità di trasporto a basso costo abbiano allargato enormemente la possibilità per il singolo lavoratore di individuare su scala mondiale l’azienda dove più gli conviene inserirsi, è evidente a tutti. Meno evidente è che la globalizzazione stia allargando altrettanto la possibilità per una collettività di lavoratori di individuare su scala mondiale l’imprenditore che meglio può valorizzare il loro lavoro e di ottenere che questi si induca a investire nel luogo in cui essi risiedono. Questa nuova possibilità costituisce un dato destinato ad assumere importanza sempre maggiore nel sistema delle relazioni industriali e più in generale nelle vicende dell’economia (per una esposizione più compiuta rinvio a quanto ho scritto in proposito dieci anni or sono).

Siamo abituati a pensare alla nascita o al trasferimento di un’impresa come a un evento nel quale il potere decisionale è esercitato da chi possiede il capitale, i mezzi di produzione, mentre i lavoratori – che ne sono privi – giocano soltanto un ruolo passivo; che essi vengano “assunti” dal nuovo imprenditore, o “ceduti” dal vecchio al nuovo, godendo in quest’ultimo caso soltanto di un diritto di informazione preventiva sugli effetti del contratto di trasferimento. Questo modo di pensare ci deriva dal fondare ancora la nostra visione del mercato del lavoro soltanto sul modello del monopsonio – strutturale o dinamico –, ovvero di un mercato dove è l’imprenditore la sola parte ad avere una libertà di scelta effettiva, mentre il lavoratore, anche se formalmente libero, si trova di fatto nella situazione di dover accettare passivamente ciò che gli viene offerto. Ora, questo vecchio modello spiega pur sempre, come tutti gli altri modelli, una parte rilevante della realtà odierna del tessuto produttivo e del mercato del lavoro; ma è una parte che va riducendosi. Se vogliamo comprendere anche l’altra parte, quella che con lo sviluppo delle nuove tecnologie va assumendo un peso sempre maggiore nelle economie più mature, è utile adottare anche un altro modello; il quale non ha certo – neppur esso – la pretesa di spiegare la realtà tutta intera, ma può consentirci di gettare luce su quanto sta accadendo, di fare qualche previsione su quanto potrebbe accadere più diffusamente nel prossimo futuro e di operare per favorire l’evoluzione considerata migliore dal punto di vista del progresso sociale.

Il punto di partenza per la costruzione concettuale del nuovo modello consiste dunque nel prendere atto che una parte sempre maggiore dei lavoratori ha una possibilità effettiva di scegliere l’azienda più capace di valorizzare il loro lavoro e che questa possibilità viene fortemente incrementata da Internet, per coloro che sanno servirsene. Essi incominciano a esercitare questa scelta quando si orientano verso un determinato settore produttivo e quando orientano la propria formazione professionale di base in funzione di questa prima opzione generica, trovando nella rete – se sanno usarla – informazioni sempre più abbondanti e dettagliate su di una gamma di possibilità esistenti sempre più ampia; quando determinano il raggio entro il quale sono disposti a cercare il luogo migliore per vivere e lavorare, avendo possibilità molto maggiori che in passato di estenderlo; quando entro questo raggio individuano, anche a distanza di migliaia di chilometri, l’azienda che consente loro di svolgere il lavoro per il quale sono più abili e disponibili, di svolgerlo in un orario che si concilii con le loro esigenze familiari e personali e alle condizioni retributive migliori. Questa è, poi, la scelta che viene rinnovata almeno ogni anno da quel 30% circa di lavoratori italiani che entro questo lasso di tempo cambiano azienda: una percentuale destinata molto probabilmente ad aumentare nel prossimo futuro. Poiché la disoccupazione non frizionale concerne soltanto alcune fasce marginali della forza-lavoro caratterizzate da particolare debolezza, si può ben affermare che tutti i lavoratori non appartenenti a quelle fasce esercitano nel mercato un’autonomia negoziale in qualche misura effettiva e non soltanto formale.

L’idea nuova è che questo modello può applicarsi non soltanto al comportamento di lavoratori singoli, che negoziano individualmente con gli imprenditori, ma anche al comportamento del gruppo di lavoratori di una determinata azienda. A ben vedere, corrispondono a questo modello tutti i casi di imprese in crisi, nei quali la successione di un nuovo imprenditore al vecchio avviene sulla base di una preventiva negoziazione collettiva del piano di risanamento, rilancio o nuovo insediamento: è il caso, per esempio, del rifiuto dell’offerta di Air France-KLM e la scelta della “cordata” C.A.I. da parte dei lavoratori di Alitalia nel 2008; oppure quello dell’approvazione del piano industriale proposto dalla FIAT di Sergio Marchionne da parte dei lavoratori di Pomigliano e di Mirafiori con i referendum aziendali del 2010. Ma corrispondono a questo modello anche i casi nei quali l’attività di ricerca e di scelta dell’imprenditore è svolta da rappresentanti – sindacato e/o autorità pubblica – di un insieme ancora solo potenziale di lavoratori, dislocati in una zona economicamente depressa: è quanto si è visto, per esempio, nel 1984 con l’“ingaggio” della Nissan da parte dei lavoratori di Sunderland, nel Nord-Inghilterra; ed è, più in generale, quanto accade dovunque vengano sperimentate politiche di attrazione degli investimenti.

Se finora la possibilità che a decidere sull’imprenditore cui affidarsi sia il collettivo dei lavoratori è stata poco evidente, è per le difficoltà del coordinamento dei lavoratori stessi tra loro e per la limitatezza della platea degli imprenditori cui essi potevano rivolgersi in ciascuna situazione concreta; ma oggi le nuove tecnologie consentono di minimizzare entrambi questi ostacoli, questi costi di transazione. Donde la prospettiva che un nuovo importantissimo “mestiere” del sindacato possa consistere proprio nel guidare i lavoratori di una zona, o di un’azienda in crisi, nella ricerca su scala planetaria degli imprenditori più capaci di valorizzarne le capacità professionali, nella valutazione dei piani industriali che ciascuno di questi propone e poi nella negoziazione della scommessa comune con l’interlocutore ritenuto più affidabile sotto il profilo tecnico, economico-finanziario e dell’etica imprenditoriale. Ciò, ovviamente, implica la possibilità che il contratto aziendale possa regolare l’intera materia dell’organizzazione e del sistema di retribuzione del lavoro, a 360 gradi, anche sostituendosi interamente al contratto nazionale.

Nell’era della globalizzazione questo è probabilmente il ruolo più importante che un sindacato al passo con i tempi può svolgere nell’interesse dei propri rappresentati: aiutarli a mettere in concorrenza tra loro nel mercato del lavoro il maggior numero possibile di imprenditori provenienti da ogni parte del mondo. Perché quanto maggiore è la concorrenza sul lato della domanda, tanto maggiore è il potere dei lavoratori al tavolo della negoziazione delle condizioni di lavoro. E su questo terreno la rete, Google e Skype possono diventare un’arma incomparabilmente più efficace di quanto non siano le vecchie armi della lotta sindacale, nate nell’era del mercato monopsonistico.

Certo, altri ostacoli a questa attività di ricerca e “ingaggio” del nuovo imprenditore da parte di un collettivo di lavoratori possono essere costituiti da fattori istituzionali o culturali: per esempio da pratiche di cartello tra gli imprenditori che ne impediscano la concorrenza nel mercato del lavoro; oppure da forme di autoinibizione degli stessi lavoratori in nome di un malinteso obbligo di fedeltà nei confronti del vecchio imprenditore inefficiente; oppure ancora da quella forma diffusa di masochismo politico-economico che consiste nel privilegiare le imprese “nazionali” ostacolando l’accesso al mercato del lavoro delle imprese straniere (masochismo bi-partisan, visto che esso è largamente praticato oggi in Italia sia da destra, in nome della difesa dell’“italianità” delle imprese operanti nel Paese, sia da sinistra, in nome della difesa della democrazia e della civiltà contro lo strapotere delle multinazionali). Per la rimozione di questi ostacoli molto può fare il sistema delle relazioni industriali; ma molto può fare anche l’ordinamento, eliminando gli ostacoli di natura giuridica alla concorrenza nel mercato del lavoro sul lato della domanda. E molto può fare il Governo, rimuovendo gli ostacoli di ordine burocratico-amministrativo e fiscale che diminuiscono l’attrattività del Paese per gli investitori stranieri.

  1. Per provare a tirare le fila del discorso

Il tessuto produttivo e il mercato del lavoro coi quali il sistema delle relazioni industriali dovrà confrontarsi nel prossimo futuro presentano, in conclusione, caratteri strutturali notevolmente diversi rispetto a quelli che sono stati dominanti nel secolo passato: cioè rispetto a quelli in relazione ai quali il nostro diritto del lavoro si è strutturato. Un tratto che accomuna gran parte dei mutamenti in atto è la drastica riduzione dei costi di transazione conseguente agli sviluppi dell’informatica e dalla telematica.

Dove l’abbattimento dei costi dell’incontro tra domanda e offerta avviene attraverso le piattaforme digitali, questa disintermediazione consente ai lavoratori di offrire i propri servizi direttamente, senza la necessità di un imprenditore che ne organizzi la commercializzazione. Viene meno, così, quella che Ronald Coase indicava nel secolo scorso come ragion d’essere essenziale del rapporto di lavoro nell’impresa, cioè l’esigenza dell’imprenditore di abbattere i costi di transazione sostituendo con un solo contratto una miriade di contratti, altrimenti necessari per conformare di volta in volta la prestazione lavorativa alle esigenze nuove (§§ 1-2).

L’organizzazione del lavoro mediante le piattaforme digitali da un lato favorisce l’accesso degli outsider al mercato; consente inoltre alle persone un migliore controllo sull’uso del proprio tempo. Dall’altro lato, però, determina una destrutturazione totale delle forme di protezione del lavoro tradizionali: più precisamente, si assiste a una sostituzione massiva di lavoro subordinato con lavoro giuridicamente qualificato come autonomo. Se, come è prevedibile, le dimensioni del fenomeno sono destinate a crescere, si rende necessario un nuovo ordinamento protettivo che favorisca forme di recupero di una continuità del reddito con strumenti mutualistici, già oggi sperimentati da organizzazioni costituite espressamente per questo scopo (le c.d. umbrella companies, che fungono da fondo mutualistico per i platform workers). Dove questi strumenti non siano disponibili, o i lavoratori interessati non intendano avvalersene, si può pensare a una norma che imponga il pagamento dei compensi per mezzo della stessa piattaforma Inps istituita per il lavoro occasionale (d.-l. n. 50/2017, art. 54-bis), in modo da assicurare il rispetto di uno standard retributivo minimo opportunamente determinato e il versamento di un contributo per le assicurazioni previdenziali essenziali per infortuni sul lavoro, invalidità e vecchiaia (§§ 3-4).

Dove l’attività lavorativa conserva, invece, il carattere della continuità, al servizio di un unico committente, informatica e telematica producono l’effetto di un coordinamento più facile della prestazione lavorativa individuale con il resto dell’organizzazione aziendale, anche senza necessità di un suo assoggettamento a coordinamento spazio-temporale. Se ciononostante il rapporto conserva la forma del contratto di lavoro subordinato, l’assoggettamento a coordinamento informatico-telematico può avere l’effetto di una erosione dell’efficacia delle tecniche protettive tradizionali. Più specificamente:

Con l’avvento della robotica e dell’intelligenza artificiale non sono più a rischio di sostituzione soltanto i mestieri di basso contenuto professionale, ma anche mestieri di contenuto alto come quelli del pilota d’aereo e del chirurgo. Ciò potrà rendere più lunga e impegnativa la transizione dai vecchi ai nuovi lavori; ma il progresso tecnologico non avrà in futuro, come non ha mai avuto nella storia del progresso tecnologico, il potere di rendere definitivamente inutile il lavoro umano: questo, se sapremo valorizzarlo, continuerà ad avere campi sconfinati nei quali rispondere a esigenze delle singole persone e della società. E sarà la stessa disponibilità di lavoro umano generata dalla scomparsa dei vecchi mestieri a stimolare la capacità di inventarne di nuovi, in una rincorsa continua tra invenzione di macchine capaci di sostituire il lavoro e invenzione di mestieri che le macchine non saranno in grado di svolgere (§ 8).

Per converso, la globalizzazione promossa dalle nuove tecnologie amplia la possibilità per i lavoratori di cercare, sia individualmente sia collettivamente, l’imprenditore più capace di valorizzare il loro lavoro: donde una concorrenza più intensa nel mercato sul lato della domanda, dalla quale può conseguire un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori. Donde anche un nuovo mestiere che il sindacato deve imparare a svolgere in tutte le situazioni di crisi occupazionale: quello di guidare i lavoratori nella ricerca e nella valutazione degli imprenditori disponibili su scala mondiale, dei piani industriali che essi propongono, e poi nella negoziazione con quello considerato migliore la scommessa comune sulla nuova impresa (§ 10).

Il tratto dominante del nostro futuro prevedibile non sarà comunque costituito dalla “fine del lavoro”: sarebbe dunque sbagliato imboccare la strada del reddito di cittadinanza come indennizzo universale per l’espulsione dal tessuto produttivo della maggior parte dei cittadini. L’evoluzione tecnologica più rapida richiederà tuttavia, per evitare perdite sul piano dell’occupazione, un drastico miglioramento dell’efficienza dei servizi di istruzione e formazione mirata alle nuove esigenze, coniugati ovviamente con un congruo sostegno del reddito delle persone coinvolte; richiederà, in particolare, un’accelerazione dei tempi di riconversione delle persone coinvolte nel cambiamento. Terreno, questo, sul quale il nostro Paese accusa un ritardo grave: basti pensare alla riduzione nell’ultimo quarto di secolo del suo investimento sul sistema scolastico e universitario, al suo sistema di formazione professionale privo di un monitoraggio permanente e capillare della coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, il suo stanziamento per l’assegno di ricollocazione pari a un centesimo di quanto si stanzia per mantenere in vita rapporti di lavoro senza futuro mediante la Cassa integrazione straordinaria (§ 9).

Probabilmente la nuova frontiera del diritto del lavoro del ventunesimo secolo si colloca qui: non tanto in un radicale ridisegno della disciplina inderogabile del rapporto di lavoro tradizionale, quanto nella costruzione di un diritto soggettivo al sostegno efficace nella transizione dal vecchio al nuovo lavoro. Che è essenzialmente il diritto alla formazione e alla riqualificazione continua e congrua in relazione all’evoluzione delle esigenze del tessuto produttivo.

 

Scritti citati

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