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POMIGLIANO: UN CASE STUDY INTERESSANTE SULL’USO POLITICO DELLA DISINFORMAZIONE

LA FIOM HA BISOGNO DI SOSTENERE CHE L’ACCORDO FIRMATO DA FIM, UILM E FISMIC VIOLA LA LEGGE E LA COSTITUZIONE, PER EVITARE CHE IL DIBATTITO PUBBLICO ENTRI NEL MERITO DELLA VERA QUESTIONE: QUELLA, CIOE’, SUL PUNTO SE UN PIANO INDUSTRIALE DELLE DIMENSIONI DI QUELLO PROPOSTO DA MARCHIONNE VALGA O NO UNA CLAUSOLA DI TREGUA E TRE DEROGHE MARGINALI AL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE

Comunicazione svolta al seminario promosso dall’Arel a Roma il 29 settembre 2010, aperto da una relazione di Raffaele De Luca Tamajo, sull’impatto dell’accordo di Pomigliano sull’evoluzione del sistema italiano delle relazioni industriali – Le altre comunicazioni al convegno sono state svolte da Cesare Damiano, Giorgio Santini e Agostino Megale

            La vicenda dell’accordo di Pomigliano merita di essere studiata non soltanto come fatto rilevantissimo nell’evoluzione del nostro sistema delle relazioni industriali, ma anche come case study di straordinario interesse sotto il profilo politologico.

            La Fiom ha motivato il rifiuto di sottoscrivere quell’accordo con l’affermazione secondo cui esso conterrebbe violazioni della legge italiana e addirittura della Costituzione. Tali violazioni sarebbero ravvisabili, in particolare: a) nella disposizione che esclude il pagamento della retribuzione per il giorno di malattia, quando esso coincida con una punta anomala di assenze correlata con un “evento esterno a carattere non epidemico” (per esempio: la partita di calcio del mercoledì); b) nelle disposizioni mirate a scoraggiare gli scioperi volti a impedire l’attuazione del programma contrattuale. La relazione introduttiva di Raffaele De Luca Tamajo a questo nostro seminario mostra come nessuna violazione di legge – né tanto meno della Costituzione – sia ravvisabile in quelle disposizioni. Per quel che riguarda la validità della clausola di tregua, in particolare, l’accordo contrasta soltanto con un orientamento dottrinale e giurisprudenziale vecchio di mezzo secolo – quello per cui la clausola di tregua vincola solo il sindacato, ma non il singolo lavoratore cui il contratto si applica –, che non ha alcun fondamento testuale né nella Costituzione né nella legge ordinaria; orientamento che, a quanto mi risulta, negli ultimi vent’anni non ha avuto conferme in sede giudiziale e che in sede dottrinale oggi può considerarsi minoritario.

            Sta di fatto che, nei molti dibattiti pubblici cui ho partecipato negli ultimi mesi con esponenti della Cgil e della stessa Fiom, alla fine anch’essi hanno sempre convenuto che, in realtà, il motivo del rifiuto di sottoscrivere l’accordo è stato non tanto un suo contrasto con la legislazione vigente, quanto le deroghe che esso comporta rispetto al contratto collettivo nazionale di settore.

            Se le cose stanno così, perché denunciare una violazione della legge, anzi addirittura della Costituzione? Credo che la risposta sia questa: mentre la trincea della difesa della legge e della Costituzione è facilmente difendibile, la trincea dell’inderogabilità rigida del contratto collettivo nazionale in questo caso lo sarebbe stata molto meno. Convincere l’intera opinione pubblica nazionale della necessità di respingere un piano industriale da 20 miliardi, in una situazione di crisi economica gravissima, in omaggio all’intangibilità di un contratto collettivo, sia pur di livello nazionale, appare effettivamente assai problematico. Appare addirittura impossibile quando – come nel caso di Pomigliano – le deroghe richieste mirano a combattere fenomeni evidenti e massicci di assenteismo abusivo, oppure consistono nell’aumento del limite annuo del lavoro straordinario per conseguire una maggiore saturazione della capacità produttiva di impianti d’avanguardia e costosissimi, in una regione come la Campania che soffre cronicamente di mancanza di lavoro, dove l’alternativa occupazionale per le migliaia di lavoratori interessati è solo il lavoro nero sottopagato, senza diritti e senza sindacati, nel tessuto degradato e infetto dell’economia sommersa controllata dalla camorra.

Questa essendo la situazione, l’unico modo per far presa sull’opinione pubblica consisteva nel drammatizzare lo scambio contenuto nell’accordo: la sua rappresentazione corretta in termini di “lavoro in cambio di deroghe marginali al contratto nazionale” doveva essere sostituita con “lavoro in cambio della rinuncia ai diritti”; anzi, meglio ancora, “lavoro in cambio dell’accettazione dell’illegalità”. Gli slogan “no alla violazione della legge” o “la Costituzione è sacra” hanno ovviamente molto più appeal degli slogan “no alla derogabilità del contratto collettivo nazionale” o “no alla tregua sindacale”. Su questi ultimi, anche l’opinione pubblica meno smaliziata avrebbe probabilmente avuto qualche serio dubbio, a fronte della prospettiva di veder svanire un investimento colossale nell’Italia affamata di lavoro e da un quarto di secolo incapace di crescita economica.

Ora, si può anche capire che nelle assemblee di fabbrica, nel fuoco della polemica, il sindacato dissenziente si lasci andare a qualche esagerazione, e anche a qualche forzatura giuridica fuorviante. Quel che dà da pensare è che la forzatura giuridica fuorviante proposta dalla Fiom sia stata fatta propria – almeno nelle dichiarazioni pubbliche – dall’intera Cgil, poi a ruota dagli opinionisti di Repubblica (con la sola notevole eccezione di Tito Boeri), dall’Unità e da alcuni esponenti di vertice del Partito democratico. I quali non hanno ritenuto di chiedersi neppure per un momento come fosse potuto accadere che altre due grandi confederazioni sindacali avessero firmato un accordo contrastante con la Costituzione e con la legge ordinaria; salvo dopo qualche giorno attestarsi sulla posizione assurda secondo cui “l’accordo di Pomigliano va accettato, purché sia un’eccezione limitata a quel solo stabilimento, non suscettibile di imitazione”. Cosicché da quel momento mezza Italia ha incominciato a pensare che, effettivamente, l’accordo di Pomigliano sia contrario alla legge e costituisca quanto meno un pericoloso precedente di “smantellamento dei diritti dei lavoratori”, sacrificati sull’altare della globalizzazione.

In un Paese nel quale i temi della politica del lavoro sono stati sempre fortemente drammatizzati, al punto che su di essi si è ripetutamente versato il sangue dei suoi protagonisti, almeno dal quotidiano di riferimento del centrosinistra ci si dovrebbe poter attendere una maggiore capacità critica di fronte a forzature gravi come questa. E ancor più ce la si dovrebbe attendere dal partito che aspira a incarnare nella società civile e in Parlamento l’alternativa di centrosinistra. Se non altro perché queste forzature si ritorcono poi pesantemente contro il partito stesso, impedendogli di affrontare il problema nei suoi termini reali: infatti il Pd sta perdendo l’occasione per una discussione seria sulla questione della derogabilità del contratto collettivo nazionale, sulla quale è costretto a un imbarazzato silenzio. Ma l’indulgente avallo di queste forzature da parte del Partito democratico si ritorce anche contro lo stesso movimento sindacale, accentuandone la spaccatura: perché dà una “copertura” alla tesi secondo cui effettivamente l’accordo viola la legge, rafforzando in seno alla Cgil i sostenitori del non possumus e indebolendo i sostenitori di un esame pragmatico della questione sindacale effettiva, ovvero del solo atteggiamento che potrebbe portare a una ricucitura con la Cisl e la Uil.

In questi ultimi giorni la frattura del fronte sindacale si è aggravata con la firma dell’accordo tra Federmeccanica, Fim e Uilm, che allarga notevolmente i confini della derogabilità del contratto collettivo nazionale rispetto all’accordo interconfederale dell’aprile 2009. Privo di una propria linea su questa materia, il Pd si rifugia in un’insulsa manifestazione di “preoccupazione per il fatto che su questa materia si stipulino accordi nazionali senza la firma della Fiom”; non rendendosi conto che la frattura, la firma separata, è stata favorita proprio dalla condiscendenza del partito stesso nei confronti della falsificazione iniziale dei termini della questione.

È evidente, per altro verso, come quella falsificazione influisca anche sul dibattito circa il riassetto dei rapporti tra contratto nazionale e contratto aziendale. Essa, infatti, consente di tenere nettamente separata la questione posta in riferimento all’accordo di Pomigliano (“se sia ammissibile che si accetti la violazione della legge in cambio di posti di lavoro”) dalla questione che è oggetto dell’accordo Federmeccanica/Fim-Uilm (“se e in quale misura sia opportuno rendere derogabile il contratto collettivo nazionale ad opera dei contratti aziendali”). Si osservi come questa separazione sia necessaria alla Fiom nel suo rapporto con l’opinione pubblica: essa infatti permette di mantenere la questione della derogabilità del contratto collettivo nazionale su di un piano generale e astratto, e di affrontarla sul piano mediatico con una parola d’ordine che vanta quattro quarti di nobiltà: “occorre difendere la funzione del contratto collettivo nazionale, garanzia di uno standard di trattamento minimo uguale su tutto il territorio nazionale”. Se invece la questione generale della derogabilità del contratto collettivo nazionale viene affrontata in riferimento a un caso concreto come quello di Pomigliano, senza lo schermo di una inesistente violazione di legge, allora quella nobile parola d’ordine si rivela debole e inefficace, perché anche i non esperti di relazioni industriali colgono facilmente il nocciolo della questione nella sua concretezza: colgono subito, cioè, l’evidenza del fatto che “deroga al contratto nazionale” non vuol dire necessariamente “deroga per star peggio”, dumping sociale, “guerra tra poveri”, poiché, al contrario, essa può rendersi necessaria per sperimentare innovazioni positive nell’organizzazione del lavoro, nel sistema di inquadramento, o nella struttura della retribuzione, per aumentare la produttività e quindi migliorare le condizioni di lavoro, in casi particolari come quello di Pomigliano anche per eliminare sprechi e piccole posizioni di rendita parassitaria.

Guardare al caso concreto aiuta a comprendere ciò che ancora la vecchia sinistra politica e sindacale non ha compreso: cioè che il nostro ordinamento intersindacale tradizionale, fondato sulla regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale, non impedisce soltanto il dumping sociale, la concorrenza al ribasso, bensì impedisce anche l’innovazione che fa star tutti meglio. Quest’ultima non si presenta mai come fenomeno che interessa un intero settore, ma – direi quasi, per definizione – si presenta sempre come fenomeno che interessa una singola azienda e che solo in un secondo tempo, quando ne conseguono effetti positivi, tende a essere imitata e quindi a estendersi. Con l’imporre a tutte le imprese del settore la rigida conformità a un modello nazionale unico di organizzazione del lavoro, di inquadramento professionale, di struttura delle retribuzioni, di distribuzione dei tempi di lavoro, ostacoliamo di fatto l’innovazione. Per paura dell’innovazione cattiva, con la regola della rigida inderogabilità del contratto nazionale (derogabile soltanto se tutti i sindacati sono d’accordo) teniamo fuori della porta, o quanto meno freniamo fortemente, anche l’innovazione buona.

Cinque anni fa ho dedicato un libro – A che cosa serve il sindacato [1], Mondadori, 2005 – a mostrare numerosi casi concreti nei quali questo nostro errore nazionale si è manifestato in modo molto evidente; e anche a descrivere (pagg. 117-134) un caso immaginario che presenta somiglianze impressionanti con il caso di Pomigliano. Quel libro è stato letto soltanto da qualche decina di migliaia di persone; del caso di Pomigliano, invece, parlano ogni giorno da mesi tutti i giornali e i telegiornali: il rischio che nella sua concretezza esso renda evidente a milioni di italiani l’insostenibilità della regola dell’inderogabilità rigida del contratto collettivo nazionale è dunque altissimo. Per questo i difensori di quella regola hanno tentato di bloccare sul nascere il dibattito sull’accordo Fiat demonizzandolo: per porre un diaframma tra la questione che esso solleva e la questione generale della derogabilità del contratto nazionale. Per far questo hanno denunciato violazioni della legge e della Costituzione che non ci sono affatto, contando sul conformismo dell’informazione e della politica nell’area del centrosinistra.