UNA FABBRICA CON 390 DIPENDENTI, NESSUNO A TEMPO INDETERMINATO

NON E’ UN CASO ISOLATO. OCCORRE UN NUOVO DIRITTO DEL LAVORO PER VOLTAR PAGINA RISPETTO AL REGIME DI APARTHEID CHE DIVIDE I LAVORATORI PROTETTI DAI NON PROTETTI
Intervista a cura di Carlo Bartoli pubblicata sul Tirreno il 3 novembre 2009

Mtm è un caso unico, oppure ci sono molte aziende che hanno un tasso molto alto – anche se non a questi livelli – di lavoro precario?
Non è affatto un caso unico: basti pensare a numerosi call center i cui dipendenti sono ancora qualificati e trattati in grande maggioranza come “lavoratori a progetto” o false “partite iva”. Ma ci sono anche molte grandi case editrici che hanno centinaia di redattori e correttori di bozze inquadrati in quel modo.
Dobbiamo considerare questi casi come anomalie, oppure è giusto lasciare una valvola di sfogo per casi particolari?
Non sono casi particolari. L’intero nostro tessuto produttivo, e anche il nostro settore pubblico, sono caratterizzati da un feroce regime di apartheid tra protetti e non protetti. I bad jobs sono l’altra faccia dell’inamovibilità garantita ai dipendenti stabili: il sistema scarica sulla metà non protetta della forza-lavoro tutta la flessibilità di cui ha bisogno.
Non dovrebbero essere introdotte comunque delle soglie minime nel rapporto lavoratori stabili/precari, che magari si innalzano gradualmente nel tempo?
Non mi sembra questa la soluzione migliore.
Ma le imprese chiedono flessibilità almeno su di una parte della forza-lavoro, per poter far fronte all’incertezza: altrimenti non assumono.
Sì; e l’incertezza, in questa fase di crisi è ancor maggiore che negli anni passati. Ma il problema non si risolve dividendo i lavoratori in serie A, serie B e serie C.
Qual è invece la soluzione che lei propone?
Ridisegnare il diritto del lavoro del futuro, quello che deve applicarsi a tutti coloro che verranno assunti d’ora in poi, senza toccare la posizione di chi ha già un lavoro stabile; e combinando il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza per i lavoratori nel mercato.
Come?
I nuovi contratti di lavoro, tranne i pochi casi classici di contratto a termine, tutti a tempo indeterminato, con una stabilità crescente col crescere dell’anzianità di servizio. Nessuno sarà inamovibile, ma tutti coloro che perderanno il posto saranno robustamente sostenuti nel mercato del lavoro. Per chi vuole maggiori dettagli rinvio al disegno di legge “per la transizione a un regime di flexsecurity”, che ho presentato con altri 35 senatori nel marzo scorso, n. 1481/2009: lo si può scaricare anche dal mio sito.
Troppe volte, però, flessibilità diventa precarietà, ricattabilità, rischio di discriminazione.
Nei regimi di flexsecurity in vigore nel nord-Europa, a cui questo progetto si ispira, i lavoratori godono di una protezione molto forte contro le discriminazioni vietate. Non è certo questa che deve essere indebolita. Quello che è sbagliato, nel nostro sistema attuale, è che si affidi al giudice il controllo sui motivi economici od organizzativi del licenziamento, che è cosa molto diversa dal controllo antidiscriminatorio, dalla protezione contro le vessazioni.
L’eccessiva precarizzazione permette di “spremere” gli operai, ma non ne incentiva la crescita professionale. Non è una formula vecchia che non ha futuro, in quanto buona solo per lavorazioni poco qualificate?
È proprio così. Dove il lavoro è precario nessuno investe sul “capitale umano”, sulla professionalità: né l’impresa, né lo stesso lavoratore. Per questo dico che l’attuale regime di apartheid non è soltanto iniquo: è anche inefficiente.

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