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SE LA CGIL PROCLAMA (DA SOLA) LO SCIOPERO GENERALE

LA CGIL, PUR CON TUTTA LA SUA GRANDE FORZA, CORRE UN FORTE RISCHIO DI ISOLAMENTO NEL SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E NELL’OPINIONE PUBBLICA – L’UNICA VIA PER EVITARLO E’ QUELLA DI UNA RICUCITURA CON CISL E UIL PER UN ACCORDO INTERCONFEDERALE SULLE REGOLE DI DEMOCRAZIA SINDACALE NELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Testo integrale dell’intervista a cura di Fabio Martini, pubblicata sul la Stampa, con qualche taglio per ragioni di spazio, il 18 ottobre 2010

La Fiom ha chiesto lo sciopero generale, importante arma politica che in passato ha contribuito a far cadere governi, ma se Cisl, Uil e anche gli “autonomi” non dovessero aderire, avrebbe senso uno sciopero generale indetto soltanto da un sindacato?
Uno sciopero generale proclamato dalla sola Cgil potrebbe avere due significati diversi. Il primo è quello di uno sciopero politico contro il Governo, col quale la Cgil sottolinei un proprio ruolo di supplenza rispetto a un’opposizione considerata debole e inconcludente.

Torna il mito salvifico dello sciopero generale?
Più che quel mito salvifico, vedrei l’accentuarsi della connotazione politica dell’azione della Cgil, che finirebbe per indebolirla sul terreno delle relazioni industriali. Ma probabilmente lo sciopero generale a cui sabato ha accennato Epifani, al di là degli slogan, ha un altro significato sostanziale.

Quale?
Quello di sbarramento contro la riforma del sistema delle relazioni industriali che il ministro Sacconi si propone di costruire lasciandone fuori la Cgil. Lo sciopero generale potrebbe essere concepito come una dimostrazione di forza, che renda evidente l’impossibilità di quel disegno. Ma sarebbe molto rischioso, proprio dal punto di vista dell’interesse della Cgil.

Che rischio vede?
Il rischio dell’isolamento rispetto a un’opinione pubblica molto lontana dal vedere in uno sciopero generale un passo avanti verso la soluzione dei problemi del Paese. Poi il rischio di una accentuazione della spaccatura rispetto a Cisl e Uil, che potrebbe finir coll’agevolare, invece che contrastare, il disegno del ministro.

La compostezza del corteo, il carattere isolato delle invettive pur violentissime contro Bonanni, possono far pensare a una “base” più “riformista” dei propri vertici?
Non direi. La compostezza del corteo è stata il frutto di un forte impegno dei vertici della Cgil. Il problema oggi non è una loro “scompostezza”.

Qual è allora?
Il nostro sistema delle relazioni industriali è stato disegnato in un’epoca, gli anni ’70, in cui l’unità sindacale pareva dietro l’angolo. Oggi la divaricazione delle visioni e strategie della Cgil rispetto quelle di Cisl e Uil è sempre più marcata; e il sistema non è in grado di dirimere il contrasto. Col risultato che il dissenso genera paralisi e tensioni fortissime.

Come se ne esce?
Introducendo un principio di democrazia sindacale. Occorre un accordo interconfederale firmato da tutti, che definisca il modo in cui si misura la rappresentatività dei sindacati, a tutti i livelli, e stabilisca precisamente i poteri negoziali della coalizione maggioritaria ai livelli inferiori rispetto a quello nazionale. Ecco il modo in cui la Cgil potrebbe davvero sventare il rischio di essere messa all’angolo.

E se questo accordo interconfederale non arriva?
È compito del legislatore intervenire, in via sussidiaria e provvisoria, cioè nell’unico modo nel quale alla politica dovrebbe essere consentito intervenire nel campo delle relazioni industriali.

È fisiologico che il Pd non faccia il tifo per uno dei sindacati confederali. Ma trova naturale che il leader di quel partito, dopo aver disertato il corteo, aderisca ex post se non alle sue ragioni, quantomeno al suo “spirito”?
Bersani ha detto soltanto che anche la Cgil ha diritto a essere ascoltata. E a essere parte integrante del sistema delle relazioni sindacali.

La piattaforma della Fiom, e alla fine anche della Cgil, può diventare il programma di governo del Pd che si candida a succedere a Berlusconi?
Direi proprio di no. Come dice Sergio Cofferati, “a ciascuno il suo mestiere”.

Che cosa intende dire?
Al sindacato spetta negoziare le condizioni di lavoro e la spartizione dei frutti. Alla politica il compito di far funzionare meglio l’intero sistema produttivo e far sì che la torta da spartire sia più grossa possibile, garantendo che nessuno sia escluso dalla spartizione della torta. I due ruoli non devono confondersi, anche perché il sindacato è, per sua natura, portatore degli interessi di un segmento soltanto della società civile.

La perdita di così tanti posti di lavoro e la difficoltà di tanti “padroni” di restare sul mercato con le regole del passato, imporrebbero a una forza riformista a vocazione governativa coraggio progettuale: secondo lei come si governa questa fase così difficile?
L’Italia sta subendo la parte cattiva della globalizzazione, senza essere capace di prenderne la parte buona, cioè la possibilità di attirare il meglio dell’imprenditoria straniera. Dobbiamo correggere i difetti del sistema che tengono lontani dal nostro Paese i buoni piani industriali delle multinazionali. Tra questi, con buona pace della Fiom, io metto anche il piano di Marchionne da venti miliardi per la “Fabbrica Italia”.