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UN LIBRO DA SCOPRIRE: “RESTITUIRE TUTTO, ANCHE SCRIVENDO”

“Scrivere è un modo per ricostruire la memoria: in questi tre anni, nei quali ho riletto da cima a fondo i trenta quaderni del diario che ho sempre tenuto e del Gitario, l’epopea delle vacanze sulle Alpi Apuane o in Val d’Aosta, ho riportato in superficie il ricordo di una infinità di piccole cose che avevo dimenticato, ho rivissuto tante vicende”

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Testo integrale dell’intervista a cura di Roberto Roveda
pubblicata su l’Unione Sarda il 29 maggio 2018 – Gli altri documenti, foto, recensioni e commenti sul libro sono raccolti nella pagina ad esso dedicata [1]
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Avvocato, grande esperto di diritto del lavoro, sindacalista e parlamentare: Pietro Ichino nella sua lunga carriera pubblica è stato tutto questo e anche molto di più, dato che il suo nome è intrinsecamente legato alle riforme del mercato del lavoro avviate in Italia negli ultimi anni. Riforme per le quali Ichino è stato al centro di molte polemiche e per le quali ha pagato anche un prezzo personale con accuse e anni passati sotto scorta dopo che due altri giuslavoristi come lui, Massimo D’Antona e Marco Biagi, erano già caduti vittima degli ultimi rigurgiti del terrorismo rosso. Nonostante questo, Pietro Ichino non è mai venuto meno al suo impegno verso i problemi del lavoro, un impegno che ha accompagnato tutta la sua vicenda umana e professionale. Una vicenda umana e professionale che il giuslavorista milanese ripercorre nel suo ultimo libro, La casa nella pineta (Giunti, 2018, Euro 18, pp. 480; anche E-book), grande affresco di vita famigliare perennemente a cavallo tra pubblico e privato. Sì, perché Pietro Ichino ci apre le porte dei suoi ricordi personali, racconta la storia della sua famiglia – una famiglia borghese del Novecento come recita il sottotitolo – e allo stesso tempo ritrova la storia italiana del secolo scorso.

Ripercorre i grandi incontri della sua vita, primo fra tutti quello con don Lorenzo Milani che nel 1962, dopo aver visto i libri e il benessere che si respira nel salotto milanese della famiglia Ichino, si rivolge a Pietro, tredicenne, dicendo: “Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dal giorno in cui sarai maggiorenne, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato”. Da quelle parole nasceranno molte delle scelte successive di Pietro Ichino, a cui chiediamo come prima cosa lo ha indotto, dopo una vita passata a scrivere di diritto del lavoro, a scrivere un libro che ripercorre le vicende della sua famiglia e anche sue personali.
“Le spinte sono state più d’una. Ho voluto dare una risposta seria ai molti che mi chiedono: ‘Com’è che tu, allievo di don Milani, sei contro l’articolo 18 sui licenziamenti?’. Ma mi hanno sollecitato anche le mie figlie, cui questa storia l’ho sempre raccontata a pezzi e bocconi.”

Professor Ichino, dopo una vita passata a scrivere di diritto del lavoro, che cosa l’ha indotta a scrivere un libro che ripercorre le vicende della sua famiglia e anche sue personali?
Le spinte sono state più d’una. Ho voluto dare una risposta seria ai molti che mi chiedono: “com’è che tu, allievo di don Milani, sei contro l’articolo 18 sui licenziamenti?”. Ma mi hanno sollecitato anche le mie figlie, cui questa storia l’ho sempre raccontata a pezzi e bocconi.

Quando ha incominciato a scriverlo?
Ho incominciato tre anni fa, quasi per gioco: il primo capitolo che ho scritto è il quarto, “L’arte di fare una festa”, che era nato come una sorta di manualetto a uso pratico, poi mi si è trasformato tra le mani in una sorta di “lessico familiare” molto più ambizioso. Proprio scrivendo quello mi sono reso conto che occorreva parlare delle radici da cui quella cultura nasceva.

Come è stato trovarsi a ripercorrere anche un lungo tratto della storia italiana dell’ultimo secolo?
I miei genitori e i nonni materni erano molto attenti a tutto quanto accadeva in giro per il mondo, e fin da piccoli ce lo facevano vivere, ce lo spiegavano, qualche volta in un modo che ci impressionava molto: dalla crisi di Suez all’invasione dell’Ungheria, dal Concilio Vaticano all’assassinio di Kennedy. Poi, dopo l’adolescenza, il ’68, l’“autunno caldo” del ’69, gli anni di piombo, l’assassinio di Aldo Moro, li ho proprio vissuti in prima persona. È un mezzo secolo che non viene insegnato nelle scuole ed è pochissimo conosciuto dalle nuove generazioni; ma è indispensabile per capire quello che accade oggi nel nostro Paese.

Il sottotitolo del libro fa riferimento a una “famiglia borghese”. Cosa ha significato per lei discendere da questa famiglia?
La “casa nella pineta” versiliese è un po’ il simbolo del grande privilegio dell’appartenenza a questa famiglia, che il bisnonno ci ha tramandato con un impegno etico: “difficile non è costruire o acquistare la casa – diceva – ma farla vivere, facendone il luogo della crescita di una famiglia unita: altrimenti, se non c’è quella, anche la casa prima o poi si perde”. In seguito è venuto don Milani a dirci che, invece, di quel privilegio dovevamo liberarci. Nel libro mi sono proposto di raccontare il dilemma tra l’orgoglio di appartenere a questa grande famiglia, insieme ai Pontecorvo, ai Pellizzi, agli Sraffa, ai Sereni, ai Colorni, e l’ingiunzione di don Milani del “restituire tutto”.

Il laboratorio della scuola di Barbiana

Dilemma risolto o irrisolto?
Mi sono proposto di mostrare i due modi diversi in cui mia madre e mio padre hanno cercato di risolvere questo dilemma. E il modo in cui ho cercato di risolverlo io. Io sono il “Pierino”, che nella Lettera a una professoressa è il prototipo del ragazzo privilegiato, che riceve dalla propria famiglia l’educazione e l’istruzione più raffinata. Con la scelta di andare a lavorare al sindacato invece che nello studio di mio padre cercai di spogliarmi di questo privilegio; ma quando “Pierino” nasci, resti inevitabilmente tale per tutta la vita. Ho cercato di raccontare anche questo, nel modo più veritiero e compiuto di cui sono stato capace.

Che cosa significa, precisamente, “famiglia borghese”?
Durante il secolo scorso siamo stati abituati a usare il termine “borghese” in una accezione negativa: la borghesia è la classe privilegiata, che sfrutta la classe proletaria. A me sembra, però, che esista pure un’accezione positiva di questo termine: esso indica anche una classe agiata, sì, ma che coltiva la propria responsabilità nei confronti della società circostante; attenta ai segni dei tempi, ma non per difendersene, bensì per assecondare il progresso sociale. Una parte notevole della borghesia piemontese, di quella lombarda e di quella toscana, dalle quali discende la mia famiglia, ha avuto questo carattere in modo molto marcato. E credo che qualsiasi Paese per crescere bene abbia bisogno di questa borghesia colta e progressista.

Pietro Ingrao

Nel libro lei racconta della possibilità di incontro con tanti personaggi che hanno fatto anche la storia d’Italia. Quali di questi incontri l’hanno segnata maggiormente?
Senza dubbio quello con don Lorenzo Milani, che nella mia adolescenza è stato una presenza vivissima ed estremamente incisiva. Ne sono un documento la sua lettera ai miei genitori e i temi dei suoi ragazzi, di ritorno a Barbiana dopo la settimana milanese, nel ’59. Poi, mi hanno segnato anche i quattro anni passati alla Camera, seduto per motivi alfabetici accanto a Pietro Ingrao. E l’amicizia e il dialogo con Bruno Trentin, di cui in quegli anni a Roma ero vicino di casa.

Il libro è anche un po’ un tirare le somme delle sua vita. Cosa le è rimasto maggiormente dentro, una volta terminato il libro e posata metaforicamente la penna?
Scrivere è un modo per ricostruire la memoria. In questi tre anni, nei quali ho riletto da cima a fondo i trenta quaderni del diario che ho sempre tenuto da quando avevo sedici anni, e del Gitario nel quale la mia famiglia da quarant’anni ha annotato l’epopea delle vacanze sulle Alpi Apuane o in Val d’Aosta, ho riportato in superficie il ricordo di una infinità di piccole cose che avevo dimenticato, ho rivissuto tante vicende; e raccontarle è stato un po’ una parte, sia pur piccola, dell’adempimento di quell’obbligo di “restituire tutto”, che don Milani mi ha imposto.

Tra le tante attività svolte nelle sua vita, lei ha insegnato anche cinque anni all’Università di Cagliari. Cosa le è rimasto di quella esperienza?
Un ricordo bellissimo. Avevo pochi studenti: quattro, che nel corso degli anni salirono a una decina. Qualche volta facemmo lezione all’orto botanico, che si stendeva davanti alla Facoltà, all’ombra di un baobab. Con ciascuno di loro stabilii un rapporto di amicizia, che mi aiutò a capire meglio lo spirito della città.

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