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PERCHÉ LA REINTRODUZIONE DELLA “CAUSALE” PER I CONTRATTI A TERMINE È UN ERRORE

C’è un’ampia gamma di motivi seri, in sé legittimi, che possono indurre un imprenditore a sciogliere un contratto di lavoro, che è pressoché impossibile dimostrare in giudizio

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Intervista a cura di Maria Giovanna Della Vecchia pubblicata da
La Provincia di Como il 16 luglio 2018 – Sul decreto-legge del ministro Di Maio v. anche l’intervista del 21 luglio a Italia Oggi, Il decreto improvvisazione [1].
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Professor Ichino, il “decreto dignità” nasce con l’intenzione di arginare il precariato, ponendo fra l’altro limiti all’utilizzo dei contratti a termine. Quanto la nuova norma riuscirà nell’intento?
Le norme sono più d’una: riduzione da 5 a 4 del numero delle proroghe possibili, nonché necessità di causale giustificativa e maggior costo contributivo in tutti i casi in cui si superano i 12 mesi. Queste nuove norme hanno tutte, certo, un effetto restrittivo. La questione che dobbiamo porci è: se ci sarà una riduzione del flusso delle assunzioni a termine, ci sarà un corrispondente aumento delle assunzioni a tempo indeterminato? Perché se invece le restrizioni dovessero tradursi in perdita secca di occupazione, allora il bilancio del decreto non sarebbe positivo.

Vede questo rischio?
Sarebbe da irresponsabili non porsi il problema. Anche perché un’altra norma contenuta nel decreto disincentiva le assunzioni stabili, aumentando drasticamente il costo dell’eventuale licenziamento.

La norma a cui lei si riferisce, però, penalizza notevolmente soltanto i licenziamenti senza giusta causa (quindi non quelli per giustificato motivo oggettivo né tantomeno, va da sé, quelli per giusta causa) dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, aumentandone del cinquanta per cento l’indennizzo, portando il minimo a 6 mensilità (dalle precedenti 4 del jobs act) fino a un massimo elevato a 36. Non è questo un effettivo scoraggiamento dei licenziamenti non motivati?
Vede, c’è una ampia gamma di motivi seri, in sé legittimi, che possono indurre un imprenditore a sciogliere un contratto di lavoro, che è pressoché impossibile dimostrare in giudizio. È questo il motivo per cui le riforme del 2012 e del 2015 hanno allineato la nostra disciplina della materia a quella della generalità degli altri Paesi occidentali, mandando in soffitta il vecchio articolo 18. La stessa riforma ha stabilito degli indennizzi mediamente superiori ma complessivamente abbastanza in linea rispetto a quelli previsti negli altri Paesi; ora, con questo brusco aumento, torneremo a essere fuori linea, un caso anomalo per questo aspetto.

Quali possono essere dei motivi validi ma “non dimostrabili in giudizio”?
Per esempio, la cattiva integrazione di una persona nell’ambiente di lavoro, il suo imperfetto adattamento alle esigenze aziendali, la sua incapacità di adattarsi alle innovazioni tecnologiche od organizzative. Oppure la previsione di una perdita, conseguente a eventi futuri prevedibili. Si tratta di valutazioni, e le valutazioni non possono essere oggetto di prova giudiziale.

In che misura la riforma ha “licenziato il jobs-act”, come dice il ministro del Lavoro, o comunque ne ha intaccato la struttura?
Il decreto non ha intaccato la struttura della riforma del 2015, se non molto marginalmente. La riforma si articola in otto decreti legislativi, dedicati ad altrettante materie diverse, dall’assicurazione contro la disoccupazione ai licenziamenti, dai contratti di lavoro speciali alla Cassa integrazione, ai servizi per l’impiego, all’unificazione degli ispettorati del Lavoro; di tutto questo il decreto tocca soltanto l’entità dell’indennizzo previsto per il licenziamento, senza però intervenire sulla struttura della nuova disciplina.

Il decreto è, come ha dichiarato il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, la “Waterloo del precariato”?
Queste sono boutades del tutto scollegate dalla realtà, e anche un po’ – se mi è consentito – delle cadute di stile. La tendenza all’aumento dei contratti a termine è un fenomeno planetario, determinato dalla globalizzazioe che aumenta i fattori di incertezza di cui l’impresa deve tener conto, e dalla maggiore rapidità dell’evoluzione tecnologica. Non sarà certo questo decreto, nato all’insegna dell’improvvisazione, a contrastare quel fenomeno che si manifesta a tutte le latitudini e longitudini.

Il decreto colpisce le delocalizzazioni delle imprese che lasciano l’Italia prima che passino 5 anni dall’aver ottenuto agevolazioni pubbliche (ad esempio i contributi dell’iperammortamento) su investimenti strutturali. A parte gli effetti sull’occupazione che di per sé sono scontati quando un’azienda delocalizza, la sola esistenza di questa norma condizionerà comunque le politiche occupazionali delle imprese?
La stampa da sempre notizia delle imprese che se ne vanno via e non di quelle che invece investono da noi. Il risultato è che l’opinione pubblica si convince che il nostro problema principale sia costituito dalle troppe delocalizzazioni in uscita. In realtà, il flusso in uscita non ha niente di anomalo; il nostro problema principale, semmai, è costituito dal flusso troppo basso di investimenti esteri in entrata nel nostro Paese. Se riuscissimo ad allinearci per questo aspetto alla media europea, avremmo 50 o 60 miliardi in più di investimenti ogni anno, con centinaia di migliaia di posti di lavoro aggiuntivi, di ottima qualità. Ma per ottenere questo, dobbiamo rendere il nostro Paese più attrattivo per gli operatori internazionali. La minaccia di multe salatissime per chi decide di andarsene, e comunque la volatilità delle nostre regole, non vanno in questa direzione.

Come vede il fatto che le misure del decreto non valgano per i contratti della pubblica amministrazione?
È un passo indietro ulteriore rispetto al principio di parificazione della disciplina del settore pubblico rispetto al privato, introdotto nel 1993 e rafforzato nel 2001. Ma va detto che i primi passi indietro, su questo terreno, sono stati compiuti, purtroppo, dal ministro Brunetta nel 2009 e poi dalla ministra Madia nel 2017.

Siamo, nel complesso, davanti a quello che anche di fatto è un decreto che eleva la dignità dei lavoratori?
Ho scritto un articolo sul Corriere della Sera, la settimana scorsa, per mostrare che la dignità del lavoro non dipende dall’inamovibilità. Altrimenti dovremmo pensare che tutti i lavoratori stagionali, i lavoratori delle imprese di dimensioni minime, le centinaia di milioni di persone che a nord delle Alpi lavorano senza garanzie di inamovibilità, lavorino tutti in condizioni non dignitose. Il riferimento alla dignità mi sembra davvero inappropriato.

In definitiva a suo avviso il Paese sta vivendo una reale deriva di precariato in relazione alla situazione giovanile?
I contratti a termine sono in aumento in quasi tutti i Paesi dell’OCSE, come da noi, per i motivi che abbiamo visto prima. Da noi, in più, c’è la trasformazione in contratto di lavoro subordinato a termine di alcune centinaia di contratti di collaborazione autonoma continuativa: un risultato della riforma del 2015, in sé positivo per i lavoratori interessati, se si considera che il contratto a termine regolare ha un contenuto molto più ricco rispetto a quello di co.co.co. In termini di stock, comunque, la percentuale dei nostri contratti a termine, il 15%, è attualmente perfettamente il linea rispetto alla media europea.

Da giuslavorista e da protagonista del jobs-act, dove si deve fermare l’asticella del legislatore per evitare che superi la soglia oltre la quale non è più garantita la dignità?
Se col termine “dignità” intende riferirsi agli standard inderogabili fissati dalla nostra Costituzione e a quelli fissati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, non ci sono “asticelle” da alzare o abbassare un po’: ci sono solo divieti assoluti di discriminazione, protezione intransigente della salute della persona che lavora, della sua riservatezza, della sua libertà politica, sindacale, religiosa, di espressione del proprio pensiero. Ma con queste protezioni fondamentali il decreto-legge cui sta lavorando il Governo, per fortuna, non ha nulla a che fare.
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