UN DECRETO DESTINATO A PRODURRE EFFETTI MOLTO MODESTI, NEL BENE E NEL MALE

Una iniziativa legislativa dettata dall’improvvisazione, con contenuti in parte contraddittori, destinata probabilmente a una scarsa rilevanza effettiva

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Intervista a cura di Elena Polidori pubblicata sul
Quotidiano Nazionale  (Nazione, Giorno, Resto del Carlino) il 14 luglio 2o18 – In argomento v. anche Lavoro: una “dignità” un po’ confusa e contraddittoria  
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Professor Ichino, a suo giudizio, la stretta sui contratti a termine voluta da Di Maio proprio per contrastare il dilagare della precarietà, quali effetti produrrà nel concreto?
Se la reintroduzione dell’obbligo di motivazione delle proroghe verrà mantenuta, è probabile che il decreto produca solo un aumento del contenzioso giudiziale. Quanto alla riduzione del limite massimo di durata da 36 a 24 mesi, essa incide su di una frazione molto piccola rispetto al totale dei contratti a termine.

Sempre secondo lei, quale sarebbe stata, invece, la strada da seguire per correggere gli errori contenuti nel Jobs Act, emersi dopo la sperimentazione fatta in questi anni?
La cosa da fare sarebbe stata quella indicata nel capitolo 14 del “contratto” M5S-Lega: investire sul buon funzionamento dei Centri per l’Impiego e più in generale dare un forte impulso ai servizi nel mercato del lavoro e in particolare agli assegni di ricollocazione. Che non significa soltanto, né in primo luogo, assumere nuovo personale, ma soprattutto dotare i CpI del know-how necessario. È su questo terreno che i Governi Renzi e Gentiloni sono stati gravemente inadempienti: sull’implementazione di questa parte della riforma. Invece, su questo punto anche nel decreto non c’è nulla.

Perché non c’è nulla, secondo lei?
Perché è più facile porre mano all’ennesimo cambiamento delle leggi, che intervenire sulla struttura amministrativa per renderla efficiente, vincendo le enormi resistenze e responsabilizzando in modo rigoroso il management su obiettivi precisi e misurabili.

L’aumento al 50% dell’indennità di licenziamento a carico delle imprese sarà davvero un deterrente per limitare l’interruzione dei rapporti di lavoro?
Dopo la riforma dei licenziamenti del 2012, così come dopo quella del 2015, la probabilità per i lavoratori regolari a tempo indeterminato di essere licenziati è rimasta invariata: intorno all’1,4 per cento annuo. È ragionevole pensare che essa rimarrà invariata anche dopo l’entrata in vigore di questo decreto. Però l’aumento a sei mesi dell’indennizzo minimo nei primi due anni di svolgimento del rapporto di lavoro costituirà un disincentivo ad assumere a tempo indeterminato: un effetto contraddittorio rispetto all’intendimento di contenere i contratti a termine.

Come valuta la possibile reintroduzione dei voucher, seppur solo per settori limitati?
Molto positivamente. La soppressione operata nella primavera 2017 non rispondeva a una esigenza seria di politica del lavoro, ma soltanto all’esigenza di evitare un referendum promosso dalla Cgil, e sostanzialmente appoggiato anche dal M5S, che avrebbe reso impossibile una reintroduzione dei buoni-lavoro per i prossimi tre anni. Se oggi possiamo riaprire questo discorso, è per merito di quella scelta – pur sbagliata sul piano della politica del lavoro – compiuta dal Governo Gentiloni.

In ultimo, cosa servirebbe davvero, a suo giudizio e al di là della propaganda politica, per dare un forte incentivo alla ripartenza del mercato del lavoro?
L’allineamento del cuneo fiscale e contributivo sulle buste-paga a quello tedesco. Che implica una riduzione strutturale del contributo pensionistico di circa 7 punti. Questo era indicato nel Documenti di Economia e Finanza 2017, come obiettivo da raggiungere nell’arco del triennio successivo: il Governo Conte farebbe bene a farlo proprio. Poi, rendere il nostro Paese più attrattivo per gli investimenti stranieri; per questo occorrerebbe, insieme a tante altre cose, evitare che le leggi sul lavoro cambino a ogni stormire di fronde.

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