LA LEZIONE DEL CONTRATTO A TERMINE

La regola del “giustificato motivo oggettivo”, con l’alea del giudizio che ne consegue, non costituisce la tecnica protettiva più vantaggiosa per i lavoratori: il più delle volte ne sono preferibili altre, fondate su “filtri automatici” delle scelte imprenditoriali

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Editoriale per la
Nwsl n. 457, 4 novembre 2017 – In argomento, oltre ai due articoli di cui si trova il link nel testo, v. anche la mia relazione sulla nozione giurisprudenziale di giustificato motivo oggettivo di licenziamento     .
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Roberto Maroni

Roberto Maroni

Nel 2001 il ministro del Lavoro Maroni si propose di rendere meno vincolante la vecchia regolamentazione del contratto a termine, risalente al 1962, basata su di una casistica minuziosa delle circostanze nelle quali quel contratto era consentito: lo fece sostituendo quell’elenco tassativo vecchio di 40 anni con l’onere per l’imprenditore di enunciare il “giustificato motivo oggettivo” dell’apposizione del termine al contratto, quale che esso fosse. Nel linguaggio degli addetti ai lavori quella motivazione venne indicata come il “causalone”.

Di fatto, però, nessuno si accorse che in questo modo il vincolo fosse stato allentato. Perché chiunque si fosse scostato dall’elenco tassativo vigente in precedenza avrebbe avuto buone probabilità di vedersi bocciato il contratto a termine da un giudice ancora culturalmente legato alla disciplina previgente: l’alea del giudizio, col rischio di vedersi reintegrato il lavoratore a tempo indeterminato, ha operato da allora come un vincolo non meno stringente della regola del 1962. L’unico effetto percepibile della tecnica normativa adottata dal legislatore del 2001 è consistito nell’aumento del contenzioso giudiziale conseguente all’incertezza dell’esito dei giudizi.

Giuliano Poletti

Giuliano Poletti

Nel 2014 il nuovo ministro Poletti ha deciso di sostituire la regola del 2001 con una nuova che non lascia alcuno spazio alla discrezionalità del giudice, ma stabilisce un preciso limite massimo complessivo di durata del rapporto a termine, un numero massimo delle proroghe possibili, e la percentuale massima di lavoratori a termine rispetto all’organico aziendale. Risultato: la percentuale dei lavoratori a termine rispetto al totale degli occupati dipendenti nel triennio è rimasta sostanzialmente stabile, tra il 14 e il 15 per cento, allineata rispetto al resto dell’UE.  Un effetto rilevante però si è verificato: è crollato il contenzioso giudiziale (1246 vertenze in tema di contratto a termine in tutto il 2016 e 490 nel primo semestre 2017, a fronte di 4363 nel corso del 2013).  Ora possiamo anche decidere di dare un giro di vite sui contratti a termine, per ridurne la quota rispetto al flusso totale delle assunzioni: basta ridurre i limiti fissati nel 2014, per esempio abbassando da 36 a 24 mesi il limite di durata complessiva dei rapporti a termine; ma sarebbe assurdo ritornare alla vecchia tecnica del “giustificato motivo oggettivo”, che non assicurerebbe altro risultato se non un ritorno agli alti tassi di contenzioso giudiziale precedenti al 2014.

La lezione che possiamo trarre dall’evoluzione della disciplina dei contratti a termine vale anche per tutti gli altri aspetti del rapporto di lavoro nei quali la regola del “giustificato motivo oggettivo” continua a svolgere un ruolo di primo piano,  soprattutto licenziamenti e trasferimenti. Ai giudici dobbiamo lasciare per intero il compito di stanare i motivi illeciti delle scelte imprenditopriali, le discriminazioni, le rappresaglie. Ma nel campo della ordinaria gestione d’impresa, per governare i flussi e tutelare efficacemente i lavoratori sono molto meglio i cosiddetti “filtri automatici”, che evitano la non necessaria proliferazione del contenzioso giudiziale. Se essi fin qui sono stati poco praticati, è perché le leggi le scrivono soprattutto i giuristi e tra questi prevalgono gli avvocati: l’unica categoria cui l’aumento del contenzioso reca davvero vantaggio.

Grafico

Tabella che accompagnava il mio articolo sul Corriere della Sera del 18 febbtraio 2017

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