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IL PARTITO “FONDATO SUL LAVORO” E L’APARTHEID TRA I LAVORATORI

UN PARTITO CHE SI QUALIFICA COME “FONDATO SUL LAVORO” NON PUO’ PARLARE SOLTANTO A META’ DEI LAVORATORI, NON PUO’ ASSUMERE COME RIFERIMENTO PRIVILEGIATO SOLTANTO META’ DEL MOVIMENTO SINDACALE, NON PUO’ IGNORARE CHE A REGOLARE I RAPPORTI DI LAVORO E’ PREPOSTO SOPRATTUTTO UN SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI, LA CUI AUTONOMIA VA PROMOSSA RISPETTATA E DIFESA

Intervento che ho svolto nella sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del Pd del 22 maggio 2010, per esporre i motivi di parziale  dissenso miei e di numerosi altri membri della stessa Assemblea dal documento-base proposto dal Responsabile dell’Economia [1] per la nuova politica del lavoro del Partito – Nella votazione finale su quel documento e sul verbale sintetico dei lavori della Commissione [2] dedicata a questa materia, le astensioni (42) hanno quasi raggiunto il numero dei voti favorevoli

     Immaginate che, trent’anni or sono, in Sud Africa un partito si fosse rivolto ai neri, che allora erano pesantemente discriminati su tutti i piani da un regime di ferreo apartheid,  con un discorso di questo genere: “noi auspicheremmo per voi una piena parità rispetto ai bianchi, ma ci rendiamo conto che questo è un obiettivo prematuro e un po’ troppo costoso; per il momento, dunque, non potete pretendere di salire sugli stessi autobus dei bianchi e  di mangiare nei loro stessi ristoranti; per voi proponiamo soltanto la graduale introduzione di una base di diritti di cittadinanza”. Secondo voi, quel partito avrebbe potuto qualificarsi come “democratico”?
     Ora, considerate che, alle porte di una grande città del nord, c’è una grande impresa editoriale, dove lavorano come redattori e correttori di bozze 1100 bianchi, con rapporti di lavoro subordinato regolare, e 400 neri, suddivisi in paria di serie B (quelli con rapporto di lavoro “a progetto”), di serie C (quelli con “partita Iva”) e di serie D (gli stagisti pagati 300 euro al mese). Bianchi e neri fanno tutti esattamente gli stessi lavori, gomito a gomito tra loro, ma con alcune differenze: che quando c’è da chiudere un libro urgentemente, sono i neri che fanno le ore piccole senza una lira di straordinario; e che, viceversa, quando il lavoro non c’è, sono i neri a essere mandati a casa, senza un giorno di preavviso e senza un euro di indennizzo. Poi ci sono alcune altre differenze: i neri non vengono pagati se si ammalano, non hanno limiti di orario, non hanno diritto a permessi o ferie retribuite. Non hanno diritto neanche alla chiavetta per la macchina del caffè, al materiale di cancelleria, al parcheggio dell’auto in azienda, a salire sul pulmino aziendale che fa la navetta tra l’azienda e il centro-città. E quando si fa l’esercitazione anti-incendio, loro non devono parteciparvi: non sono mica dipendenti regolari!
     Guardate che non sto parlando di un caso particolare: ci sono interi settori, nel nostro Paese, che funzionano in questo modo: non solo quello  editoriale, ma anche le case di cura, dove non si assume regolarmente un solo medico o infermiere, perché tutti sono “a partita Iva”, o “a progetto”, o “appaltati” a cooperative, o comunque ingaggiati in forme anomale per eludere gli standard di trattamento. E in tutti i settori oggi di fatto si possono assumere in questi modi magazzinieri, carpentieri, segretarie di ufficio, autisti, portieri, tecnici informatici e qualsiasi altra figura professionale.
     Bene, ora immaginate che un partito dica a questi lavoratori di serie B, C e D: “noi auspicheremmo per voi una piena parità rispetto a quelli di serie A, ma ci rendiamo conto che per il momento questo è impossibile; è un obiettivo da collocare in un quadro di elevata e consolidata dinamica della produttività, condizione necessaria a compensare il connesso aumento di costo perl’impresa; per il momento, dunque, proponiamo per voi soltanto la graduale introduzione di una base di diritti di cittadinanza“. Non “i diritti di cittadinanza” tout court, che sarebbe velleitario, eccessivo: solo “una base” di quei diritti. Voi neri non potete pretendere di avere le stesse retribuzioni dei vostri colleghi, la tredicesima e il premio di produzione, i limiti di orario; e neanche – ohibò – una qualche garanzia di continuità del reddito e del rapporto: per voi proponiamo soltanto – e, sia ben chiaro, gradualmente – “una base di diritti di cittadinanza”, e un aumento dei contributi previdenziali, perché il vostro lavoro costa troppo poco. Che cosa penseranno quei lavoratori di un partito che fa loro discorso di questo genere?
     Questo discorso ai lavoratori di serie B, C o D, che vi ho letto, non è una caricatura: sono le parole testuali del documento che ci viene proposto come espressione sintetica della nuova politica del lavoro del Pd. Intendiamoci bene: per l’80 per cento questo documento contiene proposte buone, frutto maturo dell’elaborazione e del dibattito all’interno del Partito in questi ultimi due anni; proposte per certi aspetti anche molto innovative e per nulla scontate, il cui valore va apprezzato e sottolineato. Ma per quel che riguarda il superamento del regime di apartheid fra protetti e non protetti, il discorso è né più né meno quello che vi ho riportato adesso. Un discorso che a me sembra gravemente inadeguato, che dice poco o nulla ai milioni di giovani ai quali il nostro tessuto produttivo oggi riserva soltanto lunghi o lunghissimi periodi di permanenza in serie D o serie C, con il miraggio della promozione in serie B (questo è di fatto quello che si offre alla grande maggioranza dei giovani oggi nel nostro Paese).
     A me sembra che un Partito che si qualifica come “fondato sul lavoro” non possa ridursi a parlare credibilmente soltanto a una metà dei lavoratori del Paese.
     Ieri sera, nel corso del dibattito in Commissione su questi temi, Sergio D’Antoni ha criticato il mio progetto per il superamento del regime attuale di apartheid accusandolo di essere troppo giacobino, troppo massimalista: “non è pensabile – ha detto – estendere subito a tutta questa area di lavoratori in posizione di dipendenza economica ma formalmente autonomi l’intero diritto del lavoro: le aziende non ne reggerebbero il costo”. E’ la stessa cosa che abbiamo letto ora nel documento di Stefano Fassina: “l’unificazione dei contratti dilavoro è un obiettivo da collocare in un quadro di elevata e consolidata dinamica della produttività, condizione necessaria a compensare il connesso aumento del costo per l’impresa”. Ora, Fassina e Damiano dovrebbero spiegarci come si concilii questa affermazione con l’obiettivo che negli ultimi tempi essi stessi hanno sempre indicato come centrale nella strategia che propongono: quello di far costare il “lavoro atipico” più del lavoro subordinato ordinario. Se capisco bene quello che essi propongono, il lavoro dei paria deve costare molto caro, ma soltanto se il maggior costo deriva da un aumento dei contributi Inps; se invece il maggior costo deriva dalla parificazione delle posizioni contrattuali, allora non va più bene. Non mi sembra un discorso proponibile.
     Ma non voglio eludere l’obiezione di Sergio D’Antoni, che è fondatissima. E’ vero: estendere il diritto del lavoro dei bianchi, così come esso è oggi, a tutti i neri aumenterebbe notevolmente il costo medio del lavoro per le imprese e le priverebbe del “polmone” di flessibilità che oggi consente loro di compiere gli aggiustamenti necessari tempestivamente e a costo zero. Se  questo è il problema – e sicuramente lo è – allora, io dico, riconosciamolo apertamente: diciamo chiaro che oggi il sistema si regge sul maltrattamento dei paria. E riconosciamo, dunque, che per i rapporti di lavoro destinati a costituirsi da ora in poi occorre ridisegnare un diritto del lavoro che possa applicarsi veramente in modo uguale a tutti (un diritto unico del lavoro, più che un contratto unico), senza compromettere la competitività delle nostre imprese. Affrontiamo il problema difficile, ma non insolubile, della valutazione di ciascuna parte della disciplina: quella che è eccessiva per gli uni deve essere considerata eccessiva anche per gli altri; ma, simmetricamente, quella che è insufficiente per i lavoratori di serie A deve considerarsi insufficiente anche per quelli che oggi releghiamo nella casta dei paria.
     Se questo passaggio ci spaventa, al punto di paralizzarci, è perché esso interpella profondamente il nostro sistema di protezione del lavoro, ne mette impietosamente in discussione l’attuale struttura. E di questa discussione abbiamo paura. Ma se non sapremo affrontare questa discussione ci precluderemo di mettere a fuoco la profonda crepa interna di questo sistema, di renderci conto che la condizione di lavoro dei paria è l’altra faccia della medaglia della condizione di lavoro di chi nella cittadella fortificata del lavoro regolare è riuscito a entrare. Rifiutare di guardare in faccia questa realtà significa scegliere di non affrontare la questione dell’apartheid, o di affrontarla soltanto con misure parziali, timide, inadeguate.
     Prendere il toro per le corna, affrontare di petto la questione, è invece quello che ci siamo proposti di  fare con il disegno di legge n. 1873 [3], che ho presentato nel novembre scorso con altri 54 senatori del Pd: un nuovo diritto del lavoro semplice, chiaro, incisivo, capace di essere letto e capito da tutti, di applicarsi davvero a tutti i rapporti di lavoro sostanzialmente “dipendente”, coniugando il massimo possibile di flessibiltà per le strutture produttive con il  massimo possibile di sicurezza per tutti i lavoratori (e non soltanto metà di essi), risolvendo per le imprese oneste e rigorose il problema della concorrenza sleale che oggi quelle più spregiudicate possono impunemente porre in atto. Non abbiamo certo la pretesa che ciascuna delle soluzioni trovate in questo disegno di legge sia la migliore; anzi, noi auspichiamo che su ciascun articolo si sviluppi una negoziazione serrata tra le parti sociali interessate, che “sposti l’asticella” dello standard in modo da garantire l’equilibrio più opportuno e universalmente praticabile;  ma, al di là delle soluzioni che verranno adottate sui singoli punti, il disegno di legge mostra che l’operazione è tecnicamente possibile, ed è politicamente pensabile come soluzione per l’oggi, non per il 2020 o il 2030. Dimostra, soprattutto, che essa è pensabile senza togliere niente a nessuno: non si tocca la posizione di chi ha già un rapporto di lavoro stabile, regolato dalla vecchia disciplina; ma a tutti i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, e anche agli adulti che il lavoro lo hanno perso, si offre qualche cosa di molto, molto meglio rispetto alle prospettive che oggi si offrono loro nel nostro mercato del lavoro, superando l’indecente regime attuale di apartheid, che – badate bene – come ogni apartheid non lede gravemente soltanto la dignità dei paria, ma quella di tutti.

     Nel documento che ci viene proposto vedo poi un’altra pecca grave: esso si configura come una sorta di piattaforma rivendicativa alla vecchia maniera, redatta (anche con un linguaggio un po’ alla vecchia maniera) in funzione di una negoziazione tra  un ideale sindacato e il legislatore, dimenticando totalmente che, in un Paese moderno, quando si parla di lavoro, si parla anche e soprattutto di sistema di relazioni industriali, di negoziazione collettiva. Del sistema di relazioni industriali come fonte primaria di una equilibrata disciplina dei rapporti di lavoro, di cui difendere gli spazi e l’autonomia dal potere politico, in questo documento non c’è la minima traccia. Con questo il nostro Partito mostra oggi una chiusura sbagliata e pericolosa nei confronti della cultura propria di una grande confederazione sindacale, la Cisl, come anche nei confronti di quella di cui oggi è portatrice la Uil.
     Un Partito che si qualifica come “fondato sul lavoro” non può ridursi a fare riferimento soltanto a metà del movimento sindacale. Ho da 41 anni la tessera della Cgil, che considero ancora la mia casa; ma questo non mi impedisce di dire che il nostro Partito non può assumere soltanto la Cgil come suo “socio di riferimento”. Sarebbe sbagliato, del resto, anche considerare come soci di riferimento soltanto Cgil, Cisl e Uil insieme, magari con l’aggiunta dell’Ugl: perché un grande Partito che si qualifica come “fondato sul lavoro” non può non fare riferimento al mondo del lavoro come a un sistema del quale è parte essenziale anche il lavoro degli imprenditori. Le riforme che proponiamo in questo campo non soltanto devono essere rispettose dell’autonomia del sistema di relazioni industriali, quindi del principio di sussidiarietà, ma devono anche essere progettate, in seno al partito, attraverso un pieno coinvolgimento dei molti ed esponenti di spicco del mondo imprenditoriale che hanno scelto di servire il Paese anche sul piano politico aderendo al Pd. Essi invece non sono mai stati sollecitati a partecipare al lavoro di elaborazione della politica del lavoro del Partito.
     Questo discorso mi porta a proporvi un’ultima considerazione. In questi giorni in cui si celebrano i quarant’anni dello Statuto dei lavoratori, il ministro Sacconi ha manifestato il suo intendimento di chiedere al Parlamento una delega legislativa al Governo per la riscrittura di quella legge. A questa prospettiva una parte cospicua del movimento sindacale e della vecchia sinistra risponde, quasi per riflesso condizionato: “lo Statuto dei lavoratori non si tocca; giù le mani dallo Statuto”. Raffaele Bonanni ha risposto invece rivendicando la competenza del sistema di relazioni industriali a discutere gli aggiornamenti e aggiustamenti di cui – è del tutto ragionevole ritenerlo – anche questa legge importantissima ha bisogno, in relazione al nuovo contesto in cui essa deve applicarsi. Secondo voi, dopo la caduta del sistema consociativo della prima Repubblica, nel quale alla sinistra era attribuito un potere di veto in materia di legislazione del lavoro, e con una maggioranza di centrodestra che domina in Parlamento come domina la maggioranza attuale, delle due strategie qual è la più efficace per difendere il sistema delle regole in materia di lavoro e sindacale dalle incursioni della politica? E’  più efficace quella del “lo Statuto non si tocca” o quella della riaffermazione del ruolo e dell’autonomia del sistema delle relazioni industriali?
     Certo, quest’ultima prospettiva – quella del rilancio dell’autonomia collettiva – è più credibile in un quadro nel quale le associazioni imprenditoriali trattino con uno schieramento sindacale unito. Ma questa unità oggi si può costruire più facilmente su di una posizione antistorica, come quella del “lo Statuto non si tocca”, o sulla disponibilità ad accettare i rischi e le difficoltà di una negoziazione di questo genere, ma sempre all’interno di un sistema di relazioni industriali? Il centrodestra sa benissimo che il tempo del consociativismo della prima Repubblica è da tempo finito e non chiede altro che poter occupare manu militari i larghi spazi che la paralisi del sistema delle relazioni industriali oggi gli regala. Contribuisce a regalargliele anche un Partito democratico che del sistema delle relazioni industriali da troppo tempo sottovaluta il ruolo, attribuendo in questo campo un primato strategico all’intervento legislativo, per una inveterata sfiducia nei confronti della contrattazione collettiva.
     Non voglio chiudere questo mio intervento con una notazione negativa. Né voglio in alcun modo porre in ombra le molte cose positive su cui in questi primi due anni e mezzo di vita si è costruito un ricco patrimonio programmatico del Partito Democratico. Ma sono convinto che, su questo terreno, la parte decisiva del lavoro sia proprio quella che riguarda la ricostruzione di un moderno, libero e forte sistema di relazioni industriali, così come quella che riguarda il superamento dell’apartheid fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro.